NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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giovedì 2 maggio 2019

Ecuba di Euripide 5

Ecuba, accompagnata dal marito Priamo
e dal primogenito Ettore

(da una ricostruzione di un vaso)
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Il lavoro di questa mattina del 2 maggio 2019 per la conferenza che terrò il 28 maggio nel Liceo Pirandello di Bivona



Euripide, Ecuba, III Episodio vv. 657 - 811

Entra una qeravpaina dicendo che Ecuba è la regina con la corona dell’infelicità.
Cfr. la corona di spine dell’ecce homo N. T., Giovanni, 19, 5. Gesù uscì forw'n to;n ajkavnqinon stevfanonportans coronam spineam.
 L’ancella dichiara al coro che porta altro a[lgo" dolore a Ecuba (663). Ecuba entra in scena e l’ancella le dice che la sua vita è finita siccome è rimasta rovinata a[pai", a[nandro" a[poli" ejxefqarmevnh (669)
Ma Ecuba replica. “non mi hai detto nulla di nuovi - ouj kaino;n ei\pa", tu hai rinfacciato a chi già sa.
L’ancella è entrata recando il cadavere di Polidoro avvolto in un mantello ma Ecuba crede che si tratti di Polissena
La qeravpaina dice che si tratta di una nuova disgrazia ed Ecuba teme che si tratti di Cassandra.
L’ancella allora scopre il cadavere denudato del morto: sw'ma gumnwqe;n nekrou' (679).
Ecuba riconosce Polidoro nel cadavere ma è quasi incredula poiché il ragazzo era in salvo, ospite in Tracia
Quindi in versi lirici dice che dà inizio a dei lamenti, un canto bacchico imparato da poco dal demone vendicatore bakcei'on ejx ajlavstoro" - ajrtimaqh' novmon - 686 - 687).
 Tornano i trimertri con la visione fissata su mali incredibili, sempre nuovi a[pist j a[pista, kaina; kaina; devrkomai (689).
da una radice derk/ - /dork/ - /drak - da cui deriva il sostantivo dravkwn, il serpente che guarda fisso.
Commento a devrkomai di Buno Snell
devrkesqai significa: avere un determinato sguardo. Dravkwn il serpente il cui nome è tratto da devrkesqai, viene chiamato così, poiché ha uno "sguardo" particolare, sinistro. E' detto il "veggente", non perché ci veda meglio di altri e la sua vista funzioni in modo speciale, ma perché ciò che colpisce in lui è il guardare. Così la parola devrkesqai indica in Omero non tanto la funzione dell'occhio, quanto il lampeggiare dello sguardo, percepito da un'altra persona(...) E' una maniera molto espressiva di guardare; e che molti passi della poesia di Omero riacquistino la loro particolare bellezza soltanto quando ci si rende conto del vero valore di questa parola, lo può dimostrare l'Odissea, V, 84 - 158: (Ulisse) povnton ejp& ajtruvgeton derkevsketo davkrua leivbwndevrkesqai significa "guardare con uno sguardo particolare" e risulta dall'insieme che si tratta di uno sguardo pieno di nostalgia, che Ulisse, lontano dalla patria, manda là dal mare. Se vogliamo rendere in modo esauriente tutto il significato della parola derkevsketo ( e dobbiamo rendere anche il valore dell'iterativo), ecco che diventiamo prolissi e sentimentali:"sempre guardava con nostalgia..." oppure:"il suo sguardo sperduto vagava sempre" sul mare. Tutto ciò è contenuto a un dipresso nella singola parola derkevsketo. E' un verbo che dà un'immagine precisa di un particolare modo di guardare glotzen (=spalancar gli occhi) o starren (=fissare), che determinano un particolare modo di guardare (per lo meno in maniera diversa dalla solita). Anche dell'aquila si può dire: ojxuvtaton devrketai, "guarda con occhio molto penetrante", ma anche qui non ci si riferisce tanto alla funzione dell'occhio, alla quale usiamo pensar noi quando diciamo "guardare acutamente", "fissare qualcosa con sguardo acuto", quanto ai raggi dell'occhio, penetranti come i raggi del sole, che Omero chiama "acuti", poiché attraversano ogni cosa come un'arma affilata"[1].

