lunedì 16 settembre 2024

Ifigenia L e LI

Ifigenia L. la casa di Pesaro 1. Ora comprendo

 

Il 24 dicembre andai a Pesaro. La casa dove ho abitato dal 1946 al 1963 può essere paragonata all’inferno dei poeti greci e latini oppure a un manicomio. Negli anni Cinquanta con me e mia sorella ci abitavano stabilmente i nostri nonni materni e  due delle loro figliole diffidando ciascuno degli altri, di se stesso e dell’intero genere umano. I più anziani, la nonna Margherita e il nonno Carlo  detto Carlino, litigavano quasi sempre e venivano spesso ingiuriati dalle figliole presenti: la più attempata e la più giovane delle loro cinque figlie. Avevano avuto anche un maschio come sesto, Luigi detto Gigi, che però come ogni uomo che mettesse piede in casa nostra era poco considerato. Da noi vigeva un matriarcato tirannico. Fin dalle elementari avevo capito che per salvarmi, per non essere dìschiacciato come uno scarafaggio dovevo primeggiare a scuola. La zia Rina che in casa nostra comandava su tutti con piglio autoritario e sprezzante aveva fatto la maestra all’estero durante il fascismo e continuava a farlo nelle elementari Carducci di Pesaro dove ero scolaro io e quando lei veniva a sapere dalla collega che suo nipote era il più bravo ne era contenta e mi gratificava di elogi.

La vittima bersagliata da tutti era invece suo padre Carlino: il povero vecchio ogni giorno durante i pasti veniva assalito dalla moglie, poi dalle figlie che imitavano la madre, una donna piena di risentimento  contro il marito perché lui nel 1900 aveva sottratto lei diciottenne a una cospicua famiglia di proprietari terrieri agognandone la possidenza. Il padre della nonna  possedeva 500 ettari.

La nonna Margherita aveva tenuto stretta la roba e maltrattava il marito che da tale connubio mal calcolato non aveva tratto vantaggi bensì umiliazioni. Per giunta era gelosa perché il nonno da giovane era stato un donnaiolo e la moglie credeva che pure da vecchio si desse da fare cercando di ghermire di notte la fantesca che dimorava da noi.

Questo è l’ambiente dove sono cresciuto in assenza di padre. La madre mia l’aveva lasciato tornando nella casa dei suoi genitori portandomi con sé quando avevo un anno e cinque mesi.

Da queste vicende derivano le mie malattie spirituali e pure  l’accanimento nel volere rifarmi, cioè recuperare l’Amore, la Bontà e l’Intelligenza  che mi erano stati negati quando vivevo in quella bolgia, prima senza aiuto, poi  con il conforto delle gare ciclistiche vinte sulla Panoramica e degli ottimi risultati scolastici nelle elementari Carducci, nelle medie Lucio Accio e nel Liceo Terenzio Mamiani.

Dopo la maturità partìi per Bologna dove rimasi a studiare Lettere antiche.

Durai fatica a intessere una vita adatta alle mie capacità ma infine vi sono riuscito.

La pena di cui mi ero investito per anni è la più grave di tutte: non con l’enorme macigno che pende dal cielo sul capo, non con gli avvoltoi che penetrati nel petto divorano il cuore, non con il terrore del cane tricipite dal ringhio metallico, né delle fetide Arpie, delle Erinni odiose che rinfacciano tutte le colpe con ira recrudescente, non con l’orrore del Flegetonte tartareo che rumoreggia travolgendo anche le rupi nella sua rapina, non con l’attesa di questi tormenti pagano il fio quanti prendono a calci l’altare santo della Giustizia, ma con l’insaziabile fame e l’inestinguibile sete di amore

Discite iustitiam moniti et non  temnere divos[1].

Le smisurate  sofferenze  patite tra i 19 e i 21 anni quando mi recavo al porto di Pesaro o sull’argine del Reno

 “pensoso di cessar dentro quell’acque

 la speme e il viver mio”[2]

mi hanno insegnato la solidarietà con i sofferenti della terra.

Mio nonno Carlino era un uomo buono e maltrattato da vecchio. Anche da me che imitavo le prepotenze di chi comandava: ero bravo a scuola ma non capivo.

Ora comprendo e credo, sono certo che il nonno Carlo mi ha perdonato.

 

 

 

Bologna 16  settembre 2024 ore 20, 12 giovanni ghiselli

 

 

Ifigenia LI. la casa di Pesaro 2. Al nonno Carlo Martelli, detto Carlino.

 

Devo comunque essere grato alla mamma e alle zie: da quando non abito più a Pesaro criticato e limitato in tutto da loro, queste donne mi hanno fornito i mezzi per vivere una vita da studente poi da studioso dedito allo studio, all’amore e alla bicicletta. Un poco mi hanno beneficato per espiare i maltrattamenti inflitti al padre cui fisicamente assomiglio, e ancora di più per consentirmi di prendere la laurea con lode e fare carriera.

Non ne ho fatta poi tanta nell’istituzione ma a loro è bastato e anche a me. Dunque per Natale andavo a trovarle. Mia madre diceva che  Rina e Giulia- da lei soprannominate da lei  “ le due sorelle Materassi” per il loro nepotismo-quando vedevano me era come se vedessero il sole. Il Natale, come sapete, era il dies Natalis solis invicti, sicché il 24 ero apparso alle zie e il 25 le illuminavo.

Conquistata la mia emancipazione dalla lunga servitù pesarese, non solo ero grato ma volevo bene ai miei consanguinei. L’ambiente conflittuale nel quale avevo passato l’infanzia e l’adolescenza non mi ha consentito il mollescere, diventare mollis-malakov~, ossia il rammollirmi nel torpore, il veternus, dove tanti ragazzi si ottundono in situazioni dai problemi occultati. La durezza delle virago di casa mi ha preparato alle battaglie che avrei dovuto affrontare per diventare e rimanere me stesso. Il dolore mi ha reso buono, la deformità e lo squallore dove ero precipitato a ventanni mi ha spinto alla ricerca della bellezza. Ero stato messo in croce, come il figlio di Dio da suo padre, perché risuscitassi migliore di prima: più generoso, più bravo e più bello.

L’unico che sorrideva in casa era il nonno Carlo che ho recuperato del tutto al mio affetto anche se non poteva darmi denaro siccome aveva venduto il palazzo quattrocentesco della sua famiglia a Gherardo Buitoni per 200 mila lire che non investì nel 1944 e gli servirono per pagarsi il funerale una cinquantina di anni più tardi.

Questo palazzo  conserva il cognome Martelli  nella piantina che si trova nella pinacoteca di Borgo Sansepolcro nel cui cimitero ora riposano in pace i resti mortali dei nonni, della mamma delle zie e dei Martelli più antichi.

