I
Premessa
Si
presenta come Mattia Pascal che fu per due anni non sa se più
cacciatore di topi che guardiano di libri in biblioteca.
II
Premessa seconda (filosofica) a mo’ di scusa.
da
bibliotecario della biblioteca di Miragno Mattia Pascal ripeteva il
ritornello: “Maledetto sia Copernico!” E spiega questa sua
maledizione paradossale a Don Eligio, il prete amico che gli chiedeva
cosa ci entrasse Copernico
“C’entra,
don Eligio. Perché quando la terra non girava.. .
-
E dàlli! Ma se ha sempre girato!
-
Non è vero. L’uomo non lo sapeva, e dunque era come se non
girasse. Per tanti, anche adesso, non gira. L’ho detto l’altro
giorno a un vecchio contadino, e sapete come m’ha risposto? Ch’era
una buona scusa per gli ubriachi (…) io dico che quando la terra
non girava, e l’uomo, vestito da greco o da romano, vi faceva così
bella figura e così altamente sentiva di sé e tanto si compiaceva
della propria dignità, credo bene che potesse riuscire accetta una
narrazione minuta e piena d’oziosi particolari. Si legge o non si
legge in Quintiliano, come voi m’avete insegnato, che la
storia doveva essere fatta per raccontare e non per provare?
Historia
quoque alere oratorem quodam uberi, iucundoque suco
potest, può nutrire l’oratore con un certo succo ricco e
piacevole, tuttavia bisogna evitare la maggior parte delle sue
virtù. Est enim proxima poetis et quodammŏdo carmen
solutum, una poesia senza versi, e viene scritta per narrare non
per dimostrare et scribitur ad narrandum non ad
probandum (Institutio oratoria, X, I, 31)
Siamo
o non siamo su un’invisibile trottolina, cui fa da sferza un fil di
sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira, senza
saper perché, senza pervenire mai a destino, come se ci provasse
gusto a girar così, per farci sentire ora un po’ più caldo, ora
un po’ più freddo, e per farci morire - spesso con la coscienza di
aver commesso una sequela di piccole sciocchezze - dopo cinquanta o
sessanta giri? Copernico, Copernico, don Eligio mio, ha rovinato
l’umanità irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a
poco adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra
piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo, con
tutte le nostre belle scoperte e invenzioni (….) Storie di vermucci
ormai le nostre” (Il fu Mattia Pascal, p. 13 e p. 14)
III
La casa e la talpa
Mattia
non conobbe il padre che morì quando il figlio aveva 4 anni. Aveva
un fratello, Roberto, maggiore di 2 anni. Il padre li lasciò
nell’agiatezza. Possedevamo terre e case. Morto il padre, la madre,
inetta al governo dell’eredità, lo affidò a uno che aveva avuto
molti benefici dal marito. Mattia aveva una zia zitellona bisbetica
bruna e fiera, sorella del padre. Si chiamava Scolastica.
L’amministratore Malagna - la talpa - rubava e “ci scavava di
soppiatto la fossa sotto i piedi” (19). La zia voleva che la
cognata si risposasse con Gerolamo Pomino che aveva un figlio con lo
stesso nome. I due giovani Pascal - Mattia e Roberto - vivevano da
scioperati. Studiavano in casa con un aio, Pinzone, uomo di una
magrezza che incuteva ribrezzo. Assecondava i ragazzi che gli
facevano dispetti. Insegnava la sua erudizione curiosa, bislacca e
bizzarra, come, per esempio, la poesia maccaronica e la
burchiellesca.
Insegnava
a sciogliere gli enimmi in ottava rima di Giulio Cesare Croce.
