Schopenhauer lo riassume in questi termini in Il mondo come volontà e rappresentazione III, 31.
Kant sostiene che tempo, spazio e causalità sono forme della nostra conoscenza attribuibili solo al fenomeno, non alla cosa in sé. Il fenomeno faivnomenon è quello che appare, apparenza. Platone sostiene che quanto percepiamo con i nostri sensi non costituisce ejpisthvmh una conoscenza autentica ma solo dovxa, opinione occasionata dalla sensazione priva di logos. – met’ aijsqhvsew~ ajlovgou.
Imprigionati nella percezione siamo come gli uomini incatenati in una caverna. Essi non possono nemmeno volgere il capo. Vedono solo delle ombre proiettati sulla parete di fondo che fa da schermo. Ombre di oggetti fatti passare dietro di loro e posti sulle spalle di uomini che camminano davanti a un fuoco e dietro un muro che arriva appunto alle loro spalle.
Ombre dunque e non un vero essente qualcosa che ontologicamente è- o[nto~ o[n- Solo le idee sono vere essenze, sono o.ntologicamente. Le cose sono le loro brutte copie transitorie e sottoposte al divenire.
Vediamo dunque questo mito (VII libro della Repubblica di Platone 514a-517e)
Socrate parla a Glaucone e gli dice: considera gli uomini rinchiusi in una specie di abitazione sotterranea, cavernosa, a grotta (ejn katageivw/ oijkhvsei sphlaiwvdei, 514). L’ingresso è aperto alla luce ma poi scendendo si trovano uomini che sono prigionieri fin da fanciulli, incatenati nelle gambe e nel collo-ejn desmoi`~ kai; ta; skevlh kai; tou;~ aujcevna~- in modo che possano guardare solo verso il fondo della caverna. Non possono girare la testa incatenati come sono-ujpo, tou` desmou`-
Dietro di loro c’è un muro, e dietro il muro una strada. Su questa strada passano uomini che hanno sulle spalle arnesi di ogni genere che sporgono oltre il muretto uJperevconta tou` teicivou-: statue, animali di pietra e di legno (zw`/a livqinav te kai; xuvlina).
Dietro la strada c’è la luce di un fuoco che proietta ombre da lontano e dall’alto- fw`````" puro;" a[nwqen kai; povrrwqen-514b.
Glaucone obietta a Socrate che ha descritto un’immagine strana-a[topon eijkovna e strani prigionieri- kai; desmwvta~ ajtovpou~-
Del resto Socrate è strutturamente strano e lui stesso si definisce a[topo~ (Fedro, 229 c)
Questi prigionieri, risponde Socrate Glaucone, sono simili a noi. Infatti possono vedere solo le ombre proiettate dal fuoco- ta;~ skia;~ uJpo; tou` purou`- sulla parete che hanno davanti
I prigionieri vedono solo le ombre proiettate dal fuoco sulla parete di fondo.
Costoro credono che quelle ombre (skiav") siano la realtà (to; ajlhqev").
Se uno di loro venisse slegato e costretto ad alzarsi e a guardare la luce del fuoco e gli oggetti, rimarrebbe abbagliato e riterrebbe le ombre più vere degli oggetti reali.
Se poi venisse portato fuori pieno di riluttanza, non riuscirebbe a vedere niente. Ma poi un poco alla volta si abituerebbe a vedere prima le ombre, poi i riflessi degli oggetti nell’acqua, infine gli oggetti stessi, poi il cielo notturno, la luna e le stelle. Infine il sole. E capirebbe che il sole produce le stagioni e gli anni, e sovrintende a tutto quanto c’è nel mondo visibile (pavnta ejpitropeuvwn ta; ejn tw'/ oJrwmevnw/ ) ed è la causa di tutto quanto vedono.
A questo punto lo schiavo liberato si ricorderà dei compagni di schiavitù e li commisererà.
E ricordando i gli encomi e i premi miserabili dati a chi vedesse e ricordasse meno peggio degli altri penserebbe quello che dice Achille a Odisseo nell’Ade, che preferirebbe essere un bracciante al servizio di un uomo povero piuttosto che tornare in quell’inferno (Odissea XI, 489-491).
Se tornasse nella caverna gli ottenebrati direbbero che è lui l’ottenebrato e se qualcuno cercasse di liberarli per farli uscire, lo ammazzerebbero.
