Ecuba, accompagnata dal marito Priamo e dal primogenito Ettore (da una ricostruzione di un vaso) |
Euripide, Ecuba, III Episodio vv. 657 - 811
Entra
una qeravpaina dicendo
che Ecuba è la regina con la corona dell’infelicità.
Cfr. la
corona di spine dell’ecce homo N. T., Giovanni, 19, 5. Gesù
uscì forw'n to;n ajkavnqinon stevfanon, portans coronam spineam.
Ma Ecuba
replica. “non mi hai detto nulla di nuovi - ouj kaino;n ei\pa", tu hai rinfacciato a chi già
sa.
L’ancella è
entrata recando il cadavere di Polidoro avvolto in un mantello ma Ecuba crede
che si tratti di Polissena
La qeravpaina dice che si tratta di una
nuova disgrazia ed Ecuba teme che si tratti di Cassandra.
L’ancella
allora scopre il cadavere denudato del morto: sw'ma gumnwqe;n
nekrou' (679).
Ecuba
riconosce Polidoro nel cadavere ma è quasi incredula poiché il ragazzo era in
salvo, ospite in Tracia
Quindi in
versi lirici dice che dà inizio a dei lamenti, un canto bacchico imparato da
poco dal demone vendicatore bakcei'on ejx ajlavstoro" - ajrtimaqh'
novmon - 686 - 687).
Tornano
i trimertri con la visione fissata su mali incredibili, sempre nuovi a[pist j
a[pista, kaina; kaina; devrkomai (689).
da una
radice derk/ - /dork/ - /drak - da cui
deriva il sostantivo dravkwn, il serpente che guarda fisso.
Commento
a devrkomai di Buno
Snell
“devrkesqai significa: avere un
determinato sguardo. Dravkwn il serpente il cui nome è tratto da devrkesqai, viene chiamato così, poiché ha uno
"sguardo" particolare, sinistro. E' detto il "veggente",
non perché ci veda meglio di altri e la sua vista funzioni in modo speciale, ma
perché ciò che colpisce in lui è il guardare. Così la parola devrkesqai indica in Omero non tanto la
funzione dell'occhio, quanto il lampeggiare dello sguardo, percepito da
un'altra persona(...) E' una
maniera molto espressiva di guardare; e che molti passi della poesia di
Omero riacquistino la loro particolare bellezza soltanto quando ci si rende
conto del vero valore di questa parola, lo può dimostrare l'Odissea, V,
84 - 158: (Ulisse) povnton ejp& ajtruvgeton derkevsketo davkrua
leivbwn. devrkesqai significa "guardare con uno sguardo particolare" e risulta
dall'insieme che si tratta di uno sguardo pieno di nostalgia, che
Ulisse, lontano dalla patria, manda là dal mare. Se vogliamo rendere in modo
esauriente tutto il significato della parola derkevsketo ( e dobbiamo rendere anche il
valore dell'iterativo), ecco che diventiamo prolissi e
sentimentali:"sempre guardava con nostalgia..." oppure:"il suo
sguardo sperduto vagava sempre" sul mare. Tutto ciò è contenuto a un
dipresso nella singola parola derkevsketo. E' un verbo che dà un'immagine
precisa di un particolare modo di guardare glotzen (=spalancar
gli occhi) o starren (=fissare), che determinano un
particolare modo di guardare (per lo meno in maniera diversa dalla solita).
Anche dell'aquila si può dire: ojxuvtaton devrketai, "guarda con occhio molto
penetrante", ma anche qui non ci si riferisce tanto alla funzione
dell'occhio, alla quale usiamo pensar noi quando diciamo "guardare
acutamente", "fissare qualcosa con sguardo acuto", quanto ai
raggi dell'occhio, penetranti come i raggi del sole, che Omero chiama
"acuti", poiché attraversano ogni cosa come un'arma affilata"[1].