Sono stato più volte a trovarli, pregare e a prendere auspici su questa tomba che per me è un’ara. Ogni volta scavalcando l’Appennino con la bicicletta. Anche questo devo ai miei cari.

 

A Pesaro c’è  un altro palazzo non più nostro ma con un cognome nostro: il palazzo Scattolari dove nacque nel 1882 la nonna Margherita che invece seppe conservare la terra

 

Nella tragedia Eracle di Euripide, Megara rivendica il palazzo di famiglia: “ figli, seguite il piede disgraziato della madre al palazzo paterno: ou| th'" oujsiva"-a[lloi kratou'si, to; dj o[nom j      [esq j hJmw'n e[ti ( 337-338), del quale altri hanno la proprietà, ma il nome è ancora nostro”.

 

 

Questo nonno sorridente, del tutto improvvido rispetto al denaro, ha svolto  la funzione della madre del puer alla fine della IV Bucolica di Virgilio: “incipe, parve puer, risu conoscere matrem (60)

(…)

Incipe, parve puer: cui non risere parentes,

nec Deus hunc mensa, Dea nec degnata cubili est  (62-63), comincia bambino fin da piccolo, a conoscere la madre dal sorriso, comincia  fin da piccolo, quelli cui non sorrisero i genitori, né un dio ha giudicato degno della sua mensa, né una dea del suo letto.  Sono molto grato a Carlino.

 Sono molto grato anche alle dèe che mi hanno considerato degno del loro letto. Ricordo le due Elene.

Il nonno mi ha lasciato più del denaro: oltre il ricordo dei suoi sorrisi da vecchio povero, l’amore per le donne, per il sole e per la bicicletta.

 

Bologna 16 settembre 2024 ore 20, 2o

giovanni ghiselli

p. s.

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[1] Virgilio, Eneide, VI, 620, imparate la Giustizia una volta avvisati e non disprezzare gli dèi.

[2] Leopardi, Le ricordanze, 108-109(

Annibale L’Italia meridionale dopo la seconda guerra punica. Annibale lotta contro i Romani fino all’ultimo giorno.

 


 

Ancora Rumiz

“la Repubblica” 19 agosto 2007

“A Sibari è morto Erodoto…Pitagora, dimenticato da Crotone, e Archimede, ignorato a Siracusa

Annibale “fu ospitato dai Bretii, i montanari della Sila…Era un popolo indipendente-narra l’archeologa (Silvana Luppino) –che procurava ai naviganti alberi maestri e la miglior pece del Mediterraneo”. Cosenza era il quartier generale, che in latino vuol dire Consentia, il luogo del consenso, del “patto di alleanza”.

Temuti dai Greci e invisi ai Romani, furono duramente puniti quando Annibale se ne tornò in Africa. I loro terreni vennero requisiti. I loro diritti aboliti…La casa di Antonio Milano, professore di latino a Lamezia, pare la torre di controllo di un aeroporto…Lassù c’è Cosenza “senza mura come l’antica Sparta”…lì i marosi di Squillace, il grande capolinea da dove il Cartaginese lasciò l’Italia nel 203Bretii, per carità, viene dal greco Brevttioi”.

Sono i Calabresi. Anche la loro ’ndtrangheta viene dal greco: ajndragaqiva, virtù virile.

 

 20 agosto “la Repubblica”, p. 33.

“Apro il dizionario mitologico, lo esploro con la torcia, cerco di Crotone, e scopro con un brivido che capo Lacinio, o Capo Colonna (delle Colonne) che dir si voglia, è il punto terminale del viaggio di Ercole, prima dell’imbarco per la Sicilia.

Ercole-Annibale e Crotone

Ancora Ercole! Il viaggio di Annibale è tutto sulle sue tracce. Parte dal suo tempio a Cadice, continua per la “Via haerculea”, valica i Pirenei dove l’eroe ha amato una ninfa (Pirene), passa le Alpi sempre sulla sua strada, e così avanti fino in Lazio. Se avevo dubbi che Annibale avesse costruito la sua strada apposta per entrare in un mito erculeo, ora non ce l’ho più. Crotone DOVEVA essere il suo imbarco. Lì due ricchi mandriani di nome Kroton e Lakinos rubano al gigante parte delle mandrie, e quelle mandrie vengono da…Cadice. A Crotone lui li ammazza, costruisce il tempio di Era-la dea contenuta nel suo nome Era-kles-e quel tempio è puntato verso le porte dell’alba esattamente come il porto di Cadice è aperto verso l’Oceano, sulle leggendarie “porte della notte”. Simmetria perfetta.

 

Il latifondo

Latifundia perdidere Italiam…lo aveva capito già il vecchio Plinio, grandissimo storico dell’antichità. La sentenza mi batte in testa da giorni, da quando ho ricevuto uno straordinario regalo di Roberto Cerati, glorioso patriarca di casa Einaudi. Un doppio volume dell’82: L’eredità di Annibale di Arnold Toynbee, studioso inglese che ha speso trent’anni sugli effetti della guerra punica in Italia….Un conflitto durato il quadruplo della Grande Guerra non può che lasciare segni indelebili sul territorio in cui si gioca. E’ quanto accadde all’Italia del Centro- Sud. A piegarla, più delle distruzioni e delle rappresaglie, sono gli arruolamenti in massa dei liberi contadini allontanati dalle loro campagne  e le vendette romane contro i popoli e le città passati-o costretti a passare-dalla parte di Annibale. Alla fine della guerra la piccola proprietà contadina del Mezzogiorno è in ginocchio e la nobiltà italica diventa padrona di terreni immensi requisiti agli “infedeli”. E’ allora che esplode il latifondo, il grano soppianta orti e frutteti. I contadini scappano nelle città, i pastori transumanti dilagano, l’Appennino si riempie di schiavi-mandriani, pastori armati pronti a diventar banditi. Forse la questione meridionale non nasce con i Borboni o l’unità d’Italia, ma molto prima. Negli anni di Annibale”.

Plinio il Vecchio[1] constata nell’età flaviana il punto di arrivo di un processo iniziato già al tempo delle guerre annibaliche.

Trimalcione vanta i suoi smisurati e imperscrutabili latifondi:"deorum beneficio non emo, sed nunc quicquid ad salivam facit, in suburbano nascitur eo, quod ego adhuc non novi. dicitur confine esse Tarraciniensibus et Tarentinis. nunc coniungere agellis Siciliam volo, ut cum Africam libuerit ire, per meos fines navigem" (Satyricon,48, 2), grazie a dio non compro niente, ma ora tutto quanto fa venire l'acquolina in bocca nasce in quel podere vicino alla città che io ancora non conosco. Si dice che fa da confine con le terre di Terracina e quelle di Taranto. Ora con dei campicelli  voglio unire la Sicilia, in modo che, quando mi andrà di recarmi in Africa, possa navigare lungo le mie terre.

