Il 24 agosto andai a Pesaro dalla mamma e dalle zie. Ifigenia mi raggiunse verso la fine del mese e si fermò una settimana. Troppo tempo per le donne di casa mia sdegnate dal disordine della ragazza infingarda: nemmeno il proprio letto rifaceva quando andava sulla spiaggia per prendere il sole. Anche io, nonostante il digiuno sessuale del mese di Debrecen, dopo un paio di giorni ero sazio di lei e ne avevo abbastanza. Avevamo ben poco da dirci.
Avrei preferito studiare, correre a piedi e in bicicletta da solo in quelle ultime giornate estive tanto vicine oramai all’equinozio umido che le ore di luce erano già taglieggiate quasi della metà rispetto ai giorni di giugno, i più belli dell’anno, se non piove.
Aspettavo che Ifigenia partisse lasciandomi a osservare l’estate morente impallidire nell’aria e sulla pelle di noi esseri umani destinati alla morte. Invece la noiosa mi stava appiccicata, appoggiando il suo peso inerte e gravoso sulle mie spalle, non erculee, anzi poco robuste siccome ho sempre esercitato piuttosto la lena delle gambe, del fiato e della mente che il resto.
Oltretutto quel giorno funesto Ifigenia rivelò la sua facies furente.
Eravamo al mare a metà di un pomeriggio noioso come al solito e per giunta ventoso. “Mio dio- pensavo- che cosa ho fatto di male?”.
La spiaggia era semideserta e mortificata dalle ombre che scendevano inesorabili dagli alberghi sovrastanti e, allungandosi sempre più verso l’acqua del mare, incupivano tutto, compreso il mio umore. Gli ombrelloni, diradati assai, e chiusi, sembravano i pochi capelli rimasti sulla testa intronata di un vecchio mal vissuto: stremato e abbattuto dagli insuccessi.
Mi venne in mente: “A dull head among windy spaces”[1], una testa intronata tra spazi ventosi.
A un tratto la donna mi propose di fare una passeggiata. Notai un ragazzo che correva. "Te beato, pensai, per la tua solitudine!"
Pur di muovermi dall'inerzia penosa acconsentii.
Mentre camminavamo abbracciati per scaldarci a vicenda, ifigenia mi parlava di una sua giornata del mese di luglio senza del resto interessarmi con parole dense di significato. Erano verba prive di Verbum. Alcune di queste, però, a un tratto mi colpirono come un tuono: disse che uno dei suoi corteggiatori estivi, il più intraprendente e sfacciato, il medico biondo di cui mi aveva parlato già allora, era partito prima di me, perciò non aveva dovuto subirne le proposte insistenti e indecenti durante la mia assenza.
Un'emozione cattiva rivegliò il mio cervello assopito e l'interesse negativo per lei. Mi fermai, la guardai e dissi: "questo non può essere vero: mi hai indicato quell' insolente mentre si aggirava dietro una vetrata con l'aria di uno che spia. Era la notte della mia partenza e mii dicesti che poche ore prima gli avevi chiesto la sua camera in prestito per fare l'amore con me".
Allora mi venne in mente la sera in cui a Debrecen nel luglio del 1971 i miei contubernali cedendomi l'uso della camera per fare l'amore con Helena mi chiesero di farlo sul letto antistante la porta in modo che ci potessero osservare attraverso la toppa durante i nostri tripudi. Naturalmente acciecai la toppa con uno stracco, poi celebrammo la danza di quel tripudium meraviglioso sul talamo posto all'estrema sinistra, a costo di sbattere varie parti del corpo contro la parete bianca.
Faccio ancora tesoro di quel ricordo che mi ha aiutato a vivere durante diversi anni tristi e tribolati come i prossimi che mi appresto a raccontare. Non sono nemmeno sicuro che ne valga la pena. Dimmelo tu lettore
Pesaro 29 settembre 2024 ore 10, 04 giovanni ghiselli
p. s.
E' quasi terra di emigrare.
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