Dostoevskij |
Un poco di Dostoevskij
L’ozio non ignobile ma per lo più inattivo del principe
Myškin
Il principe Myškin
ritiene connaturata all’uomo e naturale la felicità: “Io non so come sia
possibile passare accanto a un albero e non sentirsi felici di vederlo. Parlare
con una persona e non essere felici di volerle bene! Oh, io non so esprimere
bene i miei sentimenti…ma quante cose belle vediamo ad ogni pie’ sospinto,
belle al punto che l’uomo più abbietto non può che vederle sempre belle?
Guardate un bambino, guardate l’alba divina, guardate come cresce un fuscello,
guardate negli occhi che vi guardano a loro volta e vi vogliono bene…”[11].
Viveva senza la
minima diffidenza. Per la sua malattia non conosceva le donne. In Svizzera
parlava con i bambini: diceva loro tutto senza nascondere nulla. I genitori si
stizzivano. Il maestro di scuola era geloso di lui, e lo canzonava
quando diceva che i veri maestri erano i bambini i quali ci curano
l’anima.
Nell’Idiota c’è
un deprezzamento evangelico della razionalità degli adulti.
Insegnare infatti
significa imparare. Non tutti gli insegnanti sono dei fannulloni.
Non dobbiamo
dimenticare che l'insegnamento e l'apprendimento sono interdipendenti: "homines,
dum docent discunt "[12] mentre
si insegna si impara. Dagli studenti ho imparato e imparerò sempre molto:
"Quaeris quid doceam? etiam seni esse discendum"[13],
vuoi sapere che cosa insegno? che anche un vecchio deve imparare.
Tutti gli insegnanti, tutte le persone per
bene, non dovrebbero mai smettere di imparare :"semper homo bonus tiro
est ", l'uomo onesto fa tirocinio per tutta la vita, ha scritto
Marziale[15] (12,
51, 2).
Ancora sull’Idiota
Però il principe
Myškin non si trovava a suo agio con gli adulti. Il mio destino mi portava
verso i ragazzi (…) Gli adulti lo credevano un idiota.
Dice ad Aglaja: la
bellezza è un enigma. Siete tanto bella, che si ha paura a guardarvi. La
bellezza è una forza con la quale si può rovesciare il mondo.
Viene frainteso.
Totzkij pensò: “Idiota com’è, sa nondimeno benissimo che la via dell’adulazione
è la migliore”.
Dal suo viso
traspariva sempre la stessa ingenuità e fiducia, ben lontana dal sospettare una
derisione o una burla
Ippolit aveva
scritto “un moscerino in un raggio di sole partecipa del festoso banchetto
della vita, mentre io ne sono escluso” (p. 531) Era stato rinnegato dalla
natura. Il principe era anche poco istruito
Aglaja gli dice
che deve rompere il vaso cinese del salotto. Eseguite uno di quei gesti che
fate sempre: urtate il vaso e fatelo cadere in frantumi.
Ma il principe
vorrebbe evitarlo. Si trova in un salotto dove tutto era falso. I presenti si
odiavano o provavano fastidio l’uno dell’altro ma fingevano di essere amici.
Avevano riunito quella compagnia per convenienza e tutti credevano di fare agli
Epančin un grande onore con la loro presenza. Il principe non poteva capire
simili sottigliezze.
Il principe parla
contro il cattolicesimo romano “peggiore dello stesso ateismo”. L’ateismo
predica il nulla e il cattolicesimo predica un Cristo travisato e calunniato
dallo stesso cattolicesimo che predica l’Anticristo. Il cattolicesimo è la
continuazione dell’impero romano. Ogni cosa è stata venduta da Roma per denaro.
L’ateismo nasce dal disgusto del cattolicesimo. Da noi si trova nelle classi privilegiate
che hanno perso la loro radice; in Europa l’ateismo sta entrando nelle masse
del popolo per l’odio suscitato dalla Chiesa. Anche il socialismo è prodotto
dal cattolicesimo. Si sostituisce lo scomparso potere morale del cristianesimo
con la violenza. Per resistere all’Occidente bisogna che il nostro Cristo
risplenda. Non dobbiamo lasciarci pigliare all’amo dai Gesuiti ma portare
all’Occidente la nostra civiltà russa. Colui che ha rinnegato la sua terra
natale ha anche rinnegato il suo dio.
