giovedì 23 maggio 2019

Esodo dell'"Elena" di Euripide

Dante Gabriel Rossetti, Elena di Troia
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Esodo della tragedia Elena di Euripide. La presento, con le Troiane dello stesso autore,  il 24 maggio dalle 17,30, nel salone Paolo VI della chiesa San Salvatore di Siracusa


Esodo vv. 1512 - 1692
L’Esodo inizia con un messo che annuncia a Teoclìmeno la fuga di Elena: il re d’Egitto deve cercarsi un’altra moglie:  J Elevnh ga;r bevbhk j e[xw cqonov~ (v. 1515). Con lei c’era Menelao. Quindi l’ a[ggelo"  racconta la fuga.
Elena andava verso il mare camminando languida e piangeva (aJbro;n povda tiqei`s J, ajnevstene, v. 1528) accompagnata dal marito, Menelao,  tutt’altro che morto. Arrivarono poi altri naufraghi greci eujedei`~ mevn, aujcmhroi; d j‘oJra`n (v. 1540), di bell’aspetto ma sporchi a vedersi. Menelao li invitò a salire sulla nave e gli Egiziani si insospettirono: C’era una pletora di uomini a bordo. Imbarcarono anche un toro, riluttante, poi un cavallo. Menelao prese in mano la spada per il sacrificio ma chiese a Poseidone di farli sbarcare a Nauplia, la città costiera dell’Argolide, sotto Epidauro. Quindi, caduta del tutto la maschera, lo Spartano invitò i suoi a massacrare gli Egiziani. Anche Elena li incitava: Pou` to; Trwiko;n klevo~ ; (1603), dov’è la gloria di Troia? gridava la bellissima. I marinai di Teoclimeno quindi vengono massacrati, il messo che racconta è riuscito a fuggire. L’uomo conclude la sua rJh`si~ dicendo che non c’è niente di più utile per i mortali di una saggia diffidenza (swvfrono~  d j ajpostiva~ - oujk e[stin oujde;n crhsimwvteron brotoi`~ (1617 - 1618).
Teoclimeno riconosce di essere stato raggirato da una donna. Le nozze gli sono sfuggite ejkpefeuvgasin gavmoi me (1621).

La carenza di nozze del resto, secondo Euripide è più spesso un bene che un male.
Contro le nozze Euripide si esprime già nell' Alcesti [1] dove pure la protagonista è un'ottima sposa, anzi il corifèo la definisce "gunhv t j ajrivsth tw'n ujf j hJlivw/ makrw'/ " (v. 151),  di gran lunga la più nobile tra le donne che vivono sotto il sole. Tuttavia il Coro, formato da vecchi di Fere, amici del re, concludendo il primo stasimo canta: “ou[pote fhvsw gavmon eujfraivnein - plevon h] lupei'n, toi'" te pavroiqen - tevkmairovmeno"[2] kai; tavsde tuvca" - leuvsswn basilevw",  o}sti" ajrivsth" - ajplakw;n ajlovcou th'sd j, ajbivwton - to;n e[peita crovnon bioteuvsei”, (vv. 238 - 242), non dirò mai che le nozze portino gioia più che dolore, argomentandolo dai fatti passati e vedendo questa sorte del re, il quale, persa l'ottima sposa, vivrà in futuro una vita non vita.
Più avanti Admeto ribadisce: “zhlw' d j ajgavmou" ajtevknou" te brotw'n : - miva ga;r yuchv, th'" uJperalgei'n - mevtrion a[cqo". - paivdwn de; novsou" kai; numfidivou" - eujna;" qanavtoi" kerai>zomevna" - ouj tlhto;n oJra'n, ejxo;n ajtevknou" - ajgavmou" t j ei\nai dia; pantov"(Alcesti, vv. 882 - 888), invidio quelli senza nozze e senza figli tra i mortali: infatti una sola è la vita e l’angoscia per questa è un peso sopportabile. Le malattie dei figli invece e i letti nuziali devastati dalle morti non sono tollerabili da vedere, quando è possibile rimanere del tutto privi di figli e di nozze.  

