Il pomeriggio del 26 giugno, intorno alle tre, partimmo per tornare a Bologna. Due giorni dopo avrei fatto l’ultima lezione per l’esame di maturità ai miei ex studenti, poi sarebbe stata vacanza completa: vacatio scholae. Decappottammo la nera Volkswagen e prendemmo l’autostrada. Un vento caldo, morbido e salato di umidità marina, ci scorreva sopra le membra come una lingua fervida in movimento.
Ifigenia era assai contenta di essere in giro con me. Mentre guidavo, la osservavo un po’ di traverso: sorridendo mi raccontava le varie vicende dei giorni passati, mi diceva a quanti ragazzi era piaciuta e come nessuno le fosse piaciuto perché aveva pensato sempre a me, intensamente, e aveva sentito non senza dolore la mancanza della mia presenza insostituibile.
Mi riempì di complimenti tanto smaccati e sperticati da mettermi quasi in imbarazzo. Quando se ne accorse, ammutolì, mi guardò con occhi dalle palpebre palpitanti, mi strinse la mano destra con forza, poi chinando il collo tornito, appoggiò lievamente la testa sopra il mio petto che avevo scoperto perché il sole di giugno lo abbronzasse e rendesse più lucido, più colorito. Voleva passare dalle parole ai fatti.
Sic vivamus ut quae fuerint verba sint opera, sussurrai compiaciuto[1].
Sicché fece scorrere il viso lungo il mio torace, all’ingiù: i folti capelli ondeggianti nell’aria veloce, mi solleticavano: la bocca dischiusa lasciava un’umida traccia sul mio costato facendomi rabbrividire.
“Sei molto salato” disse quando fu giunta al centro del corpo, l’ojmfalov~ non santo come quello del fatidico santuario situato sulla pendice occidentale del Parnaso dalle due cime.
Avevo sempre pregato e fatto voti giungendovi in bicicletta. Ci sarei tornato un paio di anni più tardi con Ifigenia. Anche la volta del 1981 pregai. Non chiedevo più l’amore di quella compagna di viaggio, diventato non auspicabile, ma di scrivere un capolavoro. Sarete voi lettori a dirmi se Dio mi esaudì.
Ifigenia chiese di vincere il premio Oscar come migliore attrice recitando in un capolavoro. Qualche cosa in comune l’avevamo ancora. Ma torniamo all’autostrada nel giugno del 1979.
Le accarezzavo le belle onde dei capelli corvini che fluttuavano mossi dal vento e non mi sottraevo al procedere della sua lingua. Ifigenia dunque scese fino alle cosce, poi girò il collo liscio e volse all’insù lo sguardo espressivo di desiderio amoroso. Quindi disse: “Gianni, ti prego, facciamo l’amore subito, ne ho tanta voglia!”
“Io pure”, risposi, “ma non l’ho mai fatto guidando. Tu però puoi continuare a baciarmi, se vuoi: non temere, non perderò il controllo”.
Non esitò. Fece il massimo. Io la spogliai a mia volta, con una sola mano, aiutato da lei; quindi le accarezzavo i capelli, il collo, la bocca anelante, il turgido seno di femmina in pieno rigoglio, le cosce fiorenti e, con mosse quasi acrobatiche, la parte intima de corpo incensurabile. Correvamo il rischio di romperci il collo e non solo, ma eravamo contenti di questa rinnovata intesa e fieri del nostro coraggio, del desiderio più forte della paura. Stavamo mettendo a repentaglio la vita per provare che il nostro amore poteva superare gli ostacoli anche alti che il destino ci avrebbe frapposto. Il vento caldo contribuiva al piacere con carezze lascive e infondeva coraggio. Le nitide spighe del grano maturo, prossime alla mietitura, lanciavano lampi di luce quali latori di messaggi indecifrabili in quel momento, gradit geroglifico annunciatori di vita ancora ricca di eventi da parte della nuda estate opulenta di frutti e incoronata dì fiori.
Quante volte, da ventenne depresso, avevo sognato tale miracolo che mi avrebbe tirato fuori dall’orribile gelido abisso dov’ero caduto!
Il corpo tutto intero di Ifigenia emanava effluvi pieni di aromi eccitanti che si mescolavano agli odori benefici inviati dalla madre terra prossima al parto. A un tratto fermai l’automobile nera nella corsia di emergenza. Di lì scendemmo nel fondo di un avvallamento scavato tra l’autostrada e un campo di lucide messi già pronte a offrire il collo alla falce dell’avido agricoltore.
Distesi, rinnovammo l’intesa.
Pesaro 23 settembre 2024 ore10, 31. giovanni ghiselli
p. s.
Sono tornato a vedere il film Foglie al vento di Kaurismäki, questa volta in lingua finlandese con i sottotitoli. Ho riconosciuto alcune parole pronunciato dalle finlandesi amate, riamato per un mese. E ho riconosciuto lo stile di Helena, Kaisa, Päivi nel personaggio della protagonista.
E’ lo stile del’essenzialità, senza commedie, senza una parola di troppo, senza finzioni. Lo stile della naturalezza. Da loro ho imparato a essere me stesso. Per questo le ho amate più di tutte le altre, e Helena più di tutte in assoluto. Baci gianni.
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[1] Viviamo in modo tale che quelle che erano state solo parole diventino opere compiute cfr. Seneca, Ep. 108, 35
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