Tutti i presenti
erano costernati da questa tirata. Il principe stava lontano dal vaso cinese
per paura di romperlo, siccome aveva il presentimento che l’avrebbe rotto. In
effetti lo ruppe. Provò una spavento mistico
Aglaja lo ama per
la sua nobiltà e semplicità d’animo e per la fiducia illimitata. Chiunque
volesse potrebbe ingannarlo ed egli lo perdonerebbe.
Il principe alla
fine muore e la sua bontà rimane inattiva.
La nequitia dell’innamorato
Properzio intende
servire l'amata e la sua è una vera e propria condizione di schiavitù...Questo
atteggiamento costituiva una totale inversione di alcuni valori fondamentali
della morale romana, in cui la dedizione e il servitium erano
obblighi della donna nei confronti dell'uomo: accettare il servitium alla
donna significa, oltre che nullo vivere consilio [16], seguire la nequitia
la cattiva condizione (cfr. nequam, “buono a nulla”), e rinunciare
nel tempo stesso ai vantaggi della vita socialmente impegnata; il poeta sa bene
che questo atteggiamento farà di lui un oggetto di biasimo in tutta la città
(2, 24, 5 sgg.): ma l'amore è furor che divora e contro una simile
malattia non esistono rimedi[17]. Cfr. la Medea e la Fedra di
Seneca.
Gli elegiaci
infatti dichiarano il loro essere prigionieri (e prigionieri consapevoli)
della nequitia, inettitudine, dunque il loro non essere buoni
cittadini, e propongono un sistema di valori alternativo a quello socialmente
approvato.
Ovidio prima
dei Remedia ribalta tale tradizione affermando che
l'amore "riscatta il poeta dall'ignavia “inazione” e
dalla segnities “indolenza” perché l'amore è guerra, e
richiede e sviluppa nell'innamorato le stesse qualità fisiche e psicologiche
che l'esercizio della guerra richiede e sviluppa nel soldato. L'amante -
questo l'assunto dell'elegia, paradossale se si pensa all'antimilitarismo dei
primi elegiaci - è perfettamente uguale al soldato e come quello dotato di
forza, intraprendenza, attivismo. In questa identificazione tra sfera galante e
sfera militare, il repertorio tematico della militia amoris con
tutto il suo lessico militare conosce un utilizzo a pieno campo, e la tesi
viene portata avanti adottando una delle tecniche che si studiavano nelle
scuole di retorica del tempo, quella della comparatio (
confrontando due diverse realtà, se ne mostrano somiglianze e divergenze)"[18].
Le attività raccomandate da Ovidio sono innanzitutto
quelle "del foro e della guerra, il cui rifiuto voleva dire per il poeta
elegiaco rinuncia alla carriera e alla rispettabilità" .
Eros si associa a Eris:
Negli Amores leggiamo:"Militat
omnis amans, et habet sua castra Cupido;/Attice, crede mihi, militat omnis
amans "(I, 9, 1 - 2), è un soldato ogni amante; anche Cupido ha
il suo campo di guerra; Attico, credimi, ogni amante è un soldato.
Elogi della fatica e dell’impegno
Tucidide
“Sia quelli
sono degni di lode, sia, ancor più, i nostri padri: infatti dopo avere
conquistato, oltre a quanto avevano ricevuto, questo grande impero che
abbiamo, non senza fatica, lo hanno lasciato in eredità a noi che siamo
qui ora”( II, 36, 2).
L’elogio della
fatica è topico e risale a Esiodo
Esiodo
dice che davanti al valore gli dei hanno posto il sudore: "th'"
d j ajreth'" iJdrw'ta qeoi; propavroiqen e[qhkan"
(Opere, 289).