Mali si
aggiungono ad altri mali dunque e non ci sarà più un giorno senza gemiti e
senza lacrime
Ilcoro
conferma. “Deinj deina;, w\ tavlaina, pavscomen kakav (Ecuba, 693)
Ecuba torna
a cantare e si rivolge al al cadavere del figlio domandando come sia morto, per
quale destino, per mano di quale uomo.
L’ancella
non lo sa, l’ha trovato sulla riva del mare ejp j
ajktai'" qalassivai" (698). Ve lo ha spinto l’onda del mare.
Cfr. le onde
del mare come segno dell’impassibilità e immutabilità del destino in Senilità di
Svevo.
Ecuba
ricorda il brutto sogno che del futuro le squarciò il velame. E dice al coro
che l’assassino è stato “ejmo;" ejmo;" xevno", Qrh/kio"
iJppovta", il mio,
mio ospite, il cavaliete trace (710) cui Priamo lo aveva affidato. La corifea
domanda esterrefatta cruso;n wJ" e[coi ktanwvn; (715), per avere l’oro dopo averlo
ammazzato?.
Ecuba
commenta che sono state perpetrate delle infamie a[rrht j, cose indicibili. Empie al di là
della stupefazione e non sopportabili. Pou' divka xevnwn; dove è finito il diritto dell’ospitalità?
(715).
Nelle Eumenidi
di Eschilo le Erinni che incalzano il matricida, lo minacciano di
trascinarlo tra i grandi peccatori: quanti si sono resi colpevoli verso un dio,
o un ospite o hanno mancato di rispetto ai genitori[2] (vv. 269 - 271). E’ il codice tripartito della
grecità arcaica e classica.
Segue una
maledizione contro il katavrato" ajndrw'n, Polimestore, che ha straziato con
la spada le fragili membra di un fanciullo, spietatamente.
A questo
punto la corifea annuncia l’arrivo di Agamennone (725)
Il re
domanda a Ecuba perché ritardi gli onori funebri alla figlia Polissena che
nessuno ha toccato secondo il desiderio della madre riferito da Taltibio.
hJmei'" me;n ou\n ejw'men oujde; yauvomen, lo abbiamo lasciato lì senza
toccarlo (729). Agamennone manifesta una certa disponibilità alla vecchia
regina sperando che non gli metta contro la figlia Cassandra costretta a essergli
amante (cfr. questo connubio nell’Agamennone di Eschilo e
nelle Troiane).
Quindi l’a[nax domanda chi sia il morto accanto a
lei
Ecuba
rispondendogli, chiede in realtà a se stessa: “povtera
prospevsw govnu - j Agamevmnono" tou'd j h} fevrw sigh'/ kaka; (738).
L’istinto di
conservazione è relativo a Cassandra. Agamennone la incalza per avere una
risposta, ma Ecuba continua a parlare a se stessa: se mi ritiene douvlhn polemivan una schiava nemica e mi
respinge aggiungeremmo del dolore - a[lgo" a]n prosqeivmeq j a[n
(741 - 742).
Risparmiare il dolore è cosa molto umana.
Soffrire in
certi casi non serve a niente (Pavese), mentri in altri insegna - tw'/ pavqei
mavqo".
Agamennone
insiste: “ou[toi pevfuka mavnti" , non sono un indovino tanto
da cercare la strada dei tuoi propositi senza ascoltarli (743 - 744)
Ecuba
domanda ancora a se stessa se forse lei considera Agamennone più malevolo nei
pensieri di quanto non sia, o[nto" oujci; dusmenou'"(745 - 746)
In fondo, se
è benvolo, può considerarla una specie di suocera quale madre di Cassandra.
Agamennone
comincia a spazientirsi e le dice: “se non vuoi che io sappia, nemmeno io
voglio ascoltarti”.
