Ifigenia CXXVI La lettera enfatica e squilibrata.
La bionda mi salutò alzando la mano sinistra. Allora mi alzai e contraccambiai il saluto ma non la seguìi. La ragazza si mosse dalla parte del suo gruppo e si unì a loro: si dirigevano verso la fermata del tram per andare a bere e ascoltare musica in un locale del centro,
Non risposi dunque al richiamo della tedesca se non con un cenno di cortesia tra compagni di scuola, quindi non la raggiunsi e non la invitai a fare l’amore con me nell’automobile come s’era fatto sbrigativamente io e Nefertiti tre anni prima.
Così realizzavo la fantasticheria della notte remota successiva al dì nel quale avevo scritto diverse pagine della tesi di laurea.
A una possibile avventura con una straniera, a un altro peregrinus amor e concubitus vagus da aggiungere alla collezione, avevo preferito una ancora possibile relazione di maggiore durata e impegno con una donna italiana bruna bruna.
Poco più tardi salìi in camera: sempre la stessa degli anni passati quando scherzavo giovanilmente con gli amici e con le amanti: la numero 4 del III piano del II collegio. Sedetti nello studio che divideva le due parti.
Scrissi a Ifigenia facendole sapere che soffrivo la mancanza di lei e che lì a Debrecen, dove pur non c’era carenza di persone simpatiche e mi accompagnavano ricordi anche belli, costitutivi di parte non piccola della mia identità, mi sentivo dimezzato senza di lei, però grazie a tale dolore ero del tutto sicuro di amarla. Aggiunsi che quella sera non mi sarei unito ad alcuna brigata più o meno lieta, ma sarei rimasto solo per pensare a lei, la mia compagna ricca di mito e di poesia.
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Il giorno seguente, 25 luglio 1978, lo passai in solitudine fino alle 10 di sera. Dopo essere stato a lezione distrattamente, lessi e studiai la Storia dei Romani di Gaetano De Sanctis, poi All’ombra delle fanciulle in fiore di Proust, corsi i 5000 metri nello stadio due volte, pensai a Ifigenia, quindi le scrissi questi pensieri squilibrati:
“Ifigenia, tesoro, tu non sei qui, ma il ricordo del tuo sorriso abbronzato e festivo decora tutte le ore della mia giornata solitaria, studiosa e riflessiva. Ricordo il tuo splendido corpo che, svestito a festa, illuminava le stanze di casa mia, cupe altrimenti nella tetra atmosfera della nostra città dove lunghi sono gli inverni; ricordo le tue gonne che, quando mi correvi incontro, si sollevavano al vento di primavera profumandolo con l’odore santo della tua pelle; ricordo come il tuo corpo brunito, all’inizio di questa stagione, faceva gioire l’aria marina quando andavamo sul moscone, al largo della spiaggia di Pesaro per fare l’amore, e le farfalle ci danzavano intorno i loro valzer pieni di armonia. Io ti amo, Ifigenia, ti amo. Questi ricordi mi mantengono vivo, emozionato, attivo anche nella tua assenza pur dolorosa, e il tuo sorriso illumina, riempie di vita il mio cervello che altrimenti si stancherebbe nello studio della storia dell’imperialismo romano e di Proust, sensibilissimo e raffinato ma talora privo di potenza verbale e di capacità sintetica. Un’orchidea di serra spesso carente di nerbo nonostante l’etimologia[1].
Ho con me la copia del volume L’ombra delle fanciulle in fiore che mi regalasti, e non manco mai di accarezzare, odorare, baciare la pagina sacra con le parole della tua dedica ricca di amore. Così il profumo di te, portato dal vento dell’ovest, mi ispira, mi spinge a correre lo stadio più di una volta al giorno con tutte le forze, a cronometro, e mentre spremo con gioia i liquidi del mio corpo agonista, mi sembra di avere un orgasmo con te.