Nell'Elettra di Sofocle la
protagonista dice alla mite sorella Crisotemi: "o{ra,
povnou toi cwri;" oujde;n
eujtucei'''"
(v. 945), bada, senza fatica niente ha successo.
Nei Memorabili[19] di Senofonte la
donna virtuosa, la Virtù personificata, avvisa Eracle al bivio che gli dèi
niente di buono concedono agli uomini senza fatica e impegno:"tw'n
ga;r o[ntwn ajgaqw'n kai; kalw'n oujde;n a[neu povnou kai; ejpimeleiva"
qeoiv didovasin ajnqrwvpoi""
(II, 1, 28).
Chi
fa del bene conserva cavrin,
gratitudine, mentre chi lo riceve è lento a contraccambiare e teme di non
potere farlo
Tucidide, II, 40,
4.
E anche per quanto
riguarda la nobiltà d’animo, noi siamo il contrario dei più: infatti non
ricevendo il bene, ma facendolo ci procuriamo gli amici (ouj
ga;r pavsconte" eu\, ajlla; drw'nte" ktwvmeqa tou;" fivlou") E’ più sicuro
chi ha fatto del bene, nella misura in cui conserva la gratitudine che gli è
dovuta con la benevolenza per la quale ha donato; mentre chi è debitore è più
lento, in quanto sa che deve ricambiare l’atto generoso, non per fare un dono
gratuito, ma per dovere.
Tucidide,
II, 40, 2.
C’è nelle medesime
persone la cura degli interessi privati e nello stesso tempo degli affari
pubblici, e per altri, rivolti ad altre attività, c’è la possibilità di
conoscere i problemi politici in modo sufficiente: solo noi infatti
consideriamo (nomivzomen) non pacifico (oujk
ajpravgmona, ajll j ajcrei'on), ma inutile chi non
prende parte alla vita politica, e siamo noi che o decidiamo oppure esaminiamo
bene i fatti, non considerando i discorsi un danno per le azioni, ma che lo sia
piuttosto non essere informati con la parola prima di arrivare a ciò
che si deve all’azione
Edipo
l’eroe della passività e Prometeo dell’attività (Nietzsche in La
nascita della tragedia)
Nietzsche in La
nascita della tragedia [20] considera
Edipo un eroe della passività: “L'eroe
raggiunge appunto nell'attitudine puramente passiva la sua attività suprema, la
quale continua ad agire molto al di là della sua stessa vita, mentre il
cosciente tendere e sforzarsi della sua vita precedente lo ha condotto solo
alla passività".
Edipo
trova la sua dimensione positiva nella passività di Colono, dopo avere fatto
soffrire e avere sofferto assai nella fase dell'attività sconsiderata,
così Giovanni Drogo in Il deserto dei Tartari di
Buzzati scopre"l'ultima sua porzione di stelle"(p.250) e sorride
nella stanza di una locanda ignota, completamente solo, mangiato dal male,
accettando la più eroica delle morti, dopo avere sperato invano, per decenni,
di battersi"sulla sommità delle mura, fra rombi e grida esaltanti, sotto
un azzurro cielo di primavera". Invece il suo destino si compie al lume di
una candela, dove"non si combatte per tornare coronati di fiori, in un
mattino di sole, fra i sorrisi di giovani donne. Non c'è nessuno che guardi,
nessuno che gli dirà bravo".
Del
resto gli eroi della passività nella letteratura moderna sono tanti, da Oblomov
di Goncarov, a Zeno di Svevo per dire solo i più noti.
Il peccato attivo
di Prometeo che lo rivendica: "io sapevo tutto questo:/di mia volontà, di
mia volontà ho compiuto la trasgressione, non lo negherò (eJkw;n
eJkw;n h{marton, oujk ajrnhvsomai)/ aiutando i mortali ho trovato io stesso
le pene (aujto;~ huJrovmhn
povnou~ )"(265
- 267).
Quindi Nietzsche
contrappone a Edipo Prometeo come personaggio illuminato dalla gloria
dell'attività. Prometeo rappresenta anche l'artista titanico il quale
"trovò in sé la caparbia fede di poter creare uomini o almeno di poter
distruggere dèi olimpici: e ciò mediante la sua superiore sapienza, che era
però costretto a scontare con un'eterna sofferenza"[21].