La
zia Scolastica li sgridava: una volta afferrò Mattia per il mento,
gli disse Bellino! Bellino! Poi lo fissò negli occhi, finché emise
una specie di grugnito e lo lasciò, ruggendo tra i denti: “Muso di
cane!” 24
A
Mattia avevano messo degli occhiali per raddrizzargli un occhio, ma
presto li buttò via “Tanto, se diritto, quest’occhio non mi
avrebbe fatto bello. A 18 anni un barbone rossastro e ricciuto gli
invase la faccia a scapito del naso piccolo. Purtroppo non si può
fare a cambio di nasi e Mattia si era rassegnato alle sue fattezze,
senza curarsene troppo. Berto invece era bello, narcisista molto
curato e ben vestito. Batta Malagna intanto rubava. Berto fece un
matrimonio vantaggioso. Non così Mattia
IV
Fu così
Batta
Malagna era brutto assai: basso e grasso. Gli morì la moglie
Guendalina senza avergli dato dei figlioli
Si
prese come seconda moglie Oliva, la figlia di un fattore di campagna
sana, florida, robusta e allegra. Voleva dei figli
Mattia
la conosceva fin da ragazza e gli piaceva. Come rideva! Due ciriege
(sic!) le labbra 32. Oliva sposò Malagna perché era ricco. Figli
però non ne venivano e Malagna la sgridava, poi la picchiava: con
quella apparente floridezza lei lo aveva ingannato e aveva preso il
posto di una signora. Oliva aveva 22 anni e andava a sfogarsi dalla
madre di Mattia.
Mattia
conosce anche Romilda figlia della vedova Pescatore e rimane
impressionato dagli occhi 37
Di
uno strano colore verde, cupi, intensi, ombreggiati da lunghissime
ciglia, occhi notturni tra due bande di capelli neri come l’ebano,
quasi a far meglio risaltare la viva bianchezza della pelle
La
prima elegia dei quattro libri del "romano Callimaco" si
apre nel nome e con gli occhi di Cinzia: "Cynthia prima suis
miserum me cepit ocellis " (I, 1, 1), Cinzia per prima
ha preso me infelice con i suoi occhi
Gli
occhi, ribadisce poi Properzio, per chi ancora non l'avesse capito,
sono i comandanti nella guerra amorosa:"si nescis, oculi sunt
in amore duces " (II, 15, 12).
Il
marito della vedova Pescatore era morto pazzo a Torino. Romilda
piaceva anche a Pomino iunior. Mattia dice a Pomino che devono
salvarla da Malagna. Poi aggiunge che egli era nato marito, come si
nasce poeta.
Cfr. L’eterno
marito di
Dostoevkij: “ Egli non può non essere cornuto, così come il
sole non può non risplendere "[1].
All’epoca
le donne amavano Mattia nonostante il suo occhio sbalestrato, poiché
prendeva tutto alla leggera. Voleva anche sfondare la trista ragna
ordita da quel laido vecchio di Malagna.
Romilda
si innamorò di Mattia e pure lui di lei. La ragazza gli buttò le
braccia al collo e lo pregò di liberarlo da quella sua madraccia,
Marianna Dondi. Poi però gli scrisse che era tutto finito.
Finisce
che comunque Mattia sposa Romilda incinta di lui. Ma prima aveva
messo incinta Oliva che tuttavia Malagna decide di allevare come
figlio proprio.
Malagna
intanto aveva rubato ogni cosa e Mattia dovette cercarsi
un’occupazione. Però era inetto a tutto e malfamato come
scioperato.
La
vedova Pescatore maltrattava la santa vecchietta la madre di Mattia.
Il figlio cercava di proteggerla ma questo irritava la strega e pure
la moglie. Berto, il fratello, non poteva prendere in casa la madre
poiché lui viveva sulla dote della moglie. Il fratello era bello ed
elegante ma non aveva cuore.
La
vedova Pescatore era una bufera di femmina (p. 51)
Nel
vedere il genero girare per la casa come una mosca senza testa, gli
lanciava occhiatacce, lampi forieri di tempesta. Lui usciva per
levare la corrente e impedire la scarica. Ci fu una cagnara. La
Pescatore intimò a Mattia e alla madre di lui fuori da casa mia!
