Ifigenia CXIV.
Pensieri postumi rispetto a questa storia.
Finita la storia con Ifigenia, sono tornato più di una volta a osservare il fatiscente edificio, collegio forse di una razza estinta di mostri, per poterlo descrivere con precisione; tuttavia non ho trovato il coraggio di oltrepassare l’ultimo dei tre gradini sbrecciati. Mi sono affacciato all’interno, ho rievocato e ruminato i ricordi rimanendo sulla soglia, poi sono tornato a Pesaro oppure a Bologna.
Oggi penso che in quella occasione noi due dovevamo sentire un ineluttabile impulso erotico per avere il coraggio e lo stomaco di entrare tra quelle macerie, per stenderci nudi e inermi esponendoci a diversi rischi: dal soffitto malsicuro in bilico sulle nostre teste, al malvivente che poteva colpirci turpemente in tanti modi, alla perfida serpe sempre pronta a guizzare fuori dall’agguato per infilare i propri denti letali nelle nostre carni esposte a ogni danno.
Allora in certi momenti sentivo per la giovane donna che mi si era affidata un’attrazione che mi dilatava l’anima verso la sua persona, e se non leggevo ma stavo con lei, se non pensavo ma facevo l’amore con lei, se non interrogavo il mare o gli alberi o il cielo ma guardavo vivere Ifigenia, non mi sembrava di perdere tempo: il desiderio che sentivo escludeva noia, rimpianti, rimorsi. Un desiderio contraccambiato e soddisfatto: ora guardo una fotografia di quei giorni e vedo la ragazza con le labbra tese dalla volontà di piacermi e dirmi parole invitanti, con gli occhi aperti che lanciavano bagliori di intesa, con le belle membra pronte a scattare verso la gioia che ci chiamava a celebrare i nostri tripudi festosi. Erano gli ultimi giorni di una felicità già vicina all’abisso.
La sera del 24 agosto, quando tornai dal mese di Debecen e la incontrai alla stazione di Padova, la sua bocca era sfatta come un caco troppo maturo, gli occhi erano semichiusi e opachi come se una persona cattiva glieli avesse offuscati, le sue spalle cadenti si appoggiavano sulle mie come se un malvivente cui si era affidata le avesse spezzato il vincolo dell’armonia che tiene insieme le membra.
Da quella sera lo stare con lei in qualsiasi modo non giustificò più il mio trascurare lo studio, siccome studiare era attività più emozionante che frequentare quella povera creatura avvizzita, noiosa, fuorviata da se stessa, corrotta e incattivita da gente malvagia..
Ifigenia CXV
Contatto di epidermidi senza trasfusione delle anime.
Il 10 luglio amoreggiammo a qualche chilometro dalla spiaggia di Pesaro.
Eravamo stesi in un moscone che scintillava sull’acqua. C’era la grande luce del cielo sopra di noi sfavillante e moltiplicata in sorrisi innumerevoli dal tremolare dall’acqua marina, c’erano i raggi santi del primo tra tutti gli dèi che accarezzavano e colorivano l’incarnato dei nostri corpi più sani e snelli che mai mentre due farfalle bianche ci svolazzavano intorno festose.
Ifigenia era così bella che le mie parole scritte sarebbero meschine in confronto alle forme del suo corpo.
Ma l’amore era prossimo a terminare. Era quasi trascorso il tempo concesso dal fato. Dopo nove mesi non stava nascendo l’amore come intesa profonda, e la stessa passione dava già segni di decadenza.
Nessuno dei due aveva mai preso in considerazione l’altro quale persona intera.
Eravamo rimasti associati soltanto nel letto. Un Eros per giunta non privo di Eris.
.
La ragazza insicura del proprio ruolo vedeva in me l’uomo che poteva aiutarla finché ce ne sarebbe stato bisogno, io ero interessato soltanto alla bellezza delle sue membra e al piacere che potevo trarne. Del resto non ammiravo il suo stile, spesso neanche lo approvavo e nemmeno il suo volto, il suo sguardo mi piaceva del tutto. “Si nescis, oculi sunt in amore duces " [1]
Insomma non c’è mai stata tra noi la reciproca trasfusione delle anime che eleva il contatto delle epidermidi a intesa profonda.
Ifigenia CXVI
Allegoria e simbolo. Umanesimo e anti umanesimo. La deterrenza umana
Oggi mi chiedo per quale ragione un mese di Elena mi ha dato più felicità che tutti gli anni passati con decine di altre. La storia di Elena, quando le mie ex non arrivavano a nemmeno a nove, è stata la più bella in tutti i sensi. Ora so perché.
Una persona e, anche una cosa o un paesaggio, si riempie di significati fino a diventare opera d’arte quando la sua visione diventa allegoria a[llo ajgoreuvei, rivela qualcos’altro oltre se stessa.
Elena non solo era bella ma incarnava l’umanesimo ancora vigente nel 1971. Quando la conobbi, le domandai che cosa significava l’amore per lei, una domanda subdola da parte mia: volevo indagare la sua disponibilità a fare l’amore con me.
Ebbene la bella donna rispose che il suo amore era umanistico e umano: amava l’umanità e amava la vita.
Allora dentro di me ghignai di soddisfazione pensando che, se le apparivo umano, quella femmina della mia specie poteva diventare la penultima amante delle prime dieci che con il volgersi delle stagioni volevo almeno quintuplicare nella mia insicurezza di quel tempo.
Ma quaranta anni più tardi, tornato a Debrecen in bicicletta da Bologna e recatomi di notte sotto la finestra del collegio dove Elena mi aspettava una sera di quell’estate remota, capìi tutto il valore di tale donna che divenne un simbolo, suvmbolon cui potevo associare-sumbavllein- tutti i significati belli che nel frattempo avevo molto cercato e poco trovato in altre persone: bellezza, finezza d’animo, intelligenza, sincerità, schiettezza, luminosità e tutto quanto mi era piaciuto in quasi settanta anni di vita.
Pesaro 23 settembre 2024- ore 18, 43 giovanni ghiselli
p. s.
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