Ecuba ha
riflettuto: Agamennone è l’amante di Cassandra e forse può aiutarla a
vendicarsi contro chi le ha ucciso il figlio. Dunque dice a se stessa: non
potrei vendicare i miei figli senza costui - tou'de a[ter (749 - 750). Quindi ora tolma'n
ajnavgkh (751)
bisogna osare qualunque sia il risultato.
Viene in
mente il (tolmhtevon tavd ', Medea, v. 1051, bisogna osare questo!) di
Medea che vuole evitare la derisione lasciando impuniti i nemici.
“No certo,
non io: addio propositi!
ma che cosa
mi succede? voglio espormi alla derisione
lasciando i
miei nemici impuniti?
Bisogna
osare questo; che debolezza però la mia,
anche solo
l’ammettere nell'anima parole tenere!
Entrate,
figli, in casa”. (Medea, vv. 1048 - 1053)
Ha deciso di
ucciderli
L’audacia
delle donne viene messa tra i deinav nel primo stasimo delle Coefore di
Eschilo, meno noto di quello dell’Antigone.
Vengono
menzionati alcuni aspetti della natura spaventosi, ma non quanto l’audacia e la
sfrontatezza di uomini e donne: “Molte creature tremende nutre la terra”, polla; me;n ga' trevfei - deina;, “angosce di terrori”, deimavtwn a[ch, “e gli abbracci del mare sono
pieni di mostri ostili agli uomini”, povntiaiv t j ajgkavlai knwdavlwn
ajntaivwn brotoi'si plhvqousi, “germogliano anche a mezz’aria sospesi
splendori”, blastou'si kai; pedaivcmioi lampavde" pedavoroi, “gli animali che volano e che camminano sulla terra potrebbero
dire della collera rapida delle tempeste”, ptanav te kai;
pedobavmona kajnemovent j a]n ajgivdwn fravsai kovton (vv. 585 - 592, strofe a).
Vediamo
l’antistrofe a (593 - 601): “Ma
della mente troppo audace dell’uomo chi potrebbe dire”, ajll j uJpevrtolmon ajndro;" frovnhma tiv" levgoi, “e delle
donne sfrontate nel cuore”, kai;
gunaikw'n fresi;n tlhmovnwn, “le passioni temerarie”, pantovlmou" e[rwta", “associate alle folli
cecità dei mortali?” a[taisi sunnovmou"
brotw'n, “i vincoli
coniugali dei mostri e dei mortali li vince l’amore disamore che domina la
donna”, xuzuvgou" d j oJmauliva" qhlukrath;"
ajpevrwto" e[rw" paranika'/ knwdavlwn te kai; brotw'n.
Ecuba ha
preso la risoluzione e si rivolge da supplice ad Agamennone - ijketeuvw se, 752 nominando le ginocchia, la
guancia e la destra felice di lui. Agamennone la conforta dicendole che potrà
avere la libertà. Ma lei vuole essere schiava per tutta la vita, pur di
vendicarsi dei malvagi. Lo scopo principale mette da parte tutto il resto, come
succede nelle persone coscienti di quello che vogliono e risolute.
Agamennone
le domanda quale aiuto gli chieda - tin j ejpavrkesin (758)
Ecuba indica
il cadavere di Polidoro e spiega: tou'ton pot j e[tekon ka[feron
zwvnh" u{po (762) questo
l’ho partorito io e lo portavo sotto la cintura.
Il parto
viene spesso ricordato dalle madri per significare la forza dell’amor
matris che dovrebbe essere genitivo soggettivo e oggettivo come si
legge nell’Ulisse di
Joyce: che elogia l’amore della madre:" Se non fosse stato per lei la maratona del mondo lo
avrebbe schiacciato sotto i piedi, spiaccicata lumaca senza vertebre. Lei aveva
amato quel debole sangue acquoso trasfuso dal proprio…Amor matris , genitivo soggettivo e oggettivo, questa è
forse l'unica cosa vera nella vita. La paternità forse è una finzione legale.