Teoclimeno vuole punire la sorella Teonoe che non ha denunciato la trama. Uno schiavo cerca di trattenerlo e osa dire che un servo può dare consigli se parla meglio del padrone. E’ disposto a morire per salvare Teonoe:    "sacrificarsi per i padroni è il gesto più glorioso per gli schiavi nobili (pro; despovtwn -  toi`~ gennaivosi douvloi~ eujkleevstaton qanei`n (vv.1640 - 1641).
E’ ripetuta (cfr. vv.729 - 731) questa osservazione della quale forse Seneca ha tenuto conto nella lettera 47.  
Nella  conclusione del dramma sull’alto del palazzo compaiono i Dioscuri, come alla fine dell’Elettra di Euripide .
I fratelli di Elena consigliano a Teoclimeno di trattenere la collera: “ejpivsce~ ojrgav~ (1642), l’ira che caratterizza il tiranno. Teonoe ha agito bene. I due fratelli celesti  scorteranno la sorella fino a Sparta. La figlia di Zeus, conclusa la vita terrena, sarà assunta pure lei in cielo. L’isola posta davanti all’Attica (oggi Makronisi davanti a capo Sunio) avrà il nome di Elena poiché l’ha ospitata quando venne rapita dal palazzo. Il destino di Menelao errante è  che abiti nell’ isola dei Beati  (makavrwn katoikei`n nh`sovn ejsti movrsimon, v. 1677), infatti gli dèi non odiano i nobili, le sofferenze sono piuttosto di quelli che non sono considerati, non vengono nemmeno calcolati: “tou;~ eujgenei`~ ga;r ouj stugou`si daivmone~ - tw`n d j ajnariqmhvtwn ma`llovn eijsin oiJ povnoi” (1678 - 1679).
Cfr. la religio come menzogna aristocratica.

Nel IV canto dell’Odissea Menelao racconta la storia del vecchio marino verace "gevrwn aJvlio" nhmerthv""(v. 349). Questa sembra una figura assolutamente rivelatrice, del resto difficile da essere afferrata e consultata. L'Atride minore dunque era pericolosamente bloccato dalla bonaccia nell'isola di Faro, davanti all'Egitto[3], quando suscitò la pietà della figlia del vecchio Proteo, Eidotea (cfr. Elena di Euripide, v. 11), la quale gli insegnò come bloccare l'uomo che "conosce gli abissi del mare tutto" (vv. 385 - 386) e costringerlo a parlare.
 Nel  discorso di Proteo dunque c’è una profezia per Menelao il quale, in quanto "gambro;" Diov""(v. 569), genero di Zeus, non morirà ma verrà mandato dagli dèi nella pianura Elisia, ai confini della terra dov'è il biondo Radamanto, dove la vita per gli uomini è facilissima: non c'è neve né inverno rigido, né pioggia, ma soffi di Zefiro che spirano dall'Oceano a rinfrescare gli uomini (vv. 563 - 568).

Teoclimeno infine dà retta ai Dioscuri e si congratula con loro per la splendida sorella che hanno, donna di intelligenza e nobiltà rara che non c’è in molte altre: kai; caivreq jjJ JElevnh~ ou[nek j eujgenestavth~ - gnwvmh~, o} pollai`~ ejn gunaixin oujk e[ni ( Elena, vv. 1686 - 1687).

La conclusione dell’Elena di Euripide è uguale a quella di Alcesti ( vv. 1159 - 1163); Andromaca (vv. 1284 - 1288);  (Baccanti, vv. 1388 - 1392).
Coro
Molteplici sono gli aspetti del soprannaturale " pollai; morfai; tw'n daimonivwn
e molti eventi in modo insperato (ajevlptw~) compiono gli dèi;
e i fatti aspettati non vennero portati a compimento,
mentre per quelli inaspettati un dio trovò la via.
Così è andata a finire questa azione” (Elena, 1688 - 1692). 
Nella  Medea è differente solo il primo verso dei cinque finali: pollw`n tamiva~ Zeu;~ ejn   JOluvmpou (v. 1415), di molti casi è dispensatore Zeus sull’Olimpo.  
Questo finale è topico.




[1] Del 438 a. C.
[2] Trarre conclusioni congetturando  dagli indizi offerti dal passato è un  elemento che accomuna Euripide a Tucidide  il quale procede appunto attraverso prove e indizi: cfr " ejk de; tekmhrivwn" di I, 1  o  "tekmairovmeno"" di I, 21.
[3] Dove lo avevamo lasciato nel racconto di Nestore (III, 300), p. 109


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