Qui si trova il problema del latifondo che si estende dal I secolo d. C. a partire dall'Africa.

"Ma indubbiamente anche in Italia le grandi tenute divennero sempre più estese e a poco a poco assorbirono le fattorie di media estensione e i poderetti contadineschi. Seneca lo dice esplicitamente ; ed egli poteva ben saperlo, essendo uno degli uomini più ricchi d'Italia, se non addirittura il più ricco, sotto Claudio e Nerone, e proprietario egli stesso di vaste tenute…Le tenute di media estensione furono a poco a poco rovinate dalla mancanza di vendita e vennero acquistate a buon mercato da grandi capitalisti. Questi ultimi naturalmente desideravano di semplificare la gestione delle loro proprietà, e, paghi di ottenerne un reddito sicuro se pur basso, preferivano dare la loro terra ad affittuari e produrre prevalentemente grano"[2].

 

 In Italia vengono meno le culture intensive di vite e olivo poiché le province, divenute autarchiche, non assorbono più questi prodotti. Quindi si torna a coltivare il grano con metodi non razionali: i braccianti, schiavi o liberi, non forniscono un lavoro di qualità; i proprietari assenteisti del resto non li seguono.

 

Caso di Locri e di Quinto Pleminio. “Sembrano storie di ‘ndrangheta, ma è una ‘ndrangheta romana. E’ un andazzo generale. Dopo la partenza di Annibale, i governatori locali cominciano a trattare le popolazioni italiche come colonie sub-sahariane. Saranno i fratelli Gracchi (poi uccisi) a lamentarsene in Senato in un discorso del 173 a. C.  (sic! È una data sbagliata: i Gracchi non erano nati: Tiberio 163-132; Gaio 154-121) ) riportato da Aulo Gellio. Ne trovo nel libro dei passi illuminanti “Un console andò a Teano. Sua moglie disse che voleva servirsi dei bagni degli uomini e si ordinò al questore di cacciarne quelli che li stavano usando. Ma la signora riferì al marito che i bagni non erano stati messi prontamente a sua disposizione e che non erano puliti. Per questo motivo si piantò un palo nel foro e vi si condusse Marco Mario, il membro più autorevole della comunità che fu spogliato e frustato. Quando gli abitanti ne furono informati, introdussero una regola per cui nessuno doveva usare i bagni quando un magistrato romano si trovava in città”.

 

 

“la Repubblica 21 agosto La grande battaglia (di Zama) Paolo Rumiz

“Siamo seduti sull’erba alta, sulla collina di Zama Regia, con i testi di Polibio e di Tito Livio in mano….Scipione ha rinunciato da tempo alla realtà romana. E’ diventato più callido di Annibale. Ha occupato mezza Tunisia fregando i Cartaginesi con spie travestite da ambasciatori, operazione che gli consente di dare alle fiamme gli accampamenti del nemico. Da Annibale ha anche imparato la manovra avvolgente…La perfeziona, la adatta alla fanteria pesante romana. Per la prima volta è in vantaggio come numero di uomini e anche come cavalleria…ha con sé i Numidi di Massinissa, ex alleati di Annibale, ora passati dalla sua parte

Annibale è una volpe, compie proprio a Zama il suo capolavoro. Attira Scipione in una trappola statica. Manda i suoi Numidi in fuga e costringe le cavallerie romane all’inseguimento, dirottandole dalla manovra a tenaglia. Poi lascia i suoi “invincibili”-i veterani della campagna d’Italia-fermi in retroguardia, per schiantare i Romani già stanchi dell’assalto.

Scipione è in difficoltà ma i suoi non mollano. Sono anche loro uomini anziani, ma a differenza dei Cartaginesi mai hanno sentito in bocca il gusto della vittoria. Sono i superstiti del carnaio di Canne. Uomini cui Roma mai ha espresso gratitudine: reparti di punizione, tenuti in Sicilia per dieci anni, lontano da casa, a purgare la sconfitta.. Si faceva così allora: compassione zero per i perdenti”.

A meno che fossero consoli: cfr. Varrone

“Cartagine non puniva i soldati ma crocifiggeva i generali sconfitti. Quei veterani Scipione se li è visti assegnare dal Senato, ed è un regalo al veleno….ma lui trasforma quei disperati nel suo percussore…Le legiones cannenses tengono duro finché le cavallerie romane, sconfitto il nemico, tornano sul campo a dare la bastonata finale, come il generale Bluecher a Waterloo contro Napoleone…M’hamed Hassin Fantar, gran professore di Tunisi, mi aveva avvertito: “Qui Annibale è un mito, conserva un, aureola e un prestigio immenso nonostante la sua sconfitta militare”.

Brizzi traduce Livio XXX, 32 con lo schieramento annibalico.

 

la Repubblica 22 agosto, p. 35 Rumiz L’ombra del Minotauro

“E’ il 189. Sono passati 13 anni da Zama e Annibale è approdato a Creta…Di lui si sa pochissimo, tranne che compare qua e là come una una meteora nel buio. Ricapitolo le tracce del vecchio leone dopo la sconfitta di Zama. Nel 201 lui spiazza di nuovo tutti e diventa il miglior garante della pax romana. Fa di più: sorveglia il pagamento dei danni di guerra e riesce a risanare le finanze di Cartagine. Attacca i privilegi dei ricchi, ne denuncia gli abusi, scoprendo scandali finanziari, e per questo si mette in urto con la classe dirigente che comincia a complottare contro di lui. Patria ingrata! Un’ambasceria è mandata a Roma, dall’ex nemico, perché il vincitore di Canne sia tolto di mezzo, ma lui fiuta il pericolo salta su una nave e scappa fino a Tiro, nell’attuale Libano. Anche lì non ha pace. Si sposta a Efeso e incontra Antioco, re di Siria. Gli dà consigli strategici, torna per suo conto in Libano-l’antica Fenicia- e gli procura una flotta. I romani s’inquietano, temono che il nemico risorga dalle ceneri, e ne richiedono la consegna ad Antioco. Spiegano che numquam satis liquebit nobis in pace esse populo romano, ubi Hannibal erit, non  sarà mai chiaro per noi Romani il fatto di essere in pace dove ci sarà Annibale….

 

Il sogno di Annibale nel De divinatione  (24) di Cicerone (del 44 a. C.)

Anche Annibale sognava, e spesso erano brutti sogni. Il più orrendo lo fece prima dell’avventura italica, un anno prima di varcare i Pirenei con i suoi novantamila uomini. Cicerone ne scrive nel suo De divinatione, dedicato ai presagi. La fonte indicata è Sileno di Calatte, una storia greca seguita da Celio: is autem diligentissime res Hannibalis persecutus est.