La rivendicazione
di Prometeo fornisce una legittimazione all'ira di Zeus e argomenti
a Nietzsche in La nascita della tragedia per distinguere
"la concezione ariana" dal mito semitico:" La cosa migliore e
più alta di cui l’umanità possa diventare partecipe, essa la conquista con un
crimine, e deve poi accettarne le conseguenze, cioè l’intero flusso di dolori e
di affanni, con cui i celesti offesi devono visitare il genere umano che
nobilmente si sforza di ascendere: un pensiero crudo, per la dignità
conferita al crimine, stranamente contrasta con il mito semitico del peccato
originale, in cui la curiosità, il raggiro menzognero, la seducibilità, la
lascivia, insomma una serie di affetti eminentemente femminili fu considerata
come origine del male. Ciò che distingue la concezione ariana è l’elevata
idea del peccato attivo come vera virtù
prometeica"[22].
Ultimo discorso di
Pericle in Tucidide
Allora è giusto
che non evitiate le fatiche necessarie agli onori (povnoi - timaiv cfr. l’Iliade).
E non conviene in una città che comanda ma in una che è suddita.
Nel suo ultimo
discorso, Pericle dice, avete un impero che è come una
tirannide: esercitarlo può essere ingiusto, ma abbandonarlo pericoloso ( II,
63, 2).
Non potete tirarvi
indietro dall’impero (ajrch'" ejksth'nai, 2,
63). wJ" turannivda ga;r h[dh e[cete aujthvn, oramai l’avete
come una tirannide, e averlo preso può sembare ingiusto, ma lasciarlo sarebbe
pericoloso. L’inerzia infatti non salva - to; ga;r a[pragmon ouj
swv/zetai se
non è schierata con l’attività
Cfr.
quanto dirà Cleone "turannivda e[cete th;n ajrchvn",
III 37, 2, avete un impero che è una tirannide che si esercita su uomini ostili
i quali non si lasciano comandare di buona voglia e la vostra superiorità è
basata più sulla vostra forza che sulla loro benevolenza (ijscuvi
ma'llon h] th'/ ejkeivnwn eujnoiva/ ).
Torniamo a Ovidio
I Remedia per certi versi sono un
controcanto all’Ars amatoria.
“L'argomentazione didascalica dei Remedia
confuta l'elegia in uno dei suoi fondamentali presupposti ideologici: il
rifiuto della vita attiva, la scelta deliberata dell'otium desidiosum.
Se l'otium , la pigra mollezza, è alimento della malattia d'amore,
la guarigione comincia già dall'impegnarsi in una vita attiva: Remedia
amoris 143 s. qui finem quaeris amoris,/ (cedit amor rebus) res
age, tutus, eris "[23] .
L'ozio come responsabile dell'amore riprovevole viene
indicato anche da Menedemo, il punitore di se stesso, al figlio Clinia:"Nulla
adeo ex re istuc [24] fit nisi ex nimio otio " (Heautontomorumenos [25], da nessun altro motivo reale deriva questa tua smania
se non dall'ozio eccessivo.
Una delle operosità raccomandate per sfuggire al tormento
amoroso è quella nell'agricoltura, " l'attività economica tradizionale del
signore romano, ma che è raccomandata come modello di vita in cui i tratti
dell'utile quasi cedono di fronte alle preponderanti attrattive estetiche che
può offrire una tenuta di campagna. E naturalmente, fra i modi di combattere l'otium ,
non può mancare la passione per la caccia (e in subordine, per la
pesca): l'inconciliabilità fra Diana e Venere è una di quelle
opposizioni fondamentali che sono addirittura registrate nel codice
antropologico.
Artemide dunque (la cacci) contro Afrodite (l’amore)
Cfr. l’Ippolito di Euripide dove la dea
dell’amore entra in scena dicendo: : Pollh; me;n ejn
brotoi'" koujk ajnwvnumo"
(v. 1), grande tra i mortali e non oscura. In questa tragedia Afrodite
distrugge il puro cacciatore Ippolito.
