Exinde quid agi oporteat bonis successibus instruendi[1]: dobbiamo farci insegnare dai buoni successi quello che s’ha da fare.
Quel giorno imparai una volta per tutte a redimere il dolore con l’intelligenza dello stesso dolore. Ne avrei avuto una conferma molto autorevole dalla parodo dell’Agamennone di Eschilo: tw'/ pavqei mavqo" (v. 177), attraverso la sofferenza, la comprensione.
Quel giorno dopo le ore di lingua ungherese ascoltate distracta mente, salii sul tram numero uno per cercare un altro contatto almeno telefonico con Ifigenia. La sua posta non era arrivata ovviamente. Volevo sapere se l’avesse spedita o almeno pensata. Stava diventando un pensiero fisso. Nemmeno una cartolina avevo ricevuto. Da bambino, quando ero Moena con la zia Giulia, nelle estati dei primi anni Cinquanta, aspettavo parole scritte dalla mamma, invano, e ogni giorno cresceva il desiderio doloroso di pur poche parole della madre mia amatissima che a Pesaro stava.
La sento meno lontana ora che sta nel cielo.
A Debrecen avevo bisogno di sentire la voce di Ifigenia per trarne qualche conforto più o meno valido, oppure un’indubbia disperazione che mi consentisse di cercarmi un altro amore mensile lì a Debrecen dove Eros aveva riunito tanti ragazzi e ragazze di educazione accademica proprio perché si conoscessero. La conoscenza approfondita di Silvia sarebbe stata un progresso sicuro se non mi avesse punto a sangue in ogni momento quel fastidioso tafano della fedeltà.
Entrai nella posta centrale, piena come sempre, di gente non bella né lieta e chiesi la linea. Tra una cosa e l’altra si era fatta l’ora di pranzo, quando Ifigenia probabilmente era in casa a desinare con altre persone, ospiti a me ignoti.
Rispose la padrona della casetta affittata.
Mi chiese di aspettare un momento, e invece tornò dopo un tempo non breve.
Disse che Ifigenia non era in casa.
“E’ sicura?-domandai.
“Certo che sono sicura-rispose- qui non c’è più nessuno, sono andati via tutti”.
Uscii con la testa che mi girava.
Pensavo: “quella tenutaria è andata a chiedere della ragazza; costei probabilmente era tenuta impegnata da qualche piacere e si era fatta negare. “Per essere bella è bella pensai. Ma lo sono anche gatti et pavones[2], e non danno tanti fastidi.
Dopo tale batosta non mi sentii di andare a desinare. Camminavo per il centro di Debrecen in balia di emozioni violente e di pensieri confusi.
La odiavo e amavo come mi succedeva da piccolo con alcune delle donne di casa. Dai sentimenti confusi cercavo di ricavare pensieri nuovi e chiari.
Dai fatti dolorosi dovevo risalire alle cause anche antiche, come ero riuscito a passare dalla congerie di nozioni grammaticali del greco e del latino al pensiero degli autori, ed ero arrivato a sentire e gustare la bellezza, la carne sempre viva dei loro testi.
“Sai quanto potresti crescere meglio se avessi una compagna che ti infondesse stati d’animo buoni e coerenti! Ifigenia che cosa è? Una ragazza geniale e pura, un angelo venuto a elevarmi beandomi e beatificandomi, oppure una donna corrotta da vizi turpi che la faranno precipitare nell’abisso del caos traendomi con sé?
O perfino l’una e l’altra cosa?
Mi venne in mente che pochi giorni prima della mia partenza per Debrecen mi aveva detto di essere stata corteggiata e fatta oggetto di proposte poco belle da un cavaliere del lavoro con tanto di Ferrari e yacht, un uomo attempato cui aveva replicato ridendo sonoramente. Lì per lì avevo rimosso questo evento doloroso.
“Una risata- pensavo lì a Debrecen - può significare anche consenso o almeno un prendere tempo, soprattutto se è seguita da un sorriso. Insomma non è un rifiuto deciso”.
Mi vennero in mente alcune parole di Masetto a Zerlina del Don Giovanni di Da Ponte musicato da Mozart:
“Bricconaccia, malandrina,
Fosti ognor la mia ruina"
(…)
Resta, resta!
E’ una cosa molto onesta;
faccia il nostro cavaliere
cavaliera ancora te” (I, 9).
Poi però mi venne in mente che sette anni prima, nel tempo di Kaisa, la figura del seduttore di donne altrui, di tutte le donne, era il mio ideale e il mio modello. Forse la conversione all’amore serio e monogamico non mi si confaceva. E probabilmente mi meritavo le corna secondo la legge del contrappasso: "rimane saldo, finché Zeus rimane nel trono/ che chi ha fatto subisca: infatti è legge divina"[3], ricordai.
Pesaro 25 settembre 2024 ore 10 10 giovanni ghiselli
p. s.
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[1] Parole di Giuliano Augusto nelle Storie di Ammiano Marcellino (XXI, 5, 6)
57 Cfr. Seneca, Ep. 76, 9 Formonsus est: et pavones
[3] Eschilo, Agamennone, 1563-1565. Se lo volete in greco: “ mivnmnei, de; mivmnonto" ejn qrovnw/ Dio;"- paqei'n to;n e[rxanta: qesmion gavr”.
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