“Dopo la presa di Sagunto Annibale sognò che era chiamato da Giove al concilio degli dèi. Lì gli venne ordinato di portare guerra all’Italia e gli venne dato un dio come guida. Seguendo le sue indicazioni, cominciò a marciare col suo esercito. Quel dio, allora, gli ordinò di non voltarsi e non guardare mai indietro. Ma lui non riuscì a resistere, e, cedendo alla bramosia di vedere, si voltò”

Tum visam beluam vastam et immanem circumplicatam serpentibus…Vide una belva enorme e orrenda, circondata di serpenti, la quale, ovunque passava, abbatteva ogni albero, ogni virgulto, ogni casa. Annibale stupefatto chiese al dio (Melqart) che lo guidava cosa fosse mai un mostro simile, e il dio rispose che quella era vastitatem Italiae, la devastazione dell’Italia, e gli ordinò di continuare il cammino senza curarsi di ciò che avveniva alle spalle  ut pergeret protinus, quid retro atque a tergo fieret ne laboraret”….Il mostro era davvero la devastazione dell’Italia, oppure altro?...Il mostro deforme non era piuttosto la resistenza di Roma, la sua testarda volontà di resistere nonostante le ripetute sconfitte?

 

 L’uomo senza pace era nascosto a Creta, e intanto Roma vinceva in tutto il Mediterraneo, aveva conquistato la Spagna, vinto in Africa, battuto i Macedoni impegnandosi in una nuova durissima guerra subito dopo quella con i Cartaginesi. E allora quel mostro non era forse la micidiale forza organizzativa di una potenza capace di affrontare qualsiasi sacrificio? Non era la durezza implacabile e la disciplina di una classe dirigente in grado non solo di conquistare ma anche di governare i territori tessendo relazioni d’elite? Ma certo. Ora ne sono sicuro. L’idra era semplicemente Roma imperiale, cui Annibale aveva tolto ogni freno inibitore”.  

Quindi Rumiz raconta l’aneddoto del dei due nemici, un generale nazista fatto prigioniero (Heinrich Kreipe) e il nemico (Patrick Fermor )  che l’ha catturato i quali, nell’aprile del 1944, vedendo l’Ida innevato si scambiano i versi di Orazio sul Soratte: “Vides ut alta stet nive candidum Soracte”…Nec iam sustineant onus silvae laborantes geluque flumina constiterint acuto. Fermor 60 anni dopo commenta: “quant’erano preparati i militari una volta…Io ero stato mandato in Grecia perché avevo studiato Omero, e Kreipe aveva fatto otto anni di studi classici. Sono cose che non esistono più. Mentre penso alla straordinaria forza di quelle fonti millenarie, capaci di avvicinare anche acerrimi nemici, il cameriere mi porta una birra Mythos con un’occhiata complice. E’ come se mi dicesse: “Non avere dubbi, il tuo non è un viaggio visionario”. Grandiosa birra greca con vista”.

 

Cornelio Nepote

racconta che Annibale nel 193 si recò da Antioco e che combattè per lui nel mare di Pamfilia contro la flotta dei Rodii la quale  prevalse per superiorità numerica, ma nel settore da lui comandato Annibale riuscì vincitore. Dopo la sconfitta di Antioco andò a Gortina in Creta. Ma qui il vir callidissimus omnium  si accorse di essere in pericolo propter avaritiam Cretensium: magnam enim secum pecuniam portabat. Allora riempì molte anfore di piombo, e ne coprì la parte superiore con uno strato di oro e argento, poi le depose pubblicamente nel tempio di Diana, simulans se suas fortunas illorum fidĕi credere. Depistatili, mette l’oro in alcune statue di bronzo che aveva con sé. Così illusis Cretensibus si recò in Bitinia. Qui aizzava Prusia contro i Romani.

Nel 184 combatté contro Eumene di Pergamo sconfiggendo la flotta dei pergameni con un lancio di serpenti. Poi la morte, a 70 anni. Scrisse libri in greco.

Sosilo spartano fu il suo maestro di lingua greca. Seguì Annibale durante la spedizione di cui scrisse un resoconto in 7 libri. Ci è arrivato un frammento del IV libro in un papiro.

 

“la Repubblica 23 agosto, p. 31.

La guida armena “mi insegna a scrivere “Hannibal” in alfabeto armeno, poi mi apre un testo di Plutarco “Il re Artassa-c’è scritto- rimase contento dell’idea di Annibale e lo pregò di assumere lui stesso la direzione dei lavori. Sorse così un modello di città grande e assai bella che, assunto il nome stesso del re, fu proclamata capitale dell’Armenia Plutarco, Vita di Lucullo 31, 4 ss.

 Annibale andò dal  re di Armenia Artassa dopo la sconfitta di Antioco (189 Magnesia) e dopo Creta. Gli fece notare come fosse molto bella una zona incolta e negletta. Quindi disegnò una pianta della città da costruire in quel punto. Il re lo pregò di assumere la direzione dei lavori. Così sorse una città modello grande e bella.

 

“Cosa cercava Annibale su queste montagne? Forse niente di diverso da ciò che lo spinse a sfidare la morte in battaglia. L’immortalità della memoria. Ma se è così, forse c’era ancora Ercole, il suo mito, a indicargli la strada. Eracle uccisore di mostri e costruttore di città….”Ma lui raggiunse il suo scopo?” chiede alla fine il pastore

Sì gli dico-se è vero che oggi parliamo ancora di lui. Annibale credeva solo nell’immortalità della memoria. E poi: “Vedi Vardges, se quell’uomo non fosse esistito 2200 anni fa, noi non ci saremmo mai conosciuti”.

 

“la Repubblica” 24 agosto, p. 35

“Proprio qui sotto l’Ararat…piega verso il Bosforo, dove si compie la parabola della sua vita….Annibale NON va a Oriente per NON seguire Alessandro, per non essere la copia di nessuno. Le strade altrui non gli interessano. Vuole aprirne di nuove, come il suo grande modello, Ercole uccisore di mostri e fondatore di città…Ed è appunto una città che egli fa costruire. La seconda, dopo l’armena Artaxata. Il suo nome è Prusia, in onore di Prusa, il re di Bitinia che accetta di ospitarlo, ma nei secoli diventerà Bursa, prima capitale dell’impero ottomano. Se esiste davvero una traccia del suo passaggio in terra, eccola: sta sull’acropoli di Bursa.