La potenza
di Cipride viene celebrata anche all'inizio della Parodo delle Trachinie di
Sofocle:"mevga ti sqevno" aJ Kuvpri"
ejkfevretai - nivka" ajeiv" (vv. 497 - 498), Cipride porta con sé una
grande potenza, sempre vittorie.
Mutatio locorum
Un aiuto per
dimenticare può venire anche da un lungo viaggio senza voltarsi indietro: se
l'amore è una guerra sia guerra scitica[26],
o partica: "tempora nec numera nec crebro respice Romam,/sed fuge;
tutus adhuc Parthus ab hoste fuga est " ( Remedia,
vv. 224 - 225). non contare i giorni e non voltarti spesso a guardare Roma, ma
fuggi, ancora il Parto si mette al riparo con la fuga.
Attività e
metafore della caccia e della guerra sono impiegate nei Remedia per
suggerire la fuga dall'amore: nell' Ars amatoria viceversa per
la ricerca amorosa:"Il pregio maggiore dell'opera sta senza dubbio nel suo
raffinato impianto metaforico: l'amore è descritto come caccia e come guerra, e
queste immagini sono sviluppate con rigorosa coerenza (bagni, portici e
spettacoli come terreni di caccia, doni e dolci parole come esche, appostamenti
sotto la porta dell'amata come assedi)".
L'uomo al pari del
cacciatore che sa bene dove tendere le reti ai cervi, (scit bene venator, cervis
ubi retia tendat , I, 45) deve imparare a conoscere i luoghi
frequentati dalle donne: portici, templi, fori, fontane, ma soprattutto i
teatri ( sed tu praecipue curvis venare theatris , I, 89, ma
tu soprattutto vai a caccia nei curvi teatri ) dove il figlio di Venere fa
spesso le sue battaglie e chi ha osservato lo spettacolo di ferite, ha una
ferita:"Illa saepe puer Veneris pugnavit arena /et ,qui
spectavit vulnera, vulnus habet " I, 165 - 166.
L'anfiteatro
dunque è un luogo di battaglie e ferite raccomandato per gli incontri erotici
che hanno una componente conflittuale come i ludi del circo. Le donne più
raffinate si precipitano ai giochi più frequentati:"Spectatum veniunt,
veniunt spectentur ut ipsae/; ille locus casti damna pudoris habet"
(I, vv. 99 - 100), vengono per osservare, vengono per essere loro stesse
osservate; quel luogo contiene perdite del casto pudore. -
Già Properzio prima
di Ovidio nei Remedia aveva affermato l'opportunità della
ritirata altrove per salvarsi dalla pena amorosa:"Magnum iter ad doctas
proficisci cogor Athenas/ut me longa gravi solvat amore via./Crescit enim
assidue spectando cura puellae:/ipse alimenta sibi maxima praebet Amor./Omnia
sunt temptata mihi, quacumque fugari/ possit; at ex omni me premit ipse
deus./…Unum erit auxilium: mutatis Cinthya terris/Quantum oculis, animo tam
procul ibit amor./ Nunc agite, o socii, propellite in aequore navem "III,
21, 1 - 6; 8 - 10), sono costretto a partire per un grande viaggio verso la
dotta Atene perché un lungo tragitto mi liberi da quest'amore opprimente.
Cresce infatti continuamente osservandola il tormento della ragazza: Amore si
fornisce da solo l'alimento più grande. Le ho tentate tutte, da qualunque parte
si potesse mettere in fuga; ma da ogni parte mi opprime lo stesso dio…resterà
solo un rimedio: mutato luogo, Cinzia, quanto dagli occhi tanto lontano andrà
Amore dal cuore. Ora avanti, compagni, spingete nel mare la nave.
Da Ovidio e Properzio dunque viene ribaltato il
topos dell'inutilità della mutatio locorum che si trova
in Orazio: "Caelum, non animum, mutant qui trans mare
currunt/strenua nos exercet inertia " (Epistole,
1, 11, 27 - 28), cambiano il cielo, non lo stato d'animo quelli che corrono al
di là del mare, un'irrequieta indolenza ci tiene in ansia.