Chi è il padre di un qualsiasi figlio perché qualsiasi figlio debba amarlo o
viceversa (...) Il figlio nascituro guasta la bellezza: nato, porta dolore,
separa l'affetto, accresce le preoccupazioni. E' un maschio: la sua crescita è
il declinare del padre, la sua giovinezza l'invidia del padre, il suo amico il
nemico del padre (...) Che cosa mai li congiunge in natura? Un istante di cieca
foia"[3]. Il rovescio del discorso di Apollo nelle Eumenidi di
Eschilo
Le sofferenze del parto ancora più doloroso della guerra
La Medea di Euripide afferma di preferire la guerra al parto inaugurando un tovpo" che arriva alle soldatesse di
oggi.
“Dicono di
noi che viviamo una vita senza pericoli/ in casa, mentre loro combattono con la
lancia,/ pensando male: poiché io tre volte accanto a uno scudo/ preferirei
stare che partorire una volta sola. (Medea, vv. 248 - 251).
Ennio (239 -
169 a. C.) traduce i versi di Euripide quando fa dire alla sua Medea
exul :"nam ter sub armis malim vitam cernere/quam semel
parĕre”, infatti preferirei decidere la vita sotto le armi tre volte
che partorire una volta sola.
Le
sofferenze del parto sono ricordate nell' Elettra di
Sofocle da Clitennestra quando l’adultera assassina tenta di
giustificarsi per il trattamento riservato al marito il quale non era
incolpevole: egli sacrificò Ifigenia dopo averla seminata, senza avere passato
il travaglio della madre quando la partorì:"oujk i[son
kamw;n ejmoi; - luvph", o{t' e[speir' , w{sper hJ tivktous' ejgwv" ( vv. 531 - 532). Qui il
seminare conta meno del partorire, diversamente dalle Eumenidi di Eschilo.
Più avanti
Clitennestra viene a sapere che Oreste è morto in una gara di carri. La notizia
è falsa ma la madre la crede vera. Quindi chiede a Zeus che cosa significhi - tiv tau'ta; 766.
Se è una
fortuna o una cosa tremenda, ma utile (povteron eujtuch' legw - h] deina; me;n,
kevrdh dev; 766 - 7677).
Comunque è penoso se mi salvo la vita a prezzo dei miei lutti commenta (768).
Il pedagogo
le domanda perché sia così turbata e Clitennestra risponde
“deino;n to; tivktein ejstivn (770), partorire è tremendo, e
di fatto neppure a quella che subisce del male sopravviene odio per i figli che
ha partorito oujde; ga;r kakw'" - pavsconti mi'so" wn
tevkh/ prosgivgnetai (771)
Nelle Fenicie di Euripide la Corifea commenta la pena di Giocasta per
Polinice dicendo:"deino;n gunaixi;n aiJ di' wjdivnwn gonaiv, - kai; filovteknovn pw"
pa'n gunaikei'on gevno"" (vv. 355 - 356), sono terribili per le donne i parti attraverso le
doglie, e tutta la razza femminile è in qualche modo amante dei figli.
Giocasta lo
è stata anche troppo; Medea evidentemente fa eccezione.
Nell' Ifigenia in Aulide la Corifea comprende la pena di Clitennestra per
la figliola, ricordando quale prova terribile sia il parto:"deino;n to;
tivktein kai; fevrei fivltron mevga - pa'sivn te koino;n w{sq' uJperkavmnein tevknwn" (vv. 917 - 918), tremendo è
partorire e comporta una grande magia d’amore comune a tutte, tanto da soffrire
per i figli.
Partorire
dunque è una delle cose tremende (ta; deinav).
Torniamo
alla nostra Ecuba la quale spiega ad Agamennone chi era quel figlio e perché
non si trovava a Troia: era stato mandato lì in Tracia presso Polimestore con
la custodia di oro amarissimo - pikrotavtou crusou' fuvlax (772) era custode dell’oro che
non l’ha custodito in quanto il metallo giallo è il veleno più micidiale.