La Bitinia è vicina alla propontide

 

La morte di Annibale

Non sul campo di Canne o di Zama, dove non è rimasto nulla, ma in Anatolia, a due passi dall’antica Troia, dove l’Asia finisce sul mar di Marmara…E’ lì che la storia finisce, nel 183 avanti Cristo, vent’anni dopo la partenza dall’Italia. Il cartaginese si è costruito un buen retiro a Libyssa, l’attuale Gebze, 40 chilometri a est di Bisanzio, ma i Romani non lo lasciano in pace nemmeno lì. Un’ambasceria guidata da Tito Quinzio Flaminino è andata dal re Prusa per chiedere la testa dell’illustre protetto, e questi, per non inimicarsi la Grande Potenza, ha accettato di tradirlo. Quando Annibale si scopre circondato, si fa dare il veleno “tenuto in serbo da tempo per un evento del genere”.

“Liberiamo il popolo romano dalla sua angustia-esclama, prima di morire, nella cronaca di Tito Livio-se esso trova che duri troppo l’attesa della morte di un vecchio. Né grande né gloriosa è la vittoria che riporterà Flaminino su un uomo inerme e tradito. Basterà questo giorno a dimostrare quanto sia mutata l’indole dei Romani. I loro avi misero sull’avviso il re Pirro, loro nemico insediato con un esercito in Italia, che si guardasse dal veleno. Questi di oggi, invece, istigano…a uccidere un ospite”. Poi, continua Livio, “dopo avere imprecato contro la vita…e invocato gli dei ospitali a testimoni della fiducia violata dal re, vuotò la tazza” Haec vitae exitus fuit Hannibalis…Aveva 64 anni…So che da quelle parti l’imperatore romano Settimio Severo, intorno al 195 dopo Cristo, trovò un tumulo di pietre col nome di Annibale e lo fece ricoprire di Marmo bianco…Settimio era nato in Africa (a Leptis Magna nel 145) come il Cartaginese, e non aveva più imbarazzi a ricordare il grande conterraneo dopo secoli di damnatio memoriaePlutarco Vita di Flaminio, capitolo 20, paragrafi 5 e 6. “sembra ci fosse una vecchia profezia sulla sua morte. Così recitava: ‘una zolla ricoprirà il corpo di Annibale’. L’interessato credette che il riferimento fosse alla Libia e dunque a una sua sepoltura a Cartagine, e che là avrebbe finito i suoi giorni. Ma vi è in Bitinia una regione sabbiosa presso il mare e lì un piccolo villaggio chiamato Libyssa”…Era stato tradito da un gioco di parole. “Gebze, stazione di Gebze, fine corsa”. 

 

Pesaro 16 settembre 2024 ore 18, 28 giovanni ghiselli

p. s.

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[1] Naturalis historia, XVIII, 7. Plinio il vecchio 23-79.

[2]  M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero romano, p.115.

Ifigenia XLII-XLIII-XLIX. A Carmignano da Antonia: la mia migliore amica di sempre.


 

Ifigenia XLVII.  A Carmignano da Atonia, la mia migliore amica di sempre.

 

Quindi vennero le vacanze di Natale mai gradite perché durante le feste della casa e della famiglia chi di solito è solo, si ritrova più solo che mai.

Pavese scrisse: “Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?” (Lavorare stanca, 8). 

Quindi: “

Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno

in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara

che l’inutilità”  (Lo steddazzu, 10-12)

A 42 anni questo poeta si uccise. A venti anche io ero pensoso di finire presto la vita mia, gravoso e inutile peso alla terra com’ero. Poi mi sono ricreduto valorizzando tutto me stesso: perfino la solitudine cronica interrotta solo da qualche avventura. Ora rispondo: sì ne è valsa la pena. Ho potuto indagare me stesso, diventare me stesso, studiare, educare, frequentare solo chi mi piaceva.

 

Durante i giorni di Natale e Santo Stefano andavo a Pesaro dalle mie zie  e dalla nonna che erano le più anziane e sole tra le mie consanguinèe. Lo facevo per gratitudine dell’aiuto che mi davano e per la pietas erga popinquos. Il 23 dicembre invece, da quando vivevo a Bologna, facevo la visita del solstizio invernale alla vicepreside della scuola media dove avevo insegnato, Antonia Sommacal, che era diventata la più cara delle mie amiche. Fino al 2005 quando è morta sono andato a trovarla tutti gli anni due volte all’anno: per i solstizi. E’ una magnifica persona che mi ha aiutato e incoraggiato a essere come sono. Non è facile per chi è troppo diverso e strano.

Ricordo una frase tra le più belle che abbia sentito sul mio conto. Quando le dissi che per Natale andavo sempre dalle zie che erano sole e molto anziane, Antonia mi fece: “lei avrà fortuna Ghiselli, perché è una persona buona”. E’ il complimento più grad che abbia mai ricevuto e mi ha ripagato della malevolenza che non poche volte mi hanno manifestato i nemici e anche certi presunti amici.

A Carmignano del resto dopo il trasferimento a Bologna  tornavo volentieri quelle due volte ogni anno per rivedere i luoghi divenuti poetici dove venticinquenne avevo cominciato a insegnare, dove rimasi fino a quasi trentanni imparando a  fare la parte dell’uomo adulto, a cavarmela senza rinnegare né smentire la mia identità, a non seguire i luoghi comuni che nella profonda provincia veneta erano molto diffusi e quasi coattivi. Dopo la morte di Antonia ogni tanto vado ancora a Carmignano per raccogliere qualche fiore che vedo tra l’erba e metterlo sopra la sua tomba mandandole un bacio.

La  benevolenza di Antonia mi ha aiutato davvero ad avere la buona sorte che mi auspicò e previde quando ero giovane molto. Ci si dava del lei, stranamente.

Ora però le dico: che tu sia benedetta Antonia carissima, gunhv t  j ajrivsth tw'n uJf j hjlivw/ makrw'/"( Alcesti, v.-151), di gran lunga la migliore delle donne sotto il sole. Tu sei stata la mia migliore amica.

 Nessuna delle mie amanti mi ha aiutato con maggiore intelligenza, onestà e generosità.

Pesaro 16 settembre  2024 ore 16, 30 giovanni ghiselli

 

 Ifigenia XLVIII.  A Luciana

 

Tra le allieve della prima media tutte vivaci e carine, ce n’era una speciale.  La notai per la sua creattività nelle scrivere, per l’originalità e l’indipendenza delle sue osservazioni, per la vivacità con cui mi faceva delle domande e l’interesse mostrato nell’ascoltarmi. Insomma era una bambina dotata di autonomia mentale e caratteriale e mi assomigliava. Con il volgere delle stagioni saremmo diventati amici. L’ho invogliata a valorizzare la sua intelligenza e gli altri suoi talenti. Luciana a sua volta durante il triennio in cui l’ho aiutata a crescere mi ha fatto capire quanto di buono potessi dare agli allievi in termini di umanità.