Mali si aggiungono ad altri mali dunque e non ci sarà più un giorno senza gemiti e senza lacrime
Ilcoro conferma. “Deinj deina;, w\ tavlaina, pavscomen kakav (Ecuba, 693)
Ecuba torna a cantare e si rivolge al al cadavere del figlio domandando come sia morto, per quale destino, per mano di quale uomo.
L’ancella non lo sa, l’ha trovato sulla riva del mare ejp j ajktai'" qalassivai" (698). Ve lo ha spinto l’onda del mare.

Cfr. le onde del mare come segno dell’impassibilità e immutabilità del destino in Senilità di Svevo.

Ecuba ricorda il brutto sogno che del futuro le squarciò il velame. E dice al coro che l’assassino è stato “ejmo;" ejmo;" xevno", Qrh/kio" iJppovta", il mio, mio ospite, il cavaliete trace (710) cui Priamo lo aveva affidato. La corifea domanda esterrefatta cruso;n wJ" e[coi ktanwvn; (715), per avere l’oro dopo averlo ammazzato?.
Ecuba commenta che sono state perpetrate delle infamie a[rrht j, cose indicibili. Empie al di là della stupefazione e non sopportabili. Pou' divka xevnwn; dove è finito il diritto dell’ospitalità? (715).

Nelle Eumenidi di Eschilo le Erinni che incalzano il matricida, lo minacciano di trascinarlo tra i grandi peccatori: quanti si sono resi colpevoli verso un dio, o un ospite o hanno mancato di rispetto ai genitori[2] (vv. 269 - 271). E’ il codice tripartito della grecità arcaica e classica.

Segue una maledizione contro il katavrato" ajndrw'n, Polimestore, che ha straziato con la spada le fragili membra di un fanciullo, spietatamente.

A questo punto la corifea annuncia l’arrivo di Agamennone (725)
Il re domanda a Ecuba perché ritardi gli onori funebri alla figlia Polissena che nessuno ha toccato secondo il desiderio della madre riferito da Taltibio.
hJmei'" me;n ou\n ejw'men oujde; yauvomen, lo abbiamo lasciato lì senza toccarlo (729). Agamennone manifesta una certa disponibilità alla vecchia regina sperando che non gli metta contro la figlia Cassandra costretta a essergli amante (cfr. questo connubio nell’Agamennone di Eschilo e nelle Troiane).
Quindi l’a[nax domanda chi sia il morto accanto a lei
Ecuba rispondendogli, chiede in realtà a se stessa: “povtera prospevsw govnu - j Agamevmnono" tou'd j h} fevrw sigh'/ kaka; (738).
L’istinto di conservazione è relativo a Cassandra. Agamennone la incalza per avere una risposta, ma Ecuba continua a parlare a se stessa: se mi ritiene douvlhn polemivan una schiava nemica e mi respinge aggiungeremmo del dolore - a[lgo" a]n prosqeivmeq j a[n (741 - 742). Risparmiare il dolore è cosa molto umana.

Soffrire in certi casi non serve a niente (Pavese), mentri in altri insegna - tw'/ pavqei mavqo". 