In Romeo e Giulietta (1596) il
protagonista, comprando un veleno, afferma che l'oro, preso in cambio dallo
speziale, è "worse poison", un veleno peggiore, per l'anima
degli uomini. Esso "commette in questo odioso mondo più assassinî, che non
queste povere misture che tu non puoi vendere; io vendo a te del veleno, tu non
ne hai venduto a me" (V, 1).
Ecuba
continua a informare Agamennone sulla sfortuna del figlio
Il re la
compiange w\ scetliva su; tw' ajmetrhvtwn povnwn (783) o miserevole tu dalle
pene non misurabili.
Cfr. Sofocle, Edipo re:
"Ahimé, innumerevoli - ajnavriqma - infatti
sopporto/le pene e mi sta male tutto/lo stuolo, e non c'è arma della mente con
cui uno si difenderà (vv. 168 - 171)". Diversamente da Edipo che vuole
misurare e commisurare(cfr.vv.73 - 84), il coro non riesce più a contare le
sofferenze. Quando le pene sono innumerevoli non si sa più neanche per quale
ragione si soffre e viene meno la capacità di reagire.
Cesare Pavese nell'ultima
pagina de Il mestiere di vivere, in data 18 agosto 1950, ossia
dieci giorni prima di ammazzarsi, scriveva:"Più il dolore è determinato e
preciso, più l'istinto della vita si dibatte, e cade l'idea del suicidio".
Agamennone le dice che non c’è donna ou[tw
dustuchv" (785) tanto bersagliata dalla tuvch; Ecuba replica: non c’è a meno che tu dica la Tuvch stessa”, nel senso di disgrazia”.
Ecuba chiede dunque al re suv moi genou' - timwro;"
ajndro;", ajnosiwtavtou xevnou (789 - 790)
diventa per me il vendicatore contro l’uomo il più empio degli ospiti che ha
compiuto l’azione più empia dedravken e[rgon ajnosiwvtaton (792)
- dravw è il verbo tragico per eccellenza -
senza temere gli dei inferi né i superi - ou[te
tou;" gh'" nevrqen ou[te tou;" a[nw - deivsa" (791 - 792), lui che spesso aveva condiviso la mia mensa - koinh'"
trapevzh" pollavki" tucw;n ejmoiv (793).
(cfr. la comunione della me nsa, del mangiare insieme e il Leopardi monofavgo" )
e aveva goduto della mia ospitalità, dopo tutto questo ha ucciso mio
figlio. Per giunta non lo ha ritenuto degno di una tomba ma lo ha gettato in
mare - tuvmbou oujk hjxivwsen, ajllj ajfh'ke povntion (797)
Noi siamo schiavi e deboli forse hjmei'" me;n ou\n dou'loiv te
kajsqenei'" i[sw" ma gli dèi sono forti ajll j oiJ
qeoi; sqevnousi e lo è
ancora di più il Novmo" keivnwn kratw'n, la Legge che comanda su gli
dei, e per essa difatti noi crediamo negli dèi - novmw/ ga;r
tou;" qeou;" hJgouvmeqa (800) e viviamo distinguendo il giusto e
l’ingiusto kai; zw'men a[dika kai; divkai j wJrismevnoi (801)
Altri invece
intendono “gli dèi sono potenti e la Legge di quelli comanda”. Io preferisco la
prima interpretazione.
Nel Prometeo
incatenato, il martire sostiene, consolandosene, che nemmeno Zeus
"potrebbe in alcun modo sfuggire alla parte che gli ha dato il destino (th;n peprwmevnhn)"(v.
518).
Destino e
Necessità sono le divinità supreme in questa tragedia e non solo in questa
(cfr. per esempio l’Alcesti di Euripide)
Prometeo
sopporta di sapere il suo destino senza venirne schiacciato, ma sa che gli
uomini non sarebbero capaci di reggere una simile tensione (v. 514): “tevcnh d j
ajnavgkh" ajsqenestevra makrw'/ ”, la conoscenza pratica è molto più debole
della necessità.