Questo mito, spiega Socrate, significa che il mondo dove viviamo è una prigione e il sole è quel fuoco e noi vediamo solo ombre
La vita umana e l’uomo stesso è ombra e sogno
Pindaro chiama l'uomo "sogno di ombra" (skia'" o[nar/a[nqrwpo"", Pitica VIII, vv. 95-96 ).
Nell'Aiace di Sofocle, Odisseo esprime la convinzione che l'ombra sia la quintessenza dell'uomo e manifesta la compassione del poeta per tutte le creature umane cadute sulle spine della vita:"oJrw' ga;r hJma'" oujde;n o[nta" a[llo plh;n--ei[dwl j o{soiper zw'men h] kouvfhn skiavn", io infatti vedo che non siamo se non spettri quanti viviamo, o vana ombra (Aiace, vv.125-126).
“Pulvis et umbra sumus”, polvere e ombra siamo, secondo Orazio (Odi, IV, 7, v. 16).
Nel Seicento questa idea va di moda, tanto che Calderòn de la Barca intitola il suo capolavoro (del 1635) La vita è sogno, e, nel corso del dramma (I, 2), scrive:" il delitto maggiore dell'uomo è essere nato", mentre Prospero nel dramma La tempesta [1] afferma:"Noi siamo fatti con la materia dei sogni, e la nostra breve vita è circondata dal sonno"(IV, 1). Quindi il duca si avvia con la mente alla sua Milano "dove un pensiero su tre, sarà la tomba" (V, 1).
Nel Macbeth il protagonista afferma:"Life's but a walking shadow " (V, 5), la vita non è che un'ombra che cammina.
Sentiamo Pirandello: Mattia Pascal/Adriano Meis passeggiando per Roma riflette sulla propria ombra: “Uscii di casa, come un matto. Mi ritrovai dopo un pezzo per via Flaminia, vicino a Ponte Molle. Che ero andato a far lì? Mi guardai attorno; poi gli occhi mi s’affissarono su l’ombra del mio corpo, e rimasi un tratto a contemplarla; infine alzai un piede rabbiosamente su essa. Ma io no, non potevo calpestarla, l’ombra mia. Chi era più ombra di noi due? Io o lei? Due ombre! Là, là per terra; e ciascuno poteva passarci sopra: schiacciarmi la testa, schiacciarmi il cuore: e io, zitto, l’ombra, zitta. L’ombra d’un morto: ecco la mia vita…Ma sì! Così era! Il simbolo, lo spettro della mia vita era quell’ombra: ero io, là per terra, esposto alla mercè dei piedi altrui. Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra per le vie di Roma”[2].
Concludo con Proust:"Ci si accanisce a cercare i rottami inconsistenti d'un sogno, e intanto la nostra vita con la creatura amata continua: la nostra vita, distratta dinanze a cose di cui ignoriamo l'importanza per noi, attenta a quelle che forse non ne hanno, succube di esseri senza nessun rapporto reale con noi, piena di oblii, di lacune, di ansietà vane; la nostra vita simile a un sogno" (La prigioniera, p. 147).
Uscire dalla caverna significa salire eij" to;n nohto;n tovpon, Repubblica. 517 b) nel mondo intelligibile
Nel campo conoscibile -ejn tw'/ gnwstw'/- l’idea suprema è quella del bene hJ tou' ajgaqou' ijdeva (517c) che a fatica si vede, ma una volta vista va considerata ojrqw'n te kai; kalw'n aijtiva, causa di tutte le cose belle e rette e nell’intellegibile (e[n te nohtw'/) largisce verità e ragione.
La scienza che non arriva all’idea del Bene è dannosa
L’idea del Bene è nell’intellegibile ciò che il sole è nel visibile. Lo ripeterà l’imperatore Giuliano, Augusto dal 361 al 363.
L’imperatore calunniato con l’infamante epiteto di “Apostata” riprende Platone nell’orazione A Helios re dedicata al filosofo Salustio. Questo “sermone natalizio” fu redatto alla fine del 362 d. C. per celebrare il 25 dicembre, dies natalis Solis invicti. Elio è visto come il signore del mondo intelligente e viene definito dio mediatore e potentissimo, assai simile al Bene preesistente a tutte le cose. Giuliano cita la Repubblica di Platone dove (508b) si dice che il Sole è figlio del Bene (τοῦ ἀγαθοῦ ἔκγονον) che il Bene generò simile a sé (ὃν τἀγαθὸν ἐγέννησεν ἀνάλογον ἑαυτῷ) e ciò che è il Bene nel mondo intellegibile rispetto all'intelletto e agli intellegibili è Helios nel mondo visibile rispetto alla vista e alle cose visibili (5, 17-21). L’Uno (τὸ ἕν) o il Bene (τἀγαθὸν), come lo chiama Platone, ha rivelato da sé Elios dio potentissimo del tutto simile a sé. Quindi Elios viene identificato con Zeus e con Apollo (31)
Chi giunge a questo punto non vuole più attendere alle faccende umane ma le loro anime sono sempre spinte a soggiornare in alto (ajll j a[nw ajei; ejpeivgontai aujtw'n aiJ yucai;; diatrivbein Repubblica, 517 d).