Agamennone insiste: “ou[toi pevfuka mavnti" , non sono un indovino tanto da cercare la strada dei tuoi propositi senza ascoltarli (743 - 744)
Ecuba domanda ancora a se stessa se forse lei considera Agamennone più malevolo nei pensieri di quanto non sia, o[nto" oujci; dusmenou'"(745 - 746)
In fondo, se è benvolo, può considerarla una specie di suocera quale madre di Cassandra.
Agamennone comincia a spazientirsi e le dice: “se non vuoi che io sappia, nemmeno io voglio ascoltarti”.
Ecuba ha riflettuto: Agamennone è l’amante di Cassandra e forse può aiutarla a vendicarsi contro chi le ha ucciso il figlio. Dunque dice a se stessa: non potrei vendicare i miei figli senza costui - tou'de a[ter (749 - 750). Quindi ora tolma'n ajnavgkh (751) bisogna osare qualunque sia il risultato.

Viene in mente il (tolmhtevon tavd ', Medea, v. 1051, bisogna osare questo!) di Medea che vuole evitare la derisione lasciando impuniti i nemici.
“No certo, non io: addio propositi!
ma che cosa mi succede? voglio espormi alla derisione
lasciando i miei nemici impuniti?
 Bisogna osare questo; che debolezza però la mia,
anche solo l’ammettere nell'anima parole tenere!
Entrate, figli, in casa”. (Medea, vv. 1048 - 1053)
Ha deciso di ucciderli

L’audacia delle donne viene messa tra i deinav nel primo stasimo delle Coefore di Eschilo, meno noto di quello dell’Antigone.
 Vengono menzionati alcuni aspetti della natura spaventosi, ma non quanto l’audacia e la sfrontatezza di uomini e donne: “Molte creature tremende nutre la terra”, polla; me;n ga' trevfei - deina;, “angosce di terrori”, deimavtwn a[ch, “e gli abbracci del mare sono pieni di mostri ostili agli uomini”, povntiaiv t j ajgkavlai knwdavlwn ajntaivwn brotoi'si plhvqousi, “germogliano anche a mezz’aria sospesi splendori”, blastou'si kai; pedaivcmioi lampavde" pedavoroi, “gli animali che volano e che camminano sulla terra potrebbero dire della collera rapida delle tempeste”, ptanav te kai; pedobavmona kajnemovent j a]n ajgivdwn fravsai kovton (vv. 585 - 592, strofe a).
Vediamo l’antistrofe (593 - 601): “Ma della mente troppo audace dell’uomo chi potrebbe dire”, ajll j uJpevrtolmon ajndro;" frovnhma tiv" levgoi, “e delle donne sfrontate nel cuore”, kai; gunaikw'n fresi;n tlhmovnwn, “le passioni temerarie”, pantovlmou" e[rwta", “associate alle folli cecità dei mortali?” a[taisi sunnovmou" brotw'n, “i vincoli coniugali dei mostri e dei mortali li vince l’amore disamore che domina la donna”, xuzuvgou" d j oJmauliva" qhlukrath;" ajpevrwto" e[rw" paranika'/ knwdavlwn te kai; brotw'n.

Ecuba ha preso la risoluzione e si rivolge da supplice ad Agamennone - ijketeuvw se, 752 nominando le ginocchia, la guancia e la destra felice di lui. Agamennone la conforta dicendole che potrà avere la libertà. Ma lei vuole essere schiava per tutta la vita, pur di vendicarsi dei malvagi. Lo scopo principale mette da parte tutto il resto, come succede nelle persone coscienti di quello che vogliono e risolute.
Agamennone le domanda quale aiuto gli chieda - tin j ejpavrkesin (758)
Ecuba indica il cadavere di Polidoro e spiega: tou'ton pot j e[tekon ka[feron zwvnh" u{po (762) questo l’ho partorito io e lo portavo sotto la cintura.
Il parto viene spesso ricordato dalle madri per significare la forza dell’amor matris che dovrebbe essere genitivo soggettivo e oggettivo come si legge nell’Ulisse di Joyce: che elogia l’amore della madre:" Se non fosse stato per lei la maratona del mondo lo avrebbe schiacciato sotto i piedi, spiaccicata lumaca senza vertebre. Lei aveva amato quel debole sangue acquoso trasfuso dal proprio…Amor matris , genitivo soggettivo e oggettivo, questa è forse l'unica cosa vera nella vita. La paternità forse è una finzione legale. Chi è il padre di un qualsiasi figlio perché qualsiasi figlio debba amarlo o viceversa (...) Il figlio nascituro guasta la bellezza: nato, porta dolore, separa l'affetto, accresce le preoccupazioni. E' un maschio: la sua crescita è il declinare del padre, la sua giovinezza l'invidia del padre, il suo amico il nemico del padre (...) Che cosa mai li congiunge in natura? Un istante di cieca foia"[3]. Il rovescio del discorso di Apollo nelle Eumenidi di Eschilo

Le sofferenze del parto ancora più doloroso della guerra
La Medea di Euripide afferma di preferire la guerra al parto inaugurando un tovpo" che arriva alle soldatesse di oggi.
“Dicono di noi che viviamo una vita senza pericoli/ in casa, mentre loro combattono con la lancia,/ pensando male: poiché io tre volte accanto a uno scudo/ preferirei stare che partorire una volta sola. (Medea, vv. 248 - 251).

Ennio (239 - 169 a. C.) traduce i versi di Euripide quando fa dire alla sua Medea exul :"nam ter sub armis malim vitam cernere/quam semel parĕre”, infatti preferirei decidere la vita sotto le armi tre volte che partorire una volta sola.

Le sofferenze del parto sono ricordate nell' Elettra di Sofocle da Clitennestra quando l’adultera assassina tenta di giustificarsi per il trattamento riservato al marito il quale non era incolpevole: egli sacrificò Ifigenia dopo averla seminata, senza avere passato il travaglio della madre quando la partorì:"oujk i[son kamw;n ejmoi; - luvph", o{t' e[speir' , w{sper hJ tivktous' ejgwv" ( vv. 531 - 532). Qui il seminare conta meno del partorire, diversamente dalle Eumenidi di Eschilo.
Più avanti Clitennestra viene a sapere che Oreste è morto in una gara di carri. La notizia è falsa ma la madre la crede vera. Quindi chiede a Zeus che cosa significhi - tiv tau'ta; 766.
Se è una fortuna o una cosa tremenda, ma utile (povteron eujtuch' legw - h] deina; me;n, kevrdh dev; 766 - 7677). Comunque è penoso se mi salvo la vita a prezzo dei miei lutti commenta (768).
Il pedagogo le domanda perché sia così turbata e Clitennestra risponde
deino;n to; tivktein ejstivn (770), partorire è tremendo, e di fatto neppure a quella che subisce del male sopravviene odio per i figli che ha partorito oujde; ga;r kakw'" - pavsconti mi'so" wn tevkh/ prosgivgnetai (771)

Nelle Fenicie di Euripide la Corifea commenta la pena di Giocasta per Polinice dicendo:"deino;n gunaixi;n aiJ di' wjdivnwn gonaiv, - kai; filovteknovn pw" pa'n gunaikei'on gevno"" (vv. 355 - 356), sono terribili per le donne i parti attraverso le doglie, e tutta la razza femminile è in qualche modo amante dei figli.
Giocasta lo è stata anche troppo; Medea evidentemente fa eccezione.

Nell' Ifigenia in Aulide la Corifea comprende la pena di Clitennestra per la figliola, ricordando quale prova terribile sia il parto:"deino;n to; tivktein kai; fevrei fivltron mevga - pa'sivn te koino;n w{sq' uJperkavmnein tevknwn" (vv. 917 - 918), tremendo è partorire e comporta una grande magia d’amore comune a tutte, tanto da soffrire per i figli.
Partorire dunque è una delle cose tremende (ta; deinav). 

Torniamo alla nostra Ecuba la quale spiega ad Agamennone chi era quel figlio e perché non si trovava a Troia: era stato mandato lì in Tracia presso Polimestore con la custodia di oro amarissimo - pikrotavtou crusou' fuvlax (772) era custode dell’oro che non l’ha custodito in quanto il metallo giallo è il veleno più micidiale.

In Romeo e Giulietta (1596) il protagonista, comprando un veleno, afferma che l'oro, preso in cambio dallo speziale, è "worse poison", un veleno peggiore, per l'anima degli uomini. Esso "commette in questo odioso mondo più assassinî, che non queste povere misture che tu non puoi vendere; io vendo a te del veleno, tu non ne hai venduto a me" (V, 1).

Ecuba continua a informare Agamennone sulla sfortuna del figlio
Il re la compiange w\ scetliva su; tw' ajmetrhvtwn povnwn (783) o miserevole tu dalle pene non misurabili.

Cfr. Sofocle, Edipo re: "Ahimé, innumerevoli - ajnavriqma - infatti sopporto/le pene e mi sta male tutto/lo stuolo, e non c'è arma della mente con cui uno si difenderà (vv. 168 - 171)". Diversamente da Edipo che vuole misurare e commisurare(cfr.vv.73 - 84), il coro non riesce più a contare le sofferenze. Quando le pene sono innumerevoli non si sa più neanche per quale ragione si soffre e viene meno la capacità di reagire.

Cesare Pavese nell'ultima pagina de Il mestiere di vivere, in data 18 agosto 1950, ossia dieci giorni prima di ammazzarsi, scriveva:"Più il dolore è determinato e preciso, più l'istinto della vita si dibatte, e cade l'idea del suicidio".

Agamennone le dice che non c’è donna ou[tw dustuchv" (785) tanto bersagliata dalla tuvch; Ecuba replica: non c’è a meno che tu dica la Tuvch stessa”, nel senso di disgrazia”.
Ecuba chiede dunque al re suv moi genou' - timwro;" ajndro;", ajnosiwtavtou xevnou (789 - 790) diventa per me il vendicatore contro l’uomo il più empio degli ospiti che ha compiuto l’azione più empia dedravken e[rgon ajnosiwvtaton (792)
- dravw è il verbo tragico per eccellenza -
senza temere gli dei inferi né i superi - ou[te tou;" gh'" nevrqen ou[te tou;" a[nw - deivsa" (791 - 792), lui che spesso aveva condiviso la mia mensa - koinh'" trapevzh" pollavki" tucw;n ejmoiv (793).
(cfr. la comunione della me nsa, del mangiare insieme e il Leopardi monofavgo" )
e aveva goduto della mia ospitalità, dopo tutto questo ha ucciso mio figlio. Per giunta non lo ha ritenuto degno di una tomba ma lo ha gettato in mare - tuvmbou oujk hjxivwsen, ajllj ajfh'ke povntion (797)
Noi siamo schiavi e deboli forse hjmei'" me;n ou\n dou'loiv te kajsqenei'" i[sw" ma gli dèi sono forti ajll j oiJ qeoi; sqevnousi e lo è ancora di più il Novmo" keivnwn kratw'n, la Legge che comanda su gli dei, e per essa difatti noi crediamo negli dèi - novmw/ ga;r tou;" qeou;" hJgouvmeqa (800) e viviamo distinguendo il giusto e l’ingiusto kai; zw'men a[dika kai; divkai j wJrismevnoi (801)
Altri invece intendono “gli dèi sono potenti e la Legge di quelli comanda”. Io preferisco la prima interpretazione.

Nel Prometeo incatenato, il martire sostiene, consolandosene, che nemmeno Zeus "potrebbe in alcun modo sfuggire alla parte che gli ha dato il destino (th;n peprwmevnhn)"(v. 518).
Destino e Necessità sono le divinità supreme in questa tragedia e non solo in questa (cfr. per esempio l’Alcesti di Euripide)
Prometeo sopporta di sapere il suo destino senza venirne schiacciato, ma sa che gli uomini non sarebbero capaci di reggere una simile tensione (v. 514): “tevcnh d j ajnavgkh" ajsqenestevra makrw'/ ”, la conoscenza pratica è molto più debole della necessità.

Nel trattato Della tirannide (del 1777) Alfieri distingue la religione cristiana dalla pagana rilevando l’incompatibilità della prima con la libertà: “La religion pagana, col suo moltiplicare sterminatamente gli dèi, e col fare del cielo quasi una repubblica, e sottomettere Giove stesso alle leggi del fato, e ad altri usi e privilegi della corte celeste, dovea essere, e fu infatti, assai favorevole al vivere libero…La cristiana religione, che è quella di quasi tutta la Europa, non è per se stessa favorevole al viver libero: ma la cattolica religione riesce incompatibile quasi col viver libero…Ed in fatti, nella pagana antichità, i Giovi, gli Apollini, le Sibille, gli Oracoli, a gara tutti comandavano ai diversi popoli e l’amor della patria e la libertà. Ma la religion cristiana, nata in popolo non libero, non guerriero, non illuminato e già intieramente soggiogato dai sacerdoti, non comanda se non la cieca obbedienza; non nomina né pure mai la libertà; ed il tiranno (o sacerdote o laico sia egli) interamente assimila a Dio” (I, 8).

Ecuba procede magnificando e ampliando il potere di Agamennone: gli dice che ora la Legge è nelle sue mani e se quelli che uccidono gli ospiti non pagheranno il fio, non c’è più nessuna equità tra le cose degli uomini - oujk estin oujde;n tw'n ejn ajnqrwvpoi" i[son (805).
Equità comporta anche l’eguaglianza come la libertà (cfr. Leopardi).
Ecuba chiede ad Agamennone di guardare i mali di lei wJ" grafeuv", come un pittore, standone distante ajpostaqeiv" (807), per la prospettiva d’insieme. Quindi la vecchia regina esautorata ribadisce i suoi mali: serva douvlh da regina tuvranno"grau'" a[pai" da eu[pai" (810), poi a[poli" e[rhmo" e dunque ajqliwtavth brotw'n (810 - 811).

Nella fase della democrazia e di rapporti umani decenti la solitudine e la mancanza di patria sono mali; finita l’epoca della democrazia, della parresìa e della libertà la solitudine diventa un bene, la moltitudine un male.
Fuge multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum (Seneca, Ep. 10. 1)
Quid tibi vitandum praecipue existimem quaeris? Turbam (7, 1) cfr. turbo metto in disordine, o[clo", folla, massa; ojclevw, disturbo.
Nihil vero tam damnosum bonis quam in aliquo spectaculo desidēre (…) avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior? Immo vero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui (…) nugis omissis mera homicidia sunt (7, 3) exitus pugnantium mors est (7, 4)
“C’è da dir male anche di chi soffre per la solitudine - io ho sempre e soltanto sofferto per la moltitudine[4].

CONTINUA

[1] B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo , pp. 20 - 21.
[2] Un’anticipazione di questo codice si trova in Esiodo. La prima fase dell’età del ferro è quella in cui visse l’autore che depreca il tempo della propria nascita. Il gevno~ sidhvreon (Opere e giorni, v. 176) è contrassegnato da fatica e miseria e duri affanni. Eppure tra i mali si troveranno misti dei beni. Più avanti però Zeus distruggerà anche questa razza e, nella bassa età del ferro, i beni spariranno del tutto. Allora gli uomini nasceranno con le tempie bianche (poliokrovtafoi, v. 181), i figli non saranno simili al padre, né il padre ai figli, i quali oltraggeranno i genitori che invecchiano, l’ospite non sarà caro all’ospite, né il compagno al compagno, nemmeno il fratello, come prima. Ulisse , p 38 e p. 284.
[4] Ecce homo, Perché sono così accorto, p. 37.

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