A Carmignano di Brenta dove vissi cinque anni della mia gioventù ero apprendista del mio lavoro e di me stesso; allora presi coscienza di tante attitudini mie: prima di tutte quella del maestro  capace di suscitare energie mentali e morali nei giovani. Mi accorsi che con i ragazzi mi trovavo bene e pure loro con me: ci si educava a vicenda.

Carmignano di Brenta mi piace perché assomiglia ai mio venticinque anni quando ci arrivai spaesato dopo avere lasciato la mamma e le zie a Pesaro. Ero trasecolato come  Breus nella boscaglia.

 Le varie volte che  sono tornato a Carmignano dopo il trasferimento a Bologna ho ritrovato nel  paese, nel paesaggio, nel suo fiume, nei suoi profumi, le dolci malinconie, e anche le forti emozioni di allora, quando vivevo ogni evento nell’attesa di beni più grandi e quegli anni con quelle esperienze come preludio e presagio delle  cose egregie  che avrei dovuto compiere una volta tornato a Bologna. Ora che mi avvio agli ottanta e la vita trascorsa mi ha allontanato da quella condizione di giovanotto trapiantato e sbigottito ma vivo, curioso, animato da vaghe e grandi speranze. Quando  ricordo gli anni di Carmignano, ritrovo nell’aurea miniera del cuore i sentimenti di allora, la meraviglia  lo stupore e l’interesse davanti a  ogni persona nuova che mi induceva a osservarla,  interrogarla, capirla per ingrandire e migliorare la mia umanità.

Alcuni dei ragazzini miei allievi  di allora, oramai ultrasessantenni, mi ringraziano ancora per quanto di buono hanno ricevuto da me: voglio rispondere e voglio che sappiano che sento di avere avuto da loro non meno di quanto abbia dat.

 Ci siamo scambiati munera preziosi, funzionali alla crescita, ricchi di reciprocità.

 

Pesaro 16 settembre 2024 ore 15, 30 giovanni ghiselli 

 

Ifigenia XLIX  Ad  Antonia

 

Il 23 dicembre del ’78 dunque, siccome Luciana era a Venezia dove studiava architettura, andai a trovare soltanto Antonia.

Dopo le accoglienze oneste e liete, le dissi subito che amavo una collega giovane e bella assai. Una che irrobustiva la mia persona: l’intelligenza, la fantasia e pure il corpo.

Insomma Apollo, il dio della luce e della bellezza, che ero andato a pregare nell’Ellade perché mi facesse partecipe delle sue doti, mi aveva esaudito.

Durante quel viaggio ciclistico estivo avevo mandato diverse cartoline provocatorie all’amica cristiana professando la mia devozione  agli dèi della Grecia a partire da Febo, quello a me più congeniale.

Anche quando insegnavo a Carmignano volevo distinguermi dal credo religioso e politico di tanti colleghi di quella scuola diretta da un preside bigotto e refrattario agli spiriti nuovi dei quali mi ero entusiasmato durante l’ultimo anno passato a Bologna dando l’ esame residuo di glottologia e frequentando le assemblèe del movimento studentesco, partecipando ai cortei e facendo miei tanti slogan. Furono mesi quelli della primavera del ’68 in cui la gioventù delle Università di buona parte del modo ebbe fiducia in se stessa e nel proprio avvenire. Molti di quei giovani hanno abiurato. Io non sono un apostata e credo ancora in ciò che propugnavo allora: giustizia, uguaglianza e libertà. Comunismo aristocratico lo chiamo.

Sul tipo di quello platonico.

Quando arrivai a Carmignano la sera del 28 ottobre del 1969 il monte Grappa era già bianco di neve come il Soratte della famosa ode di Orazio.

Pensai che nemmeno la bicicletta dovevo tradire e in giugno pedalai su per i 30 chilometri abbondanti di quella salita.

Antonia aveva sempre cercato di redimermi dal mio libertinaggio dicendomi: “si ravveda, si penta, metta la testa a posto: si trovi una buona compagna e la sposi”

“Pentiti e cangia vita:

è l’ultimo momento”

 

“No, no, ch’io non mi pento”, rispondevo.

 

Questo era un nostro duetto non del tutto faceto né serio.

Quel pomeriggio del 23 dicembre però l’amica Antonia non voleva scherzare: era preoccupata del fatto che io fossi tanto innamorato di una donna sposata. Mi piaceva sentirle parlare il suo bel dialetto veneto, tra il padovano e il vicentino.

La pregai di farlo. Sicché cominciò: “mi conosso un vecioto” e si interruppe. Allora domandai: “sicché?” 

“El fa come éo” rispose, fa come lei

“Che cosa vuole dire Antonia?” insistetti fingendo di non capire,

Mi spiegò che questo uomo mezzo vecchio ci provava con tutte finché i mariti delle corteggiate, forse adultere, si coalizzarono, lo bastonarono e lo gettarono in un fosso. Non ne morì ma poco ci mancò.

Antonia dunque temeva che potessi fare la fine del seduttore professionista ucciso da Eufileto, il marito tradito e assassino difeso da Lisia per il delitto d’onore.

Le feci presente che il marito di Ifigenia nemmeno sapeva chi fossi  e  che comunque la mia ultima relazione era irreprensibile perché noi ci amavamo e rendevamo migliori a vicenda: Ifigenia mi ribattezzava nelle onde fresche della sua gioventù mentre io la impregnavo dello spirito mio coltivato e cosciente.

L’amica si rassicurò soltanto un anno più tardi quando portai Ifigenia a Carmignano per fargliela conoscere e l’amica giudicò l’amante bella con semplicità e intelligente. Dovevo sposarla. Nel frattempo aveva lasciato il marito.

Mentre di notte tornavo a Bologna sull’autostrada,  tonda era la luna.

La pregai chiamandola Selene, Artemide, Diana, Trivia, Helena, Ifigenia. Una sola forma di molti nomi.

Avevo le lacrime agli occhi perché mi sentivo di nuovo partecipe della vita di questo universo bello, ordinato da un Dio buono, demiurgo e artista.

Chiesi a quella bianca, rotonda, femminea creatura di conservarmi ancora per tanti dei suoi eterni giri celesti l’amore di Ifigenia e la facoltà di muovermi ancora in buona salute sulle  strade di questo capolavoro  che è il  mondo illuminato ora da lei, ora dal suo splendente fratello.

Ero felice come non ero più stato dopo le finniche e lo dovevo a Ifigenia.

 

Bologna 16 settembre  ore 16, 43 giovanni ghiselli

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Ifigenia XLVI. “Faccia il nostro grande attore, grande attrice ancora te!” (cfr. Don Giovanni, I, 8).