Allora uno che viene da divine contemplazioni e scende alle miserie umane ajschmonei' fa brutta figura e sembra molto ridicolo kai; faivnetai sfovdra geloi'o" quando, non ancora assuefatto alla tenebra, è costretto a combattere con delle ombre e degli ottenebrati.
Gli occhi si turbano passando e[k fwto;" eij" skovto" e viceversa.
Così accade anche all’anima. L’educazione consiste in una conversione dell’anima che deve volgersi dalla parte giusta.
Essere tratti alla luce non sarebbe il voltare di un coccio bensì la conversione dell’anima oujk ojstravkou a[n ei[h peristrofhv , ajlla; yuch`~ periagwghv, da un qualche giorno notturno a uno vero, alla vera ascesa al reale che noi diciamo essere la vera filosofia Repubblica, 521c
L’animula to; yucavrion 519a) dei malvagi detti sapienti ha la vista penetrante sulle cose basse cui si rivolge.
Al divenire sono congeniti pesi di piombo che rivolgono in giù la vista dell’anima kavtw strevfousi th;n th`s yuch`~ o[yin (519b).
Cfr. la Sfinge che nell’Edipo re di Sofocle costringeva a guardare in basso: Ma quale male, caduta così la tirannide,/stando tra i piedi- ejmpodwvn-, vi impediva di sapere questo?" ossia di fare indagini sull’uccisione di Laio, domanda Edipo a Creonte il quale risponde:
"La Sfinge dal canto variopinto hJ poikilwdo;~ Sfivgx- ci spingeva a guardare/quello che era lì tra i piedi- to; pro;~ posi; skopei`n, e a lasciare perdere quanto non si vedeva" (vv. 128- 131)
-Il canto variopinto è la parola ingannevole e adulatoria del tiranno, del demagogo, del sofista. E' il brutto senza semplicità. Oggi è la pubblicità che invade le vite umane seducendo gli ottenebrati.
L’anima dovrebbe convertirsi, cioè girarsi dalla parte dove si trova dell’idea del bene. Chi è malvagio rimane con un’animula (to; yucavrion) non convertita. Bisogna educare i migliori attraverso la conversione che li porti a vedere il Bene. Questi educati dovranno armonizzare i cittadini:
i filosofi devono occuparsi degli altri e custodirli, devono essere come i capi di un alveare. Ora le città sono governate da gente che vede ombre e contende con delle ombre per il potere, come se fosse un vero bene wJς megavlou tino;ς ajgaqou' o[ntoς (520b). Devono governare i veri ricchi, non di oro ma di una vita buona e saggia plouvsioi ouj crusivou ajll j zwh'ς ajgaqh'ς te kai; e[mfronoς (521). Non devono andare al potere dei poveri affamati di beni privati ptwcoi; kai; peinw'nteς ajgaqw'n ijdivwn. Questi infatti tendono ad arraffare. Ci vuole dunque una conversione dell’anima yuch'ς periagwghv, non il voltare di un coccio ojstravkou peristrofhv.
L’anima deve girarsi da ciò che diviene a ciò che è.
Ginnastica e musica non bastano, ci vuole anche la matematica. Palamede fa apparire Agamennone scemo dicendo che non è stato lui a inventare il numero (ajriqmovn) e non avrebbe saputo contare le navi né tutto il resto se non avesse avuto il suo aiuto. Dunque il guerriero deve saper lovgizesqai kai; ajriqmei'n, calcolare e contare.
Il filosofo deve cogliere l’essere (th'ς oujsivaς aJptevon) spogliandosi del divenire (genevsewς, 525 b).
Pesaro 30 settembre 2024 ore 19, 06, giovanni ghiselli
p. s.
Statistiche del blog
Sempre1624687
Oggi158
Ieri266
Questo mese9385
Il mese scorso10909
Nessun commento:
Posta un commento