Ifigenia CXLVI Un tuono del cielo dice che devo cambiare strada.
Ricordo un evento significativo del mese di ottobre.
Ifigenia, oltre le gambe belle e slanciate, non aveva alcun mezzo di locomozione e si faceva accompagnare da me quando doveva compiere un tragitto non breve in poco tempo.
Un sabato, verso le tre, mi telefonò chiedendomi di portarla da un fotografo professionista che le avrebbe fatto dei “ritratti”.
Pensava che lasciare alcune sue foto ben riuscite in un cassetto della scuola per aspiranti attori significasse dare una mano alla sua ambizione, in quanto può capitare-diceva- che dei registi frughino nei cassetti della nostra “accademia” cercando immagini di volti espressivi.
“O insensata cura de’ mortali!”, pensai. Come ho già detto, la ragazza era bella ma non tanto espressiva.
La sua volontà di recitare oramai era decisa e la manifestava senza mezzi termini. A me non dispiaceva: se da una parte rischiavo di perderla, dall’altra mi aspettavo che se il suo piano avesse avuto successo sarebbe diventata più interessante per me e mi avrebbe stimolato a fare il salto di qualità da studioso divulgatore di scritti altrui a creatore di testi per l’amante attrice. Se invece lei non fosse riuscita nel suo intento restandone frustrata, tediosa, inutile peso alla terra e opprimente per me, prima o poi con le mie capacità di studioso, oratore e scrittore avrei impressionato un’altra giovane donna da mettere al posto di questa fallita.
Sabato 20 ottobre dunque Ifigenia salì sulla mia nuova automobile: una bianca Volkswagen decappottabile che sostituiva la nera dei tempi belli e lontani dei giri con Helena la mater domina et magistra di allora.
La trattavo con ogni riguardo come si fa con tutte le cose, e pure con le persone, prima di considerarle logore e viete in seguito all’uso che ne abbiamo fatto noi stessi. Ora comprendo che le persone non sono cose e non vanno usate come tali.
Durante il tragitto Ifigenia si diede ai sbaciucchiarmi il volto, compresa la parte che avrebbe dovuto guardare e vedere.
Profecto in oculis animus habitat"[1], con gli occhi mi chiudeva ogni via alla necessaria attenzione.
Avrete già capito cosa accadde: un incidente che non descrivo.
Sentìì come un tuono.
Acciecato com’ero, urtai un ragazzo su uno scooter, lo feci cadere arrossarsi di sangue e impallidire dallo spavento. L’automobile nuova compratami da mamma e zie con una colletta ne rimase ammaccata. Quel giorno decisi che colei non era la donna per me. Oggi, passati diversi decenni, so che talora un incidente, spiacevole sul momento, è comunque un segno del cielo che ti dice: “guarda che sei su una strada sbagliata! Il metodo che stai seguendo non è la via che può condurti al compimento di te stesso, alla tua felicità. Su questo percorso tu non funzioni: non è il tuo. Devi ancora trovarlo: cercalo altrove!”.
In novembre alla prima occasione mi innamorai di un’altra giovane donna, una nuova supplente appena arrivata. Si chiamava Lucia: bellina, bellina assai!”
Ifigenia CXLVII La notte di novembre sul mare.
La nuova collega da corteggiare, Lucia era giovane molto anche lei: aveva una decina di anni meno di me e tutto da imparare. Non era una bellezza ma si era costruita uno stile che la impreziosiva. Soprattutto aveva una forza espressiva che la distingueva in meglio da molte altre, compresa Ifigenia. Il suo aspetto mi ricordava quello delle donne di casa mia e la mia stessa facies.
Ifigenia si accorse subito che la guardavo con interesse e disse: “ti piace perché ti assomiglia: tu sei malato di narcisismo”. C’era qualcosa di vero. Aveva di speciale gli occhi grandi e lunghi, carichi di una luce densa e indecifrabile da Sfinge. Un taglio finnico-mongolico e pure mediterraneo.
All’epoca commentavo l’Edipo re di Sofocle e iniziavo a leggere Thomas Mann. Studiavo molto soprattutto per impressionare la nuova apprendista che mi chiedeva spesso consigli su come interessare gli allievi. Avevo già allora un repertorio discreto e lo accrescevo, lo miglioravo ogni giorno.
Ifigenia intanto si demotivava sempre più rispetto alla scuola e a me stesso, nondimeno mi pesava addosso, come l’Etna su Encelado o Tifone, e tutte le volte che muovevo le membra stanche per liberarmi, colei preponderava tutta sul mio povero corpo oppresso, schiacciato.
Ricordo una notte di fine novembre: solo nell’autostrada guidavo la bianca Volkswagen ancora ammaccata. Ero partito a mezza la notte dopo avere studiato La morte a Venezia per raccontarlo ai miei scolari e alla professoressa tirocinante Lucia. Sulla strada pioveva e c’era nebbia. “Novembre è il più crudele dei mesi-pensai-altro che aprile. Essere nato in uno di questi giorni privi di luce e di calore mi ha spinto ad amare il sole, le donne, la vita variopinta. Ascoltavo da un nastro il preludio del Guglielmo Tell di Rossini: mi sembrava la traduzione in musica di una galoppata trionfale. Mi infuse ottimismo.
I beni, pensavo, sarebbero arrivati al momento giusto come era già accaduto. La terra luminosa e fiorita, l’estate nuda incoronata di spighe, magari anche Lucia sarebbe venuta da me svestita a festa per rendermi felice con una beatitudine superata di poco da quella divina.
Quando arrivai a Pesaro, intorno alle due, andai subito a vedere il mare il cui desiderio a Bologna talora mi fa sgorgare le lacrime quando lo vedo al cinema.
Quella notte però non ritrovavo il paradiso pesarese come l’avevo rimpianto negli ultimi mesi. Una bruma fredda spirata dalla valle del Foglia copriva quasi tutta la rena e si stava allungando sul mare, tenebrosamente. Tuttavia appariva ancora, seppure intermittente la luna che quella sera era piena ed era in grado di inviare sorrisi sporadici sulla distesa marina nelle cui increspature si immillava le luce. Pensai a Helena la maxima domina mater et magistra: “tibi rident aequora ponti”.
C’era una marea molto bassa, sicché camminando si poteva arrivare vicino agli scogli scabri della barriera senza bagnarsi. Quei macigni bianchi, coperti in parte di alghe verdi e mitili neri, mi fecero tornare in mente le rocce nude, i boschi e i prati della valle di Fassa quando al biancheggiare della luna brillano nelle notti serene di primavera e tutt’intorno freme la vita che rinasce nel greto del fiume, nei miti declivi già coperti di erba, negli erti pendii dei boschi, e muove i primi passi incerti anche nei dirupi scoscesi ancora chiazzati di neve. Dopo qualche minuto andai a dormire contento, nella casa dove alloggiavo già da bambino, a pochi metri dal mare i cui aliti mi infondevano gioia fin dai primi anni di vita.
Pesaro 29 ottobre 2024 ore 20, 15 giovanni ghiselli
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