Il giorno seguente, martedì 2 agosto, finite le ore di lezione, tornai in collegio e trovai un telegramma che riattizzò l’ardore amoroso e mi spinse di nuovo nelle reti inestricabili della giovane compagna di letto[1], donna italiana florida ancora negli anni.
Avevo i pensieri stravolti e pure l’aspetto, come la sera oramai lontanissima del luglio del 1966, quando arrivai a Debrecen per la prima volta.
Ma quella mattina di agosto, tredici anni e venti giorni più tardi, lo stravolgimento volgeva la mia persona cangiante al lato più bello
Con l’anima e la mente in tumulto, lessi queste parole:
“Ti amo. Mi manchi. Mi fido. Fidati. Zazzì. Un bacio. Tua Ifigenia. Aspetta mio espresso. Ifigenia”.
Zazzì nel nostro gergo di coppia significava quello che tu immagini già, malizioso lettore: ho una voglia bestiale di fare l’amore con te: almeno tre volte. Iterazione di un concubitus vagus ma non prohibitus[2] una trilogia amorosa che negli otto mesi precedenti noi due consideravamo appena appena sufficiente.
Misi in tasca il foglio verde e andai a camminare nell’orto botanico dove il destino mi aveva più volte indicato con dito diritto i suoi decreti e il prosieguo del mio cammino spesso tortuoso e accidentato . Ma in quel momento non vedevo ostacoli né vie oscure, erte o arte: nulla di inameno turbava la gioia che mi aveva inondato. Il luogo era tutto sacro e pieno di dèi.
La multiforme vegetazione era viva e luminosa : ogni pianta, ogni cespuglio, ogni fiore e filo di erba mi parlava di amore, di felicità, di poesia; la Jiuniperus communis, una specie di edera, aveva qualcosa di antico, misterioso e fatato: volevo incoronarmene come facevano le baccanti durante le sante orge in onore di Dioniso. Sulla strada al di là della rete passavano alcuni dei “simpatici burattini” menzionati da Cornelia la sera prima. Li salutai con la mano e mormorai: “stefanou'sqe kissw'/”[3].
Danilo, mezzo morto di sete, contraccambiò il saluto: mi lanciò uno sguardo desolato mentre capovolgeva una bottiglia di sangue di toro già vuota. Disse che stava andando a ricaricarla di vita, cara da Dio!
Ezio a sua volta mosse il piede rapido, a balzi, come una menade[4]. Alfredo domandò: “Chi è per strada, chi è per strada, chi?”[5]
“Ifigenia, Ifigenia, evoè!”, risposi.
Il dio Dioniso mi stava approvando.
Passati gli amici bizzarri e cari, tornai a osservare le piante strane: la tunica saxifragata aveva qualcosa di carneo e voluttuoso: l’accarezzai come fosse stata una mano di Ifigenia. Stavo baciandola, ma passarono due anziani signori, probabilmente docenti della Nyári Egyetem e, vedendomi inginocchiato, uno disse all’altro: “guarda quell’uomo pieno di alcol, e non è ancora mezzogiorno! Vergogna!”
In effetti avevo gli occhi velati di lacrime. Quando i due accigliati Catoni, tristes et superciliosi alienae vitae censores,[6] furono passati, mi stesi a terra e gridai: “ecco io mi prostro, Ifigenia, al suolo” [7].
Quindi mi rovesciai, beato e da resupino[8], e alzai gli occhi all’alta chioma di una quercus robur antica e maestosa come quelle sacre del santuario di Dodona sorvolata da colombe profetiche: le sue fronde, sonore al vento quasi fresco mi sembrarono preannunciare un altro autunno di gioia con la mia baccante splendidissima e santa. Promisi che sarei arrivato in bicicletta all’antichissimo oracolo. Avrei sciolto quel voto dodici anni più tardi osservando i voli degli alati diretti da Dio e interpretandoli per decifrare la direzione del “grande” amore di turno, un’altra collega mal maritata .
Ma quel 2 agosto pensavo: “Sei tu, ifigenia, la donna migliore dell’universo. Il poco male che c’è stato tra noi, sparirà, il tanto bene rimarrà eternamente vivo su questa terra. Creatura mia, figlia, amante, madre, sorella, ti amo come amo la vita da quando tu mi hai donato la tua”
Non avevo fame siccome ero pieno di gioia e andai in piscina per digerirla e assimilarla tutta.
Pesaro 25 settembre 2024 ore 17, 19 giovanni ghiselli
p. s.
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[1] Nell'Agamennone di Eschilo la moglie fedifraga e assassina viene denominata con un vocabolo che contiene il letto (eujnhv) poiché queste grandi tragedie matrimoniali hanno sempre a che fare con il letto:"ajll& a[rku" hJ xuvneuno", hJ xunaitiva-fovnou", vv. 1116-1117, ma è una rete la compagna di letto, la complice dell'assassinio.
[2] Cfr. Orazio che nell’Ars poetica scrive:
“ Fuit haec sapientia quondam,
publica privatis secernere, sacra profanis,
concubitu prohibere vago, dare iura maritis,
Oppida moliri, leges incidere ligno (Orazio, Ars poetica, 396-399)
Fu questa un tempo la sapienza, separare il pubblico dal privato, il sacro dal profano, distogliere dagli accoppiamenti sregolati, imporre i doveri ai coniugi, e fondare città, incidere le leggi nel legno.
[3] Euripide, Baccanti, 106, incoronatevi con l’edera
[4] Cfr. Euripide, Baccanti, 166
[5] Euripide, Baccanti, 68
[6] Cfr. Seneca: “istos tristes et superciliosos alienae vitae censores, suae hostes, publicos paedagogos , assis ne feceris (Ep. 123, 11), questi austeri e accigliati censori della vita altrui, nemici della propria, questi pubblici pedagoghi non stimarli un soldo.
[7] Cfr.Lleopardi, All’Italia, 127-128
[8] Cfr. Gozzano, Totò Merumeni
La Vita si ritolse tutte le sue promesse.
Egli sognò per anni l’Amore che non venne,
sognò pel suo martirio attrici e principesse
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ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne.
Quando la casa dorme, la giovanetta scalza,
fresca come una prugna al gelo mattutino,
giunge nella sua stanza, lo bacia in bocca, balza
su lui che la possiede, beato e resupino...
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