Nei primi tempi della relazione amorosa con Ifigenia, l’angoscioso pregiudizio della necessaria verginità della mia donna inculcatomi in famiglia, a scuola e in parrocchia aveva trovato un efficace contrasto nell’immenso piacere che la radiosa ragazza mi dava e nel pensiero razionale, nella constatazione che una femmina siffatta non era venuta con me per ripiego dopo essere stata scartata dal suo seduttore iniquo e libertino, bensì mi aveva preferito al marito con decisione propria.

 

In questo amore  furono piuttosto i difetti di educazione e sensibilità della ragazza a mettermi addosso le prime inquietudini gravose.

 

Faccio un paio di esempi

Una mattina di mezzo inverno, quando piccoli uccelli quasi assiderati spargevano flebili versi latori di auspici non buoni, mentre rattrappiti dal gelo pure noi, usciti nel buio tenace della strada  stavamo entrando nel solito bar dell’intervallo tra le ore di scuola, Ifigenia disse: “ verrà a recitare al Duse  il grande attore di cui ti ho parlato: voglio andare nel suo camerino per fargli delle proposte”.

“Quali?” domandai incuriosito e allarmato.

“Quelle lascive che ho avuto in mente di fargli fin da bambina quando lo vedevo in televisione e lo ammiravo, poi lo sognavo”.

Mi rabbuiai e dissi “Sicché ho sbagliato a lasciare le  altre amanti per stare solo con te ” .

Capì e si corresse: “volevo dire che gliele farei se non fossi legata con te”.

“Puoi scioglierti da me quando vuoi” dissi con il tono del disgusto non dissimulato.

La frase volgare e violenta oramai era stata scagliata come un dardo velenoso e mi aveva ferito. Il vulnus volgeva all’ulcus, la ferita alla piaga. Mi piegai su me stesso, offeso, senza dire parola. Poi cercai di mandare giù il rospo.

 

Pochi giorni dopo andammo al Duse a vedere quell’ attore nei panni di Otello. Sentivo la gelosia anche dentro di me. Leggendo la storia fino alla catastrofe finale vedrete che ne avevo di che.

Durante l’ intervallo Ifigenia si allontanò con un suo allievo bello assai. Probabilmente ingelosirmi era nelle sue intenzioni: per farmi soffrire e sottomettermi. Rimasto solo pensavo questo e provavo disgusto di nuovo.

“Meglio perderla che trovarla una così”, mi dissi. “Se va a fare le porcherie nel camerino dell’ ’istrione, magari esibendosi prima con il ragazzo davanti a quel vecchio per ringalluzzirlo e fornicare tosto con entrambi, sarà solo un bene: “Faccia il nostro grande attore grande attrice pure te”. Ero stralunato come Masetto[1].

I  mostri delle mie angosce avevano ripreso a tormentarmi.

Del resto c’ era un terzo elemento che mi portava a non sopportare i difetti delle persone che frequentavo. L’amore della solitudine e il distacco dagli altri erano già attitudini radicate nel mio carattere e nel mio vissuto, al punto che soltanto una donna giovane, bella e vivace come Ifigenia, educata, fine e formosa come Helena, colta, carina e spiritosa come Kaisa, studiosa e significativa come Päivi avrebbe potuto indurmi a una relazione priva di pensieri cattivi e dolorosi. L’amore delle tre finlandesi mi aveva insegnato  che non avevo bisogno di verginità né di ricchezza ma di una compagna non stupida, non volgare, non ignorante, non perfida.

Ma anche con queste tre ore al giorno mi bastavano e avanzavano.

Poi andavo a cercare gli amici e gradivo le passeggiate in solitudine osservando e riflettendo. Parlare era il mio lavoro e farlo dalla mattina alla sera mi stremava. Sebbene le donne mi piacciano molto, quando ne vedevo una giovane e bella mi chiedevo: “sì è una meraviglia venuta in terra a miracol mostrare, ma te la prenderesti in casa?”

“Giammai” mi rispondevo senza esitare. Mi avevano terrorizzato le consanguinee perentorie e imperiose.

Del resto Ifigenia era giovane molto e avrei dovuto indirizzarla a una maggiore delicatezza. In fondo mi aveva cercato anche per questo. Io la educavo solo scolasticamente ma lei aveva bisogno di educazione e sapienza umana oltre che di sapere libresco. Ne avevo bisogno anche io.

Finito l’intervallo, la professoressa e l’allievo tornarono ai loro posti.

Iniziò subito l’ultimo atto e non feci domande. Però sentivo già che molte cose non funzionavano in quel tempo. Stava  già iniziando il declino e sapevo per esperienza che nell’amore questo è irreversibile sempre.

 

Pesaro 16 settembre  2024 ore 16, 15

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[1] Cfr. Don Giovanni, Da Ponte, Mozart, I, 21

La peitharchìa greca, la disciplina romana, l'ordine di Leopardi, quello di Kundera. e il sadismo di Fromm. Un bel romanzo di Magda Szabó.


 

La disciplina quale madre di salvezza viene indicata al coro di fanciulle tebane da Eteocle, l'eroico difensore della città:"peiqarciva ga;r ejsti th'" eujpraxiva"-mhvthr" (Eschilo, Sette contro Tebe , 225) la disciplina infatti è madre del successo.

 

Nell’Antigone  di Sofocle, Creonte identificherà la salvezza con la disciplina:" Non c'è male più grande dell'anarchia./Essa manda in rovina le città, questa ribalta/le famiglie, questa nella battaglia spezza/  le schiere dell'esercito in fuga; invece le molte vite/di quelli che vincono, le salva la disciplina swv/zei ta; polla; swvmaq j hJ peiqarciva"/ Così bisogna difendere l'ordine (ou{tw~ ajmunte j   ejsti; toi'~ kosmoumevnoi~),  e in nessun modo lasciarsi superare da una donna./Infatti è meglio, se proprio bisogna, cadere per mano d'uomo/e non dovremmo mai lasciar dire che siamo inferiori alle donne".- (vv. 672- 679).

 

 L'idea che la disciplina salvi molte vite, soprattutto in guerra, si trova in Tito Livio il quale ne trova l’esempio più puro e duro in Tito Manlio Torquato, la disciplina in persona, potremmo dire. Questo console durante la guerra contro i Latini (340-338 a. C.) condannò a morte il figlio che aveva osato combattere disobbedendo a un suo ordine, di capo e di padre.