La tua presenza in carne deliziosa e ossa modellate con arte, la tua parola intuitiva, poetica, amore, mi manca a tal punto che, quando l’effluvio odoroso di te, portato dal vento occidentale, si attenuerà, allora io, invece di andare allo stadio, situato dalla parte nord orientale, quella dei selvosi Carpazi, andrò verso la parte occidentale di Budapest e di Hortobágy, dov’è la grande pianura ricca di girasoli: là correrò, anelando, mentre i soffi dell’aria odorosa di te mi benediranno e mi renderanno beato con il tuo aroma tutto intero prima che questo sia stato filtrato dalle avide, invide foglie assorbenti della grande foresta di Debrecen. Io allora continuerò a inebriarmi dell’essenza preziosa esalata dalla tua carne divina.
Ciao. Come vedi, ti penso
Tuo
gianni”.
Tali iperboli barocche generava la mia smania amorosa.
Ifigenia CXXVII. La rinuncia senza ragione del perfetto imbecille
Fino alle 10 di sera dunque passai le ore del 25 luglio in funzione della scuola e dell’amante italiana, studiando, correndo, nuotando, abbronzandoni e salmodiando tanti Osanna piuttosto che gridare Evoè e danzare con Dioniso in mezzo alle menadi dai capelli fluttuanti nel vento.
Suonata la ventiduesima ora del giorno, decisi di uscire con l’intenzione non equivoca di andare all’Aranybika per bere un bicchiere di vino, uno solo. Poi sarei tornato e avrei studiato fino all’una di notte. Dopo avere gioito innocentemente del “Sangue di toro di Eger”, avrei versato altro sangue mio nell’impegno dello studio e della scrittura, sempre sperando che mi apparisse l’immagine di Ifigenia la bella, la buona, la santa.
La mia follia era quasi completa.
Mi incamminai dunque tacito e solo lungo la strada compresa tra il prato delle abbronzature, dell’antica attesa di Helena[2], di Kaisa, di Päivi, a destra, e, sulla sinistra il collegio degli incontri baldorie ancora più antichi[3].
Tredici anni erano già passati dalla prima volta nell’Università di Debrecen e stavo vivendo un’ascesi da anacoreta pazzo, invasato dal demone del perbenismo sessuale piuttosto che un esercizio da asceta pagano, amante dei classici greci e latini. E delle donne.
Sul prato c’erano diversi giovani: tra gli altri la bionda ninfa salutata la sera precedente. Quando mi vide passare, si separò dal gruppo, mi raggiunse e mi chiese se volevo andare a bere del vino con lei.
Rimasi un attimo incerto, ci pensai un momento e decisi che non dovevo superare la giusta misura: quel giorno infatti non avevo sacrificato un ariete e una pecora nera come aveva fatto Odisseo per vitalizzare con il loro sangue le teste svigorite dei morti[4], bensì impiegato diverse ore del tempo oramai quasi estremo della mia gioventù a un idolo che probabilmente non era santo del tutto.
Dopo le tante ore di studio, di corse, nuotate, riflessioni, sempre da solo, mi ero conquistato il diritto di concedermi un poco di compagnia, di svago, di deconcentrazione da me stesso, da Ifigenia e dal nostro rapporto non garantito.
Si apriva uno spiraglio per l’ equivocazione gesuitica.
Ma si richiuse presto per colpa mia. Una colpa dell’intelligenza, un errore erotico, efferato quasi quanto un crimine. Non c’è cosa più amara della stupidità.
Pensai, senza sbagliarmi, che la bionda belloccia non doveva essere una persona triviale, se non altro per il fatto che aveva visto qualche cosa di strano-a[topon- di buono e forse perfino di bello, nella mia persona non ordinaria. Anche Ifigenia del resto aveva detto che, salva la fedeltà dovuta e promessa, la sera sarebbe uscita in compagnia se avesse incontrato persone interessanti. Neppure lei sdegnava il vino, vero “equivocator with lechery”[5].
La bionda che mi aveva invitato si chiamava Silvia, si chiama ancora così se sopravvive non solo nel mio rimpianto, aveva venticinque anni, era tedesca, di Berlino est, ma da tempo viveva e lavorava quale interprete e traduttrice a Budapest dove si era sposata e poi separata da un certo Virág del quale comunque conservava il cognome poiché le piaceva.
