Ifigenia XCIV. L’inquisizione risibile. Seconda parte. Il metodo comparativo.
La parte più importante dell’ispezione era finita. Allora le materie che contavano nel liceo classico erano latino e greco, anzi greco e latino. A me questo non dispiaceva. Dopo tutto dallo studio dei classici non solo ho imparato a parlare e a scrivere come si deve ma ho anche tratto il fondamento della mia identità.
Comunque non trascuravo la storia greca e romana, né l’italiano . Della nostra letteratura preferivo approfondire quella più legata agli autori greci e latini; inoltre mi stavo preparando anche su alcuni autori europei: soprattutto inglesi, tedeschi e russi per ampliare il mio repertorio e potenziare il mio metodo già allora comparativo.
In quel tempo tale mevqod~, questa via, nella scuola non esisteva: nessuno mi aveva mai detto che Shakespeare per alcuni drammi ha utilizzato una traduzione inglese di una traduzione francese di biografie di Plutarco come quelle di Giulio Cesare, di Antonio, e di Coriolano.
All’Università ero stato indirizzato a studiare T. S. Eliot dal professor Carlo Izzo cui sono ancora grato. Leggendo La terra desolata mi ero sentito incoraggiato e autorizzato ad accostare tovpoi usati in maniera simile da autori diversi anche molto lontani nel tempo. Lo facevo d’istinto quando ero scolaro e ripresi a farlo insegnando.
Studiando l’Antonio e Cleopatra di Shakespeare, per esempio, ripassavo la Vita di Antonio di Plutarco e rivedevo la lingua inglese che mi era simpatica poiché me ne ero avvalso per corteggiare le ragazze straniere.
Il preside dunque tornò per esaminare e magari sanzionare il mio insegnamento dell’italiano e mi domandò su quali poeti avessi fatto lezione nei mesi precedenti. Sospettava che scegliessi e propagandassi testi eversivi o immorali.
I rumores dei colleghi della cricca maligna facevano girare queste idiozie calunniose nei confronti miei e degli autori che preferivo. Questi erano spesso censurati o messi all’indice dai docenti rimasti alla scuola manualistica e acritica del loro buon tempo antico.
Bastava la parola libido, detta magari spiegando Freud, a metterli in allarme. Tali pettegolezzi venivano riferiti anche alle mamme dei ragazzini. Le madri più intelligenti e colte si scandalizzavano non per la mia parresia nel riferire gli autori ma per il fatto che certi colleghi mi biasimavano siccome non censuravo Freud appunto, o Catullo, o Marziale o Petronio.
Queste mamme non raggirabili mi erano simpatiche e non lo dissimulavo, anzi.
Una volta una di loro mi domandò: “che fa professore, mi corteggia?”
“Io sì- risposi- però se le dispiace le chiedo scusa”
“Non mi dispiace”, replicò, e quando la figlia non era più mia scolara, mi invitò a vedere Le nozze di Figaro al teatro dell’Opera di Romsa. Che sia benedetta con altre donne, con altre mamme siffatte, così ben fatte.
Questo fu un caso speciale, ma nessun genitore degli allievi del Minghetti condivise le critiche del preside e della sua cricca cui non piacevo ed era a me spiacente altresì.
Alla domanda dell’inquisitore risposi Foscolo, Leopardi e Pascoli.
Del poeta romagnolo l’improvvisato critico disse che era morboso, che era stato perfino in galera e certe sue poesie non erano adatte a studenti quindicenni.
Comunque se ai genitori io andavo bene, lui non poteva fare niente per impedirmi di impartire una pseudoeducazione che rasentava la corruzione dei giovani, mi disse una volta allargando le braccia.
Gli risposi che le sue accuse mi onoravano perché le stesse imputazioni aveva ricevuto Socrate.
“Lei sa com’è andato a finire, vero?”, provò a spaventarmi dando anche a vedere che conosceva la fine di Socrate e che era un uomo di spirito.
Stavo per risponde con ironia quasi offensiva: “No, me lo dica lei signor preside che scopre e sa mille cose rimaste celate a questo semplice professore di ginnasio!”.
Invece mi trattenni e risposi citando Nietzsche[1]: “Sì è stato giustiziato dalle Menadi del tribunale ateniese”. “Quali menadi?” borbottò e uscì avendo forse fiutato che dietro tale risposta c’era un autore di peso. Troppo pesante per lui pover’uomo.
Sono contento di avere messo alla berlina un dirigente maldisposto nei confronti dei docenti che avevano uno stile diverso dal suo, cioè più bello e più fine. Riconosco che non era un uomo del tutto cattivo, ma sono certo che con un preside come i due precedenti -Davide Ciotti del Rambaldi e Piero Cazzani del Minghetti -avrei lavorato meglio nella scuola e i miei allievi avrebbero avuto un educatore assai più sereno.
Ifigenia avrebbe avuto un amante più contento.
Torno dunque alla storia d’amore che sto raccontando. Ora comprendo che se l’autunno seguente la relazione con questa ragazza si affloscerà un poco alla volta in maniera irreversibile, il decadimento sarà dovuto anche al mio impegno strenuo ed estenuante volto a colmare diverse lacune .
Indirizzavo quasi tutta la mia libido sullo studio. Dovevo leggere le opere degli autori a casa, riassumerle, poi imparare le mie sintesi commentate per non leggerle in classe.