 Queste sono le parole dell’accusa:"tu, T. Manli, neque imperium consulare neque maiestatem patriam veritus, adversus edictum nostrum extra ordinem in hostem pugnasti, et, quantum in te fuit, disciplinam militarem, qua stetit ad hanc diem Romana res  solvisti " (Storie, 8, 7) tu, Tito Manlio, senza riguardo per il comando dei consoli e per l'autorità paterna, hai combattuto il nemico contro le nostre disposizioni, fuori dallo schieramento, e, per quanto è dipeso da te, hai dissolto la disciplina militare, sulla quale sino ad ora si è fondata la potenza romana.

G. De Sanctis commenta questa guerra notando che la forza vincente dei Romani era "la consuetudine di sfruttare nella lotta per l'esistenza tutte le forze fino al limite estremo senza alcuna compassione di sé"[1].

  Più avanti, durante la seconda guerra sannitica (326-304), il dittatore Lucio Papirio si trovò nella necessità di affrontare un fatto analogo: il maestro della cavalleria Fabio aveva attaccato e sconfitto i nemici contro un suo ordine, e, quando il caso fu portato a Roma, su richiesta del condannato appellatosi al popolo, Lucio Papirio disse: "polluta semel militari disciplina non miles centurionis, non centurio tribuni, non tribunus legati, non legatus consulis, non magister equitum dictatoris pareat imperio, nemo hominum, nemo deorum verecundiam habeat.."(8, 34), una volta corrotta la disciplina militare, il soldato non obbedirebbe all'autorità del centurione, il centurione a quella del tribuno, il tribuno al luogotenente, questo al console, il maestro di cavalleria agli ordini del dittatore, nessuno avrebbe più rispetto degli uomini, nessuno degli dei.

 Questa volta tuttavia fu trovata una scappatoia: il popolo e i tribuni della plebe chiesero la grazia supplicando, e il dittatore la concesse senza perciò assolvere il reo:"Non noxae eximitur Q. Fabius, qui contra edictum imperatoris pugnavit, sed noxae damnatus donatur populo Romano, donatur tribuniciae potestati precarium non iustum auxilium ferenti " (8, 35), non è sottratto alla colpa Quinto Fabio, che ha combattuto contro l'ordine del comandante, ma condannato per la colpa, deve il perdono alle preghiere del popolo romano, deve il perdono alla potestà tribunizia che gli porta un aiuto di preghiere, non di diritti.

La disciplina dura forma  caratteri forti: il re spartano Archidamo nelle Storie  di Tucidide sostiene  gli uomini, i quali non sono poi  tanto differenti tra loro, vengono distinti dalla severa disciplina che rende più forte chi è stato educato nelle massime difficoltà:"poluv te diafevrein ouj dei' nomivzein a[nqrwpon ajnqrwvpou, kravtiston de; ei\nai o{sti~ ejn toi'" ajnagkaiotavtoi" paideuvetai"(I, 84, 4). Concorda con questa affermazione del re spartano quanto scrive Nietzsche nell' Epistolario in data 14 aprile 1887:" Non c'è nulla infatti che irriti tanto le persone quanto il lasciare scorgere che noi seguiamo inesorabilmente una rigida disciplina di cui loro non si senton capaci"(p. 262).

 

La disciplina che rafforza dunque è positiva; negativa è quella che uccide o paralizza.

Troviamo un' interpretazione malevola dei fanatici dell'ordine nello Zibaldone  di Leopardi:" Sono moltissimi che amano, predicano, promuovono, ed esercitano esclusivamente la giustizia, l'onestà, l'ordine, l'osservanza delle leggi, la rettitudine, l'adempimento de' doveri verso chi che sia, l'equa dispensazione de' premi e delle pene, la fuga delle colpe; ma ciò non per virtù, né come virtù, non per finezza o grandezza o forza o compostezza d'animo, non per inclinazione, non per passione, ma per viltà e povertà di cuore, per infingardaggine, per inattività, per debolezza esteriore o interiore, perché non potendo (per debolezza) o non volendo (per pigrizia) o non osando (per codardia) né provvedersi né difendersi da se stessi, vogliono che la legge e la società vegli p. loro, e provvegga loro e li difenda senza loro fatica...." (3316). 

 

M. Kundera deride o biasima la mania dell'ordine che individua non tanto nei tiranni quanto nei loro sgherri:"I vecchi armati di lunghe pertiche si confondevano ai suoi occhi con i secondini del carcere, i giudici istruttori, i delatori che spiavano i vicini per scoprire se facevano discorsi politici quando andavano a fare la spesa. Che cosa spingeva quelle persone alla loro sinistra attività? La malvagità? Senz'altro, ma anche il desiderio di ordine. Giacché il desiderio di ordine vuol trasformare il mondo umano in un regno inorganico in cui tutto marcia, funziona, è assoggettato a una norma sovrindividuale. Il desiderio di ordine è al tempo stesso desiderio di morte, giacché la vita è una perpetua violazione dell'ordine. Oppure, con una formula opposta: il desiderio di ordine è il pretesto virtuoso con cui l'odio per gli uomini giustifica i propri misfatti"[2].

 

Questa mania dell'ordine e del controllo secondo Fromm è tipica del carattere sadico:"io propongo la tesi che il nucleo del sadismo, comune a tutte le sue manifestazioni, sia la passione di esercitare un controllo assoluto e illimitato su un essere vivente, sia esso animale o bambino, uomo o donna"[3]. Il tiranno in effetti è un sadico:"Per il sadico esiste una sola qualità degna di ammirazione: il potere. Egli ammira, ama coloro che detengono il potere, gli si sottomette, disprezzando e desiderando di controllare gli inermi, coloro che non possono restituire il colpo"[4].

 

C’è un bel romanzo ungherese, La ballata di Iza[5], di Magda Szabó  che racconta la storia di una donna, primaria di ospedale, la quale si costruisce una vita di successo professionale attraverso una disciplina ferrea che però le costa la distruzione della vita affettiva. Il  marito la rivede dopo anni dal divorzio e pensa: “Quando mi resi conto che eri semplicemente un’egoista, e che di te stessa offrivi agli altri solo il poco che non intralciava il tuo lavoro, scoppiai a piangere…Sapevo che dovevo andarmene via da te prima che mi contagiasse la terribile disciplina con la quale tuteli te stessa e la pace del tuo lavoro…Non ho mai conosciuto un essere più avaro di te, anche se sembri generosa, e non ho mai conosciuto nessuno più vile di te” (pp. 299-300).

 

Pesaro 16 settembre 2024 ore 11, 40 giovanni ghiselli


 

 



[1]Storia Dei Romani , vol II, p. 261.

[2]M. Kundera, Il valzer degli addii ,  p. 104.

[3]Anatomia della distruttività umana , p. 363.

[4]E. Fromm, Anatomia della distruttività umana , p. 366.

[5] Del 1963.

Ifigenia L e LI

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