Quindi Seneca scriverà:" Animum
debes mutare, non caelum. Licet vastum traieceris mare, licet, ut ait Vergilius
noster, "terraeque urbesque recedant" [27], sequentur te quocumque perveneris vitia "
(Ep. a Lucilio , 28, 1), l'animo devi cambiare, non il cielo. Anche
se avrai attraversato il mare immenso, anche se, come dice il nostro Virgilio,
"terre e città si allontanano", dovunque sarai giunto ti seguiranno i
vizi.
E ancora: "Nullum tibi opem feret iste
discursus; peregrinaris enim cum adfectibus tuis et mala te tua sequuntur…Quid
ergo? animum tot locis fractum et extortum credis locorum mutatione posse
sanari? Maius est istud malum quam ut gestatione curetur ...Nullum est, mihi
crede, iter quod te extra cupiditates, extra iras, extra metus sistat "
(Ep. a Lucilio , 104, 17 - 19), questo correre qua e là non ti
porterà nessun vantaggio; infatti vai in giro con le tue passioni e i tuoi vizi
ti seguono… che dunque? credi che l'animo in tanti luoghi ferito e slogato
possa sanarsi col cambiar luogo? Il male è troppo grande per essere guarito con
una passeggiata...Non c'è viaggio, credimi, che ti metta al riparo dalle
passioni, dall'ira, dal timore.
Tra i contemporanei Galimberti dubita che il
viaggiare da turisti possa davvero scuoterci l'anima:"La gente viaggia
(diceva Orazio:"Non è cambiando il cielo che si cambia animo")
probabilmente per un bisogno di evasione, per dare una scossa alla propria
condizione psicologica. Evasione vuol dire "uscir fuori", ma non mi
pare che nei viaggi si esca davvero fuori". Infatti è tutto prenotato,
codificato, previsto. "Del viaggio perdiamo dunque l'ultimo scrigno
segreto che potrebbe offrirci: lo spaesamento"[28].
“I “bennati” sentivano
se stessi come “felici”…poi essi, uomini superdotati di forza e perciò
stesso necessariamente attivi, riuscivano a non separare
l’agire dalla felicità - l’essere attivi era per loro considerato come qualcosa
di attinente necessariamente alla felicità (da cui eu\
pravttein)
- tutto ciò in netto contrasto con la “felicità” a livello degli impotenti,
degli oppressi, dei piagati”[29].
L’Edipo a
Colono , l’eroe della passività, di Sofocle però
mostra ancora nel modo più puro l’accento di una conciliazione proveniente da
un altro mondo. Ismene dice al padre: nu`n ga;r qeoiv sj
ojrqou`si, provsqe d’ w[llusan (394)
Dopo Sofocle non
c’è più consolazione metafisica, indicata da Nietzshe in La nascita
della tragedia, bensì l’eroe che fa un buon matrimonio o, come il
gladiatore, viene prima scorticato poi riceve la libertà. E al posto della
consolazione metafisica subentra il
deus ex machina. La consolazione
metafisica degenera in culto segreto. La serenità greca diventa voglia di
vivere senile e improduttiva. L’aspetto più nobile di questa tarda serenità è
la serenità dell’uomo teoretico che dissolve comunque il mito e utilizza il dio
delle macchine e dei crogiuoli.
E’ il credere a
una correzione del mondo per mezzo del sapere, credere a una vita guidata dalla
scienza. Una canuta o calva assennatezza.