Affrontavo con l’intento di capirli e averne una visione d’insieme autori grandiosi come Shakespeare, Goethe, Tolstoj, Dostoevskij, Proust, Thomas Mann, Musil, Hesse, Kafka, Ibsen, e pure autori italiani che non conoscevo bene come Svevo e Pirandello. Volevo fare ognora lezioni ottime, per interessare sempre i ragazzi e farli venire a scuola da me volentieri.
Tutti, non uno di meno. Passai altri due anni così. In questo tempo passò anche Ifigenia. Lei sì che venne meno per sempre. E pure io a lei.
Ifigenia XCV. La merenda del 28 di maggio.
Il 28 maggio, nel pomeriggio inoltrato, Ifigenia ed io andammo con una coppia di amici sui colli lussureggianti.
Si camminava sui prati variopinti di erba e di fiori in rigoglio, palpitanti delle angeliche ali di farfalle multicolori, sonori dei canti musicali degli uccelli colorati, vivaci, felici per la giornata calda e serena mandata da Dio come preziosissimo dono a tutte le creature viventi.
Entrammo a mangiare un boccone nell’osteria di San Pietro gestita da due simpatiche vecchie sorelle. Pane con cacio e un bicchiere di vino. Dopo questa sobria merenda consentita dal pranzo mancato e meritata dall’amore di cui ci eravamo saziati a metà della giornata, Ifigenia venne a sedersi sopra le mie ginocchia con un movimento e con mosse affettuose, infantili. Mi pareva una sorella minore da educare.
La situazione era gradevole, però lì dentro non si vedeva il tramonto.
Nel tempo lontano quando ero un bambino e soffrivo le pene inflitte dall’iniqua stagione: il buio alle cinque dei pomeriggi annuvolati, il freddo che ammazzava gli animali e gli umani più deboli, la bora spietata, ebbene, a mezzo il verno quando nel cielo non si vedeva nemmeno una stella pur se a lungi invocata, io sognavo che era proprio il 28 di maggio: immaginavo giardini odorosi di rose, una luce radiosa che danzava sull’erba, farfalle bianche aleggiare accoppiate sui carciofi degli orti, vedevo papaveri ardenti punteggiare di segni scarlatti le ampie onde del grano già ricco di spighe più bionde che verdi mosse adagio da un vento caldo di paradiso, il garbino che allieta i freddolosi, sognavo una bambina bruna bruna, quanto la mamma , intelligente, un’amica che mi invitava sorridendo ed era felice di giocare con me.
Intanto la bora tremenda soffiava implacabilmente su Pesaro tutto il gelo del Nord.
Questo sognavo nei cupi e gelidi inverni degli anni Cinquanta. Il più lungo fu il 1956 del “nevone” di febbraio che durò fino a marzo inoltrato.
Il 28 maggio era il dì preferito perché era già estate e per quasi un mese la forza del sole sarebbe cresciuta ancora con i suoi benefici meravigliosi.
Fin da bambino ai primi di luglio, con lo scemare dei minuti di luce e il taglio violento, crudele del grano, sentivo la morte dell’estate e mi si spezzava il cuore perché pensavo alla mia. Allora più di ora.
Il 28 maggio del 1979 quel mio desiderio infantile di gioia luminosa e amorosa si avverava del tutto: nello splendore della natura, nella presenza della ragazza bruna e bella, una venticinquenne che voleva essere educata da me e pure giocare con me: figlia e sorella spirituale, collega, compagna, amica e amante.
A Ifigenia che mi riempiva di baci, carezze e parole gradite, domandai se voleva uscire per camminare con me, vedere il tramonto del sole, metterlo a letto, poi fare l’amore con me sull’erba di un prato celato alla vista di uomini, donne e bambini.
La proposta la fece trillare di gioia. Ci alzammo, chiedemmo scusa agli amici, uscimmo e ci allontanammo dall’osteria campagnola allungando i passi su un sentiero che procedeva tra l’erba a mano a mano sempre più folta e alta. A un tratto trovammo un’area circolare, come una radura dove spiccavano alcune campanule azzurre. Rimanendo in piedi, potevamo vedere i colli da una parte e la bassa pianura del nord dall’altra, ma dopo esserci stesi al riparo della fitta vegetazione che nascondeva quel talamo tondo, vedevamo soltanto il cielo sereno. E non eravamo visti da alcuno. Replicammo l’amore di mezzogiorno.
Le farfalle ci festeggiavano svolazzandoci intorno con le ali imporporate dai raggi serotini e lucenti della sera.
I fiori azzurrini piegati dalle membra aulenti di Ifigenia contraccambiavano con il loro profumo l’odore paradisiaco del corpo splendidamente fiorito di lei. Meivdhse de; gai` j uJpevreqen[2], sotto sorrideva la terra. Sotto Ifigenia, l’erba e i fiori.
Poi, seduti sulle vesti leggere, ci fermammo a osservare la volta del cielo sopra di noi che diventava azzurro come i fiori sotto di noi, mentre il sole, stanco del lungo volo, si era già annidato nel verde dei colli ed erano scomparse tutte le ombre, si oscurava ogni sentiero e divenivano sempre più tenere e dolci le voci degli uccelli. Una farfalla bianca e fosforescente, improvvisa e inopinata, a un tratto si posò sul grembo di Ifigenia e vi sparse il il suo luminoso candore. Facemmo l’amore per l’ultima volta quel giorno, prima che la via del ritorno sparisse nel buio della notte. Quindi tornammo nell’osteria.
Pesaro 22 settembre ore 11, 31 giovanni ghiselli
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