Virág è una parola ungherese che significa “fiore”.
“Virág, fiore, Bloom, come l’Ulisse ebreo ungherese irlandesizzato di Joyce”, pensò subito la mia mente avvezza a vedere le persone, le cose e il mondo intero nella lunga prospettiva formata dalle letture dei classici antichi e moderni.
La vita imita l’arte. La vita è allieva dell’arte, avevo imparato da uno dei miei maestri, Oscar Wilde.
Forse più avanti quella Silvia tentatrice mi avrebbe suggerito delle corrispondenze tra quanto di bello ricordavo dalle mie letture e quello che potevamo fare di bello e piacevole io e lei in n rapido mese nostra breve vita mortale.
Intanto ci avviammo verso l’Obester, un borozó o vineria, insomma una bettola simpatica, antica d’aspetto: una specie di grotta adibita a cantina dove si potevano bere diversi vini ungheresi, compreso l’egribikavér che odorava di buono e mi faceva tornare in mente le finniche mie amanti e amate quanto nessuna dopo di loro.
Mentre ricordavo qugli aromi e guardavo la bionda accingendomi a un brindisi propiziatorio con lei, non sapevo ancora se durante la nostra prima serata avrei cercato di stuzzicare le nostre libidini per poi sfogare la mia sensualità bestiale e pure divina, o se sarei tornato da solo nel letto casto dove avrei dedicato la dura rinuncia alla mia Ifigenia che magari mi era altrettanto fedele. Non si sa mai.
Dopo l’immancabile prosit ci mettemmo a parlare, in inglese.
Si poteva farlo con agio siccome non c’erano violini, né cembali, né, tanto meno, mostruosi apparecchi gracchianti né altri rumori d’inferno che servono a sostituire il silenzio o la chiacchiera vana delle teste vuote di tutto.
La bionda era meno snella e meno bella di Ifigenia la bella, ma anche molto meno povera di parole e idee interessanti. Aveva infatti una formazione assai più consistente di quella di colei che, forse, chissà, ancora mi aspettava in Italia. Insomma con la tedesca bionda avevo più argomenti di interesse comune, e Afrodite poteva farci giocare, o duellare, con le parole, in vista di un letto o di un prato illuminato dai nostri sorrisi, scaldato dai reciproci, frenetici abbracci, e reso piacevolmente sonoro da tripudi lieti, pieni di gratitudine al destino santo che ci aveva fatto incontrare quella sera d’estate quando eravamo giovani, lieti e ancora capaci di fare tante cose più o meno belle.
Se mi si offrisse ora una femmina umana siffatta la bacerei dai piedi ai capelli senza saltare alcuna parte del corpo. Ma come ho già detto, l’occasione va acciuffata per tempo. A ottanta anni poi va cercata, rincorsa, pregata in ginocchio. E il più delle volte non basta.
Passai un paio di ore che ricordo bene e rimpiango dandomi del perfetto imbecille per non avere colto l’occasione di imparare dell’altro da una femmina umana compiacente e intelligente, invece di macerarmi per un mese intero aspettando una lettera che non sarebbe arrivata mai da una che probabilmente se la spassava con un altro o più di uno.
Qualche cosa comunque ho imparato: a non rifiutare un bene presente per rimanere immacolato nell’intesa di un bene tanto malsicuro che non sarebbe arrivato mai.
Pesaro 24 settembre 2024 ore 10, 59 giovanni ghiselli
p. s.
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[1] Cfr. greco o[rci~-
[2] Cfr. La storia di Helena suddivisa in diversi capitoli , una storia d’amore bella assai.
[3] Le prime risalgono al 1966 cfr. il capitolo L’arrivo a Debrecen
[4] Cfr, Odissea, XI; 49 ajmenhna; kavrhna.
[5] Equivocatore della lussuria, ne crea gli equivoci. Cfr. Shakespeare, Macbeth, II, 3
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