Nel
trattato Della tirannide (del 1777) Alfieri distingue la
religione cristiana dalla pagana rilevando l’incompatibilità della prima con la
libertà: “La religion pagana, col suo moltiplicare sterminatamente gli dèi, e
col fare del cielo quasi una repubblica,
e sottomettere Giove stesso alle leggi del fato, e ad altri usi e privilegi
della corte celeste, dovea essere, e fu infatti, assai favorevole al vivere
libero…La cristiana religione, che è quella di quasi tutta la Europa,
non è per se stessa favorevole al viver libero: ma la cattolica religione
riesce incompatibile quasi col viver libero…Ed in fatti, nella pagana
antichità, i Giovi, gli Apollini, le Sibille, gli Oracoli, a gara tutti
comandavano ai diversi popoli e l’amor della patria e la libertà. Ma la
religion cristiana, nata in popolo non libero, non guerriero, non illuminato e
già intieramente soggiogato dai sacerdoti, non comanda se non la cieca
obbedienza; non nomina né pure mai la libertà; ed il tiranno (o sacerdote o
laico sia egli) interamente assimila a Dio” (I, 8).
Ecuba
procede magnificando e ampliando il potere di Agamennone: gli dice che ora la
Legge è nelle sue mani e se quelli che uccidono gli ospiti non pagheranno il
fio, non c’è più nessuna equità tra le cose degli uomini - oujk estin
oujde;n tw'n ejn ajnqrwvpoi" i[son (805).
Equità
comporta anche l’eguaglianza come la libertà (cfr. Leopardi).
Ecuba chiede
ad Agamennone di guardare i mali di lei wJ"
grafeuv", come
un pittore, standone distante ajpostaqeiv" (807), per la prospettiva
d’insieme. Quindi la vecchia regina esautorata ribadisce i suoi mali:
serva douvlh da regina tuvranno"; grau'"
a[pai" da eu[pai" (810), poi a[poli"
e[rhmo" e
dunque ajqliwtavth brotw'n (810 - 811).
Nella fase
della democrazia e di rapporti umani decenti la solitudine e la mancanza di
patria sono mali; finita l’epoca della democrazia, della parresìa e della
libertà la solitudine diventa un bene, la moltitudine un male.
Fuge
multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum (Seneca, Ep. 10. 1)
Quid tibi
vitandum praecipue existimem quaeris? Turbam (7, 1) cfr. turbo metto in
disordine, o[clo", folla, massa; ojclevw, disturbo.
Nihil vero
tam damnosum bonis quam in aliquo spectaculo desidēre (…) avarior redeo,
ambitiosior, luxuriosior? Immo vero crudelior et inhumanior, quia inter homines
fui (…) nugis omissis mera homicidia sunt (7, 3) exitus
pugnantium mors est (7, 4)
“C’è da dir
male anche di chi soffre per la solitudine - io ho sempre e soltanto sofferto per la
moltitudine”[4].
CONTINUA
[2] Un’anticipazione di questo
codice si trova in Esiodo. La prima fase dell’età del ferro è quella in cui
visse l’autore che depreca il tempo della propria nascita. Il gevno~
sidhvreon (Opere
e giorni, v. 176) è contrassegnato da fatica e miseria e duri affanni.
Eppure tra i mali si troveranno misti dei beni. Più avanti però Zeus
distruggerà anche questa razza e, nella bassa età del ferro, i beni spariranno
del tutto. Allora gli uomini nasceranno con le tempie bianche (poliokrovtafoi, v. 181), i figli non saranno
simili al padre, né il padre ai figli, i quali oltraggeranno i genitori che
invecchiano, l’ospite non sarà caro all’ospite, né il compagno al compagno,
nemmeno il fratello, come prima. Ulisse , p 38 e p. 284.
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