La
logica imperialistica
Alcibiade "svolge
dinanzi all'assemblea popolare il disegno vertiginoso della conquista di tutta
la Sicilia e del dominio su tutta la Grecia, dichiarando che lo sviluppo di una
potenza come quella d'Atene non si può razionare: chi la detiene, non può
conservarla che con l'estenderla sempre più, giacché la sosta significa
pericolo di decadenza"[30]. Meritano di essere trascritte alcune
parole di questo seduttore delle donne e del popolo :" kai;
th;n povlin, eja;n me;n hJsucavzh/, trivyesqaiv[31] te
aujth;n w{sper kai; a[llo ti"(VI, 18, 6) e
la città, se rimarrà tranquilla si logorerà da sola, come qualsiasi altra
cosa. Ecco dunque un personaggio in cui il " carattere di tutta la stirpe
è genialmente personificato: ciò spiega la sua influenza irresistibile sul
volgo, sebbene a questo egli fosse inviso per il suo atteggiamento presuntuoso
e altezzoso nella vita privata"[32].
Cfr.
I Corinzi su gli Ateniesi in Tucidide
Insomma,
sintetizzano i Corinzi, se uno, riassumendo, dicesse che sono nati per non
avere pace loro e non lasciare in pace[33] gli
altri uomini, direbbe la verità:"w{ste ei[ ti"
aujtou;" xunelw;n faivh pefukevnai ejpi; tw'/ mhvte aujtou;" e[cein
hJsucivan mhvte tou;" a[llou" ajnqrwvpou" eja'n, ojrqw'"
a]n ei[poi", I, 70, 9). Questo dinamismo
psicologico degli Ateniesi dunque ne spiega i successi:"In contrasto con
lo sfondo della lentezza e indolenza, dell'onestà di antico stampo e della
ristretta perseveranza di Sparta, risalta la descrizione della vivacità
ateniese, in cui si mescolano l'invidia, l'odio e l'ammirazione dei Corinzi:
perpetua intraprendenza, grande slancio nel concepir disegni come nell' osare,
una flessibilità che fronteggia ogni situazione e non viene meno neanche
nell'insuccesso, anzi ne è spronata a più alte imprese", commenta Jaeger[34].
Gli
Ateniesi assomigliano all'Edipo di Sofocle, quello attivo dell’Edipo
re e del suo antefatto, non quello passivo dell’Edipo a Colono.
CONTINUA
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[11] F.
Dostoevskij, L’idiota, p. 700 -
[12] Seneca, Epist.,
7, 8.
[13] Seneca, Epist., 76,
3.
[14] F.
Nietzsche, Così parlò Zarathustra, p. 92.
[15] 40ca
- 104 d. C.
[16]I, 1,
6, vivere senza alcun proposito sano, secondo la docenza di Amor
improbus che gli insegnò perfino a odiare le ragazze caste:"donec
me docuit. castas odisse puellas " (v. 5).
[17]P.
Fedeli, Introduzione a Properzio, Elegie , pp. 19 - 2O.
[18]G. B.
Conte, (a cura di) Scriptorium Classicum 2, p. 165.
[19] Scritto
socratico in quattro libri che presenta il maestro come un uomo probo e onesto,
rispettoso della religione e delle leggi, valida guida morale nella vita
pratica
[20] Capitolo
VIII.
[21] La
nascita della tragedia, cap. IX.
[22] F.
Nietzsche. La nascita della tragedia, cap. IX
[23] G.
B. Conte, introduzione a Ovidio Rimedi contro l'amore, p. 39.
[26]Nel IV
libro delle Storie Erodoto racconta la fallita spedizione di Dario
contro gli Sciti descrivendo i costumi di questo popolo e il loro modo di
guerreggiare: facevano terra bruciata e si allontanavano , una strategia non
molto diversa da quella dei Russi descritti da Tolstoj che in Guerra e
pace definisce ancora " piano di guerra scitica" quello
"mirante ad attirare Napoleone nelle regioni interne della Russia"
(p. 1031).
[27]Eneide
III, 72, quando i Troiani si allontanano dalla Tracia.
[28] La
lampada di Psiche , p. 48 e p. 51.
[29] Genealogia
della morale, 7.
[30] Jaeger, Op.
cit. p. 675.
[32] Jaeger, Op.
cit. p. 676.
[33] Cfr.
la Medea di Seneca quando entra in scena Creonte che manifesta
timore per la donna barbara:"cui parcet illa, quemve securum sinet?"
(v. 182), chi risparmierà quella o chi lascerà in pace?
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