Mattia
reagì poi venne la zia Scolastica: il naso adunco, fiero, nella
faccia bruna, isterica, le fremeva, le si arricciava e gli occhi le
sfavillavano p. 53.
Segue
una rissa tra le due donne, poi Scolastica porta via la cognata
La
Pescatore graffia Mattia, quindi si butta a terra strappandosi
le vesti e Mattia grida: “Le gambe, le gambe, non mi mostrate le
gambe, per carità”
Da
allora ho preso il gusto di ridere di tutte le mie sciagure. Mi vidi
allora attore di una tragedia che più buffa non si sarebbe potuta
immaginare.
Era
pieno di graffi ma gli piaceva l’occhio che nel riflesso dello
specchio guardava altrove. Analisi di sé e autoironia cfr. Svevo.
Esce
per cercare un lavoro. Incontra Pomino e lo avvicina. Ero ancora
ebbro di quella gaiezza mala che si era impadronita di me quando mi
ero guardato allo specchio. Gli indicò i graffi e gli disse che a
lui era andata bene. Pomino disse che si annoiava. E Mattia:
“ammogliati, caro. Vedrai come si sta allegri! (p. 57). Pomino
disse “mai!”
Bravo
Pomino persevera!
Cfr. Guerra
e pace Bolkonskij a Pierre.
Contro
il matrimonio quale esperienza inconciliabile con ogni grandezza si
esprime il principe Andrej di Guerra
e pace
che dice all'amico Pierre:" Non ti venga mai in mente di
sposarti, mio caro; questo è il mio consiglio, non prender moglie
finché non avrai potuto dire a te stesso che hai fatto tutto il
possibile per evitarlo, finché non avrai smesso di amare la donna
che hai scelto, finché non la vedrai come in trasparenza, altrimenti
sbaglierai crudelmente e senza rimedio. Sposati da vecchio quando non
sarai buono a nulla...Altrimenti andrà perduto tutto ciò che in te
è buono ed elevato. Tutto si disperderà in piccolezze"[2] .
Il
timore del rischio di perdere una possibilità di vita, se non
eroica, certo meno insignificante di quella del marito borghese viene
manifestato anche da Kafka nella Lettera al
padre :"Perché, dunque, non mi sono sposato?
L'impedimento essenziale, purtroppo indipendente da ogni singolo
caso, era che io, non v'è dubbio, sono spiritualmente incapace
di sposarmi”
Mattia
gli espose le difficoltà e Pomino gli offrì dei soldi, da amico.
Mattia
però voleva un lavoro. Il padre di Pomino era assessore comunale per
la pubblica istruzione. Insomma attraverso conoscenze Mattia divenne
bibliotecario per sessanta lire al mese. Più ricco della vedova
Pescatore. Poteva cantare vittoria. Il bibliotecario di prima, un
uomo decrepito continuava a recarsi in biblioteca. Morì pochi mesi
dopo. La biblioteca era in uno stato pietoso: dagli scaffali
precipitavano libri seguiti da certi topi grossi come conigli. Mattia
scrisse all’assessore Pomino che la biblioteca necessitava di un
paio di gatti per lo meno. Si sarebbero nutriti con il provento della
caccia e non sarebbero costati nulla. Chiese anche delle trappole con
esca, evitando la parola volgare cacio.
Mandarono
due gattini che avevano paura dei topi e finivano imprigionati nelle
trappole per nutrirsi con il cacio. Mattia reclamò e mandarono due
gattoni lesti e seri che facevano il loro dover
L’
anima acerba di Mattia maturava a furia di ammaccature 62. Piomba in
un’orribile desolazione, la noia lo aveva tarlato dentro.
Leggeva
libri di filosofia che gli sconcertavano ancora di più il cervello
già balzano. Andava sulla riva del mare, ascoltava il fragorio delle
onde e mormorava: “Così sempre fino alla morte, senza alcun
mutamento, mai” (63). Osservava le stracche onde sonnolente del
mare.
Cfr. Senilità di
Svevo. Emilio giunse alla riva. Si sentiva il clamore del mare:
un urlo enorme composto dall’unione di varie voci più piccole”
(226) Si vedeva biancheggiare qualche onda che il caos aveva voluta
infranta prima di giungere a terra. Quel tramestio si confaceva al
suo dolore.
L’abito
letterario gli faceva paragonare quello spettacolo alla propria vita.
Nel movimento delle onde che tratto dall’inerzia e trasmesso per
inerzia “egli vedeva l’impassibilità del proprio destino. Non
v’era colpa, per quanto ci fosse tanto danno” (p. 226)
Alcuni
marinai erano indaffarati per salvare le barche
“Emilio
pensò che la sua sventura era formata dall’inerzia del proprio
destino “ (p. 226). Non aveva mai avuto occasione, nessuno
gliel’aveva data di determinare nemmeno il destino di un piccolo
bragozzo ( una barca da pesca con due alberi e vele colorate).
Mattia
gridava con rabbia scotendo le pugna
La
moglie aveva le doglie, gli riferirono. Scappai come un daino
La
suocera lo manda a cercare un medico che arriva però prima che lui
ne abbia trovato uno. Nascono due misere bambine che si graffiavano
tra loro come i gattini finiti nelle trappole. Una delle bambine morì
pochi giorni dopo, l’altra volle avere la crudeltà di morirmi
quando aveva già quasi un anno e si era fatta tanto bellina e mi
chiamava papà, e io figlia mia, così senza ragione come si chiamano
gli uccelli tra loro. Era diventata l’unico scopo della mia vita 65
La
seconda bambina morì contemporaneamente alla mamma di Mattia.
Dopo
questi lutti l’orfano vagò per un’intera notte finché si
ritrovò nel podere della Stia presso alla gora del molino
Il
fratello gli mandò 500 lire per la sepoltura della loro mamma
Ma
ci aveva già pensato la zia. Quei soldi furono la cagione della
prima morte di Mattia
V Tac Tac Tac… 66
Era
andato a Montecarlo dopo una scenata domestica con moglie e suocera
Era
fuggito dallo squallore e dalla desolazione senza speranza di
miglioramento. Pensava di andare a Marsiglia per poi imbarcarsi per
l’America. Niente di peggio che rimanere a casa poteva capitargli.
Altre catene magari, ma non più gravi. Ma giunto a Nizza non se
l’era sentita: “troppo ormai la noia mi aveva tarlato dentro, e
svigorito il cordoglio” (68)
Gli
infelici spesso diventano superstiziosi.
Lesse
il titolo di un opuscolo: metodo per vincere alla roulette. Gli
sembrò un segno.
Cfr.
i segni vocali e gli altri: i tuoni dell’ Edipo a Colono e
di La montagna incantata.
Decise
di andare a Montecarlo. Aveva sentito dire che intorno alla bisca
c’erano degli alberi: si sarebbe potuto impiccare con la cintola
dei calzoni, male che andasse. Avrebbero pensato che aveva perduto
molto e avrebbe fatto una bella figura. L’ingresso aveva otto
colonne di marmo, come se avessero voluto innalzare un tempio alla
Fortuna
giugnol
Quelli
che giocano contano le probabilità: vogliono estrarre la logica dal
caso, come dire il sangue dalle pietre. 70
C’era
un omone innamorato del 12. Uscì quando aveva già perduto quasi
tutto
A
Mattia vennero in mente 4 versi del povero Pinzone
Ero
già stanco di stare alla bada
Della
Fortuna. La dea capricciosa
Dovea
pure passar per la mia strada
E
passò finalmente ma tignosa per l’omone
Mattia
invece comincia a vincere. Un tedesco però gli portò via il denaro
raccolto. Poi cambia tavolo e vince ancora. Continua a giocare per
sfidare la sorte. Legava il suo capriccio a quello della Fortuna. Il
suo gioco era rischiosiisimo: si ostinava a puntare sul rosso che
usciva sempre, poi sullo zero e sortiva lo zero
Uno
spagnoletto barbuto lo seguì mentre usciva e salì con lui nel treno
per Nizza, poi volle che cenassero insieme e salì nello stesso
albergo. A Mattia questo non dispiaceva
La
vanità umana non ricusa talvolta l’incenso acre e pestifero di
certi meschini turiboli. Ma poi quella compagnia gli viene a noia.
Quindi lo molla. Aveva vinto 11 mila lire. Pensa a casa sua: alla
moglie che non si curava di piacergli, ai disgusti, agli attriti.
Il
bisogno che si accovaccia sulla cenere di un focolare spento come un
gattaccio ispido e nero, avevano ormai reso odiosa a entrambi la
convivenza. Doveva mostrasi degno dei favori della fortuna, se come
sembrava, voleva davvero accordarglieli. O tutto o niente. Giocando
alla disperata mise insieme una somma enorme, ma dopo il nono giorno
cominciò a perdere 85
Smise
quando vide un giovane che si era sparato. Tornò a Nizza. Gli
rimanevano 82 mila lire.
VII
cambio treno 87
Pensa
di tornare a casa per riscattare la Stia e fare il mugnaio in
campagna. Si sta meglio vicino alla terra e sotto - forse, anche
meglio
Mentre
torna a casa pensa con orrore alla suocera e pure alla moglie: “forse
a qualche albero cadranno le foglie, vedendola; gli uccelletti
ammutoliranno; speriamo che non secchi la sorgiva.” Ci sarà di
nuovo qualcuno che ruberà e io rimarrò bibliotecario. Pensa ai suoi
debiti. Arrivato in Italia legge un giornale e trova la notizia della
sua morte.
Suicidio
92
Ieri,
sabato 28, è stato rinvenuto nella gora d’un mulino un cadavere in
stato di avanzata putrefazione. Il molino è sito in un podere detto
della Stia, a circa due chilometri dalla nostra città). Il cadavere
è stato riconosciuto per quello del nostro bibliotecario Mattia
Pascal scomparso da parecchi giorni. Causa del suicidio dissesti
finanziari.
Ebbe
una reazione di rivolta. Gli sembrò una sopraffazione schiacciante.
Lo disturbava il treno con quel suo andare monotono, da automa duro,
sordo e grave 93 Pensava che l’avrà pescato e riconosciuto subito
la vedova Pescatore. Si sarà messa a piangere e sarà caduta in
ginocchio davanti a quel morto che non ha potuto tirarle un calcio e
dirle: “ma levati di qua, non ti conosco!”
Era
dato morto e si sentiva libero da debiti, moglie e suocera.
Si
sentiva del resto sperduto, superstite di se stesso, in attesa di
vivere oltre la morte. Doveva intanto darsi un nome. Compra Il
Foglietto di Miragno e trova la cronaca con l’elogio
funebre: la sua natural modestia, e il compatimento per la sua
decadenza. L’autore era il direttore del giornaluccio: Lodoletta.
VIII
Adriano Meis p. 103
Si
sentiva libero dal fardello del suo passato
Gli
sembra che gli siano spuntate le ali. Sentiva di essere leggero e
voleva acquistare un nuovo sentimento della vita, poteva essere
l’artefice del suo nuovo destino. Aveva un occhio in estasi da un
lato.
Ascolta
due giovani che parlano in treno. Uno diceva che Cirillo
d’Alessandria era giunto ad affermare che Cristo era il più brutto
degli uomini. Sente prima il nome Adriano poi De Meis e decide di
chiamarsi Adriano Meis
Va
in un cesso di stazione a intombare l’anellino di fede. Era un uomo
inventato. Viaggia sentendosi felice. Era solo e non doveva rendere
conto a nessuno.
Svevo,
nel racconto Corto
viaggio sentimentale ,
rappresenta un uomo anziano, il signor Aghios, che pensa alla libertà
negata dal matrimonio:"Venticinque anni prima il signor Aghios
s'era scelta la consorte. Quale gioia quando, vincendo ogni
difficoltà, egli era arrivato a dirla sua, trovando naturale che, in
compenso, egli appartenesse a lei. Egli era stato felicissimo. Oh!
tanto! Nella grande libertà del viaggio egli tuttavia pensò che se
venticinque anni prima, invece che sentire il bisogno di sposarsi,
egli avesse sentito l'istinto del malfattore e l'avesse soddisfatto
con un omicidio, certo a quest'ora, a forza di amnistie, egli sarebbe
stato del tutto libero, magari di viaggiare"[3].
Ricordo
pure C. Pavese il quale nega ogni possibilità di benessere nello
stare con la donna:"E' carino e consolante il pensiero che
neanche l'ammogliato ha risolto la sua vita sessuale. Lui credeva di
godersela ormai virtuoso e in pace, e succede che dopo un po' viene
il disgusto della donna, viene un sòffoco come di prostituzione
soltanto a vederla. Ci si accorge allora che con la donna si sta male
in ogni modo"[4].
E ancora:"Ogni sera, finito l'ufficio, finita l'osteria, andate
le compagnie - torna la feroce gioia, il refrigerio di esser solo. E'
l'unico vero bene quotidiano"[5].
Dopo
un vario viaggiare in germania comincia a sentire il bisogno di un
po’ di compagnia. Si ferma per un po’ a Milano
L’inverno
a Milano gli ispirava riflessioni malinconiche. Si sente forestiere
della vita. In trattoria conosce il cavaliere Tito Lenzi che aveva le
gambe molto corte e camminava con passettini da pernice. Parlando
menzionava malevolmente Cicerone:"io odio la retorica, vecchia
bugiarda fanfarona, civetta con gli occhiali…Cicerone però,
diciamo la verità, eloquenza, eloquenza, ma…Dio ne scampi e
liberi, caro signore! Nojoso più d'un principiante di violino!"
(p. 125)
La
libertà sconfinata poi gli viene a noia: la vita considerata da
spettatore estraneo gli pareva senza costrutto.
Si
domandava perché gli uomini rendono così complicato il congegno
delle loro vite. E che farà l’uomo quando le macchine faranno
tutto? La scienza impoverisce l’umanità (131).
Quindi
va a Roma per prendervi dimora. Gli piaceva e gli sembrava adatta a
ospitare un forestiero come lui tra tanti forestieri. Trova casa in
via Ripetta, in vista del fiume. Suona e lo accoglie la figlia di
Paleari, Adriana una signorinetta piccola piccola, bionda, pallida,
dagli occhi ceruli, dolci e mesti, come tutto il volto. La camera
ammobiliata era bella: aperto l’uscio mi sentii allargare il petto,
all’aria, alla luce che entravano per due ampie finestre
prospicienti il fiume. Si vedeva Monte Mario, ponte Margherita, il
nuovo quartiere dei Prati fino a Castel Sant’Angelo e fino al
Gianicolo
Grazie
a questa spaziosa veduta presi in affitto la camera addobbata
peraltro con graziosa semplicità p. 135
Il
vecchio Paleari aveva il cervello di spuma. Era iscritto alla scuola
teosofica. Era sprofondato nelle sue nuvolose meditazioni da quando
lo avevano messo in pensione. Un’altra inquilina era la signorina
Silvia Caporale con una faccia volgarmente brutta, da maschera
carnevalesca. Gli occhi sembravano avere dietro dei contrappesi di
piombo, come quelli delle bambole automatiche. 40 anni, un bel paio
di baffi sotto il naso a pallottola sempre acceso. Era arrabbiata
d’amore. Si sapeva brutta, ormai vecchia e, per disperazione
beveva. La sera versava il vino dagli occhi in tante lacrime ma la
mattina seguente compariva tutta infronzolata e con certe mossette da
scimmia 138 - 139.
Le
poche lire che guadagnava facendo la maestra di pianoforte le
spendeva per bere o per infronzolarsi. Paleari leggeva libri con una
filosofia così sentimentalmente macabra che pareva il sogno di un
becchino morfinomane
Diceva:
“il male della scienza, guardi, signor Meis, è tutto qui: che
vuole occuparsi della vita soltanto” 146.
Si
tratta più di tecnica (tevcnh) che di scienza (ejpisthvmh),
di sofovn più che
di sofiva. Cfr.
Euripide, Baccanti: to;
sofo;n d jjj ouj sofiva" il sapere non è sapienza
(v. 395)
“La
tecnica, infatti, non tende a uno scopo, non promuove un senso, non
apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la
tecnica funziona.
E siccome il suo funzionamento diventa planetario, finiscono sullo
sfondo, incerti nei loro contorni corrosi dal nichilismo, i concetti
di individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso scopo, ma
anche quelli di natura, etica, politica, religione, storia di cui si
era nutrita l’età pre - tecnologica, e che ora, nell’età della
tecnica, dovranno essere riconsiderati, dismessi, o rifondati dalle
radici”[7].
Cfr.
Prometeo
Prometeo
sopporta di sapere il suo destino senza venirne schiacciato, ma sa
che gli uomini non sarebbero capaci di reggere una simile tensione
(v. 514): “ tevcnh d j ajnavgkh"
ajsqenestevra makrw'/ ”,
la conoscenza pratica è molto più debole della necessità.
Cfr.
a questo proposito Curzio Rufo: “Ceterum,
efficacior omni arte, necessitas non
usitata modo praesidia, sed quaedam etiam nova adnovit”( Historiae
Alexandri Magni, IV,
3, 24), del resto la necessità più potente di ogni tecnica,
suggerì loro non solo i soliti mezzi di difesa ma anche dei nuovi.
Sono i Tirii che si difendono dall’assedio di Alessandro Magno nel
332 a. C.
Avanzando
nella Sogdiana Al. si trovò in difficoltà per il freddo e incendiò
un bosco: “efficacior in adversis necessitas quam ratio,
frigoris remedium invenit” (8, 4, 11). Ancora la necessità che
prevale sulla ratio (cfr. 7, 7, 10: necessitas
ante rationem est).
Paleari
sosteneva che Roma è una città triste, nessuna impresa vi riesce,
nessuna idea viva vi attecchisce. Chi se ne meraviglia non vuole
riconoscere che Roma è morta. I papi ne avevano fatto - a modo loro
- un’acquasantiera; noi italiani ne abbiamo fatto un portacenere.
D’ogni paese siamo venuti a scuotervi la cenere del nostro sigaro
(p. 148).
Una
sera Adriano incontra un ubriaco che gli grida: “allegro!”
Adriano
esplode in una folle risata poi dice o pensa che la causa della sua
tristezza è la democrazia, cioè il governo della maggioranza:
“quando i molti governano pensano solo a contentare se stessi, e si
ha allora la tirannia più balorda e odiosa, la tirannia mascherata
da libertà (p. 152).
Cfr. I
cavalieri di Aristofane e Tucidide
I
Cavalieri del coro fanno notare a Demo che ha un grande potere gli
uomini lo temono al pari di un tiranno “pante"
a[nqrwpoi dedivasiv s j w{sper a[ndra tuvrannon”
( Cavalieri,
1113 - 1115).
Cfr. Tucidide
III, 37, 2. Cleone dice: “voi non considerate che avete un potere
che è una tirannide esercitata su sudditi ostili che subiscono di
malavoglia il nostro potere.
Nell’ultimo
discorso di Pericle lo stratego dice agli Ateniesi che non
possono più tirarsi indietro dal comando:
wJ" turannivda ga;r h[dh e[cete aujth;n (ajrchv supra)
h}n labei'n me;n a[dikon dokei' ei\nai, afei'nai de;
ejpikivndunon (Tucidide,
II, 63, 2), poiché avete già un impero che è tirannide che avere
preso può sembrare ingiusto, ma abbandonarlo pericoloso
I
nemici Corinzi nell’assemblea
peloponnesiaca del 432 avevano detto che era vergognoso per il
Peloponneso lasciare che una città divenisse tiranna della Grecia
(Tuc I, 122, 3) Poco più avanti (Tuc I, 124, 3) i corinzi concludono
il loro discorso sostenendo che gli alleati peloponnesiaci devono
domare la povlin tuvrannon
che è una minaccia per
tutti. in quanto alcuni Greci li ha già sottomessi e con molti altri
vuole farlo.
Un
nemico del popolo di Ibsen (1882).
il
protagonista del dramma il dottor Stockmann, dice:"La
maggioranza non ha mai ragione. Mai, ho detto. Da chi è costituita
la maggioranza degli abitanti di un paese? Dalle persone
intelligenti, o dagli imbecilli? Saremo tutti d'accordo, credo,
nell'affermare che sulla faccia della terra gli imbecilli
costituiscono l'enorme maggioranza. Ma non per questo è giusto che
gli imbecilli debbano comandare sugli intelligenti!...La maggioranza
ha il potere, purtroppo, ma non ha ragione. Io, e pochi altri,
abbiamo ragione. Le minoranze hanno ragione...Tutte le verità
maggioritarie possono venir paragonate alle conserve dell'anno
scorso, a dei prosciutti rancidi[8]".
"Un
partito, qualsiasi partito è come una di quelle macchine che tengono
i macellai per macinare la carne: schiaccia e trita e fa polpette di
tutte le teste, le pesta e le sminuzza in un'unica pappa, e trasforma
tutti in pecoroni e zucche vuote…i programmi dei partiti, di tutti
i partiti, soffocano ogni verità, le verità pulsanti di vita e di
giovinezza"[9].
CONTINUA
---------------------------
[3]In
Italo Svevo, I Racconti, Rizzoli, Milano, 1988, p.438.
[6] Leopardi
nello Zibaldone
è molto critico verso la scoperta del fuoco:"Il fuoco è una
di quelle materie, di quegli agenti terribili, come l'elettricità,
che la natura sembra avere studiosamente seppellito e appartato, e
rimosso dalla vista e da' sensi e dalla vita degli animali, e dalla
superficie del globo." (p. 3645). Il
fuoco non è un bene, o, per lo meno, non è stato impiegato bene :
nell’Operetta morale La scommessa di Prometeo gli
uomini usano il fuoco per uccidersi e uccidere, e Momo, il vincitore
della scommessa, domanda al Titano: “Avresti tu pensato, quando
rubavi con tuo grandissimo pericolo il fuoco dal cielo per
comunicarlo agli uomini, che questi se ne prevarrebbero, quali per
cuocersi l’un l’altro nelle pignatte, quali per abbruciarsi
spontaneamente?”. Leopardi,
con il fuoco, critica anche la navigazione avvalendosi di
Orazio:"Orazio (I, Od . 3) considera
l'invenzione e l'uso del fuoco come cosa tanto ardita, e come un
ardire tanto contro natura, quanto lo è la navigazione, e
l'invenzion d'essa; e come origine, principio e cagione di
altrettanti mali e morbi ec., di quanto la navigazione; e come
altrettanto colpevole della corruzione e snaturamento e
indebolimento ec. della specie umana.(Zibaldone , p.
3646).
[7] U.
Galimberti, L’ospite
inquietante. Il nichilismo e i giovani,
p. 21. Si veda a questo proposito U. Galimberti, Psiche
e techne. L’uomo nell’età della tecnica,
Feltrinelli, Milano, 1999.
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