NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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mercoledì 8 maggio 2019

Pirandello, "Il fu Mattia Pascal". Parte 2


Renè Magritte, Il pellegrino
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La signorina Caporale intanto si innamora di Adriano.
A lui però piace Adriana e pensa che la biondina potrebbe amarlo. Mattia Pascal era finito lì, nel molino della Stia e Adriano era rinnovato: il mio spirito ridiventò ilare, come nella prima giovinezza; perdette il veleno dell’esperienza (162)
Cerca di essere umano con la signorina Caporale. Ma “la mia affabilità fu nuova esca al suo facile fuoco. E intanto avveniva questo: che alle mie parole, la povera donna impallidiva, mentre Adriana arrossiva” 163.
Cfr. novmo" nell’ Antigone e i tanti sensi di una sola parola.
Le nostre anime si intendono, mentre le nostre persone sono impacciate nel commercio delle parole comuni, nella schiavitù delle esigenze sociali. Adriano e Adriana frequentandosi sentivano un raggio di tepore come una finestra che si apriva su una nuova vita. Decise di farsi operare l’occhio strabico per togliersi lo sconcio connotato così particolare di Mattia Pascal 165
Voleva accordare l’aspetto alle mutate condizioni di spirito.
Entra in ballo il cognato di Adriana, Terenzio Papiano. Era stato il marito di Rita, la defunta sorella di Adriana.
Papiano dava alla voce inflessioni da provetto filodrammatico e in conclusione di discorso baritoneggiava.
Il passaggio da Oreste ad Amleto è la conseguenza di uno strappo nel cielo di carta del teatrino di marionette.
Sentiamo Anselmo Paleari che parla dell’Elettra di Sofocle. Infatti questa teoria non potrebbe applicarsi al matricida dell’Oreste di Euripide che è già non dissimile da Amleto, in quanