Ifigenia CXXXII. L’impossibilità di essere “normale”. Silvia Virág e Ifigenia
La sera del 16 luglio uscii di nuovo con Silvia Virág che venne a chiamarmi in collegio mentre studiavo la storia romana. Tornammo all’Obester e riprendemmo a parlare di politica, ossia della vita nelle poleis che conoscevamo
La bionda tedesca ribadiva che la Germania Orientale era oppressa dal tallone del tiranno Honecker puntellato e sorretto dall’esercito sovietico.
Io ribattevo che l’Italia non stava meglio in quanto raggirata e inebetita da un liberalismo il cui fine è che la massa non pensi, non ami, e consumi di tutto ingordamente con le fauci spalancate e il cervello chiuso.
Il popolo una volta politico “ nunc inhiat panem et mendacia ut devoret ” , ora spalanca la bocca per divorare pane e menzogne
“Da noi-dicevo- imperversa una gioventù intruppata in branchi rumorosi, ottusi, faziosi, oppure in greggi pigri, queruli, flebili, oppure petulanti e beceri, o viceversa afasici.
Intanto, nel vuoto di cultura, di idèe, di sentimenti forti e buoni, proliferano vizi quali la malafede, l’egoismo, la droga, la violenza. Sintesi e simbolo di tutto questo sono le stragi occultamente programmate ed eseguite da una manovalanza di sicari. I giovani sono sciancati nell’anima, gli adulti sono incoscienti o, se coscienti, restano comunque sottomessi e silenziosi. Io ho perso il lavoro che mi piaceva per avere criticato il potere.
C’è stato un intellettuale coraggioso, Pier Paolo Pasolini, che ha denunciato la complicità di parti dello Stato nelle stragi ed è finito massacrato di botte da un branco di funzionari del crimine nel novembre del 1975”.
Silvia tornò a lamentare la censura e l’assenza di tanti autori europei, introvabili nelle librerie di Berlino est. Era meno difficile reperirli in Ungheria dove c’erano maggiori sperequazioni economiche ma più libertà culturale.
Un comunismo al gulasch, si diceva di quello di Kádár.
Tornato in collegio, in camera mia , ripensai alla serata. Quella donna diceva parole che mi facevano pensare, come succede dopo un film interessante o una lettura significativa.
Ifigenia invece mi obbligava a rimuginare soprattutto cercando di ingelosirmi. Oramai nella mia povera testa pullulavano ipotesi pessime. Sapevo che nell’amore il dubbio di non essere corrisposto è tale certezza, ne ero sicuro per averlo provato più volte, ma durante quel mese volli soffrire fino in fondo il dilemma ridicolo e irrazionale “m’ama non m’ama” per imparare dell’altro dal dolore che sentivo ogni giorno davanti all’assenza di messaggi per me.
Tornato in Italia, potei constatare in presenza di Ifigenia che il mio pathos doloroso non era parto di un cervello malato, bensì faceva parte del logos che voleva capire prima di rinunciare.
Ifigenia mi fece un racconto caotico e contraddittorio delle sue avventurose vacanze e disse che non mi aveva scritto perché temeva il mio giudizio sul suo stile. In realtà mi aveva inviato un telegramma laconico e ingannevole: “aspetta il mio espresso”, poi non aveva mandato nient’altro siccome non aveva nulla di buono da comunicarmi e non poteva rivelarmi la verità sulle sue faccende poco limpide e buone, almeno dal mio punto di vista, viziato, forse, dal moralismo. Decidi tu, lettore.
Il fatto è che non sapevo o non volevo prendere la vita com’è davvero, ingabbiato com’ero negli schemi innaturali che mi impedivano di vivere dando retta all’istinto: il mio non era cattivo ma diversi pulpiti proprio per questo l’avevano demonizzato.
Mi avevano indotto a cercare la donna della vita, la donna per sempre.
Solo verso i cinquanta anni ho compreso che questa per me non esiste. Ho sempre funzionato meglio con la donna precaria, la donna impossibile, la straniera estrema, o la moglie di un altro. Insomma la non sposabile.
Mi avrebbero aiutato i classici a capire, a rompere i serrami del carcere. Nel campo amoroso soprattutto Ovidio.
Quando vidi arrivare l’alba biancheggiante tra gli alberi della grande foresta, smisi di rimuginare e mi addormentai.
Ifigenia CXXXIII. Doppio sogno con Helena e gli amici. Le nozze impossibili
La notte tra il 27 e il 28 luglio sognai: situazioni felici dei miei ventanni lontani, sognai. Ebbi due visioni notturne pullulate dal ricordo di due gite fatte nell’estate del 1971.
La prima al Tibisco in luglio con Helena, Fulvio, Ezio, Alfredo e Claudio.
Giungemmo a Zahóny dove il fiume divideva l’Ungheria dall’Unione Sovietica. L’acqua era solcata da motoscafi con uomini armati. Volevo farmi bello con Helena e dissi: “andiamo a nuotare?”. Ezio approvò.
Per accentuare il rischio e l’eroismo dell’impresa dissi: “dai Ezio, attraversiamo il fiume: “vediamo se i Russi sono davvero cattivi come si dice e ci sparano addosso”. Helena replicò con il suo stile di donna coraggiosa e incoraggiante: “Ma no, il Tibisco non è l’Ussuri! Da Budapest a Vladivostok vale e funziona il patto di Varsavia!”.
Dopo tale benedizione dalla domina mia santa protettrice avrei affrontato anche le cannonate. Sicché ci tuffammo dalla riva cespugliosa e sassosa. Quando fummo in mezzo alle rauche correnti però, il via vai dei motoscafi che perlustravano le sponde ci sbigottì. Temevamo urti terribili dalle prore dei battelli veloci mentre si nuotava con la testa appena affiorante dall’acqua. Mezza bravata l’avevamo già fatta e gli amici ci applaudirono. Quindi ci offrirono da bere in una csárda con violani zigani e le danze ungheresi di Brahms. Era l’Ungheria ritenuta autentica, ma pure di maniera e un poco falsa, come piace a me.
Ripartimmo per Debrecen verso le nove. Nel sogno che sto raccontando Helena non c’era più. Non vedevo l’ora di arrivare per ritrovarla. Cantavo Kalliolle kukkulalle-rakennan mina maiani- tule tule tytto nuori- yakama se munkassani.
Queste parole avevo sentito dal coro delle finniche e le ripetevo nel sonno senza sapere che cosa significassero, però mi sembrava un canto d’amore.
Arrivati a Debrecen intorno alle 11, mi precipitai sotto la finestra dove mi era apparsa tante volte Elena bella ma questa volta non c’era. Allora mi diedi a correre freneticamente su e giù per le scale dei due collegi, invano. Quindi decisi di andare a cercarla in tutti i locali di Debrecen. Prima però andai a fare una doccia. Tornato in camera, avvenne il miracolo: bussò lei e mi chiese di portarla a ballare al Művész. Questo era successo davvero.
Dopo questo sogno ne feci un altro, sempre fondato su un ricordo bello.
Eravamo seduti in un locale sul Balaton in una sera di agosto. Avevamo cenato e bevuto insieme, parlando bene delle nostre vite. Eravamo felici.
Volli dare un’altra prova di coraggio, di confermare il mio ruolo di vir, anzi di onorarlo mostrando segni di virtus.
“Vado a tuffarmi nel lago e nuotare” dissi alzandomi.
Questa volta Elena cercò di trattenermi: “stai scherzando? Hai appena terminato di cenare: vuoi lasciarmi vedova qui in Ungheria?”
“No, anzi, tesoro: vado a nuotare per meritare il tuo amore: se non facessi il bagno dopo questa mangiata e bevuta rischierei il torpore che costituirebbe un offesa per la tua immagine santa”.
Così andai a nuotare e al ritorno fui accolto come un eroe da Elena e dai nostri amici allertati da lei nel caso che l’acqua fredda mi avesse provocato malore.
Due storie dunque e un doppio sogno. Credo che se non avessi nell’anima tali ricordi sarei morto da un pezzo, morto pazzo di dolore o di noia. Ricordi belli e santi come questi costituiscono la migliore delle educazioni. Lo dice Alioscia alla fine dei Fratelli Karamazov e lo confermo con queste storie di Elena e mie.
Pesaro 24 settembre 2024 ore 17, 32 giovanni ghiselli
p. s
Le parole della canzoncina finlandese possono essere piene di errori. Se qualcuno me le correggerò sarò contento. Magari fosse Elena stessa! Chissà se è ancora viva o è morta come gran parte dei miei coetanei.
Anche Marisa è morta: ne ero innamorato a 13 anni: eravamo i due più bravi della scuola Lucio Accio.
Io mi tengo su leggendo, scrivendo, parlando e pedalando. Lei era una puledra di razza ma temo che sia inciampata correndo. E’ stata l’unica che mi ha fatto pensare alle nozze. Ma eravamo due bambini, poi ci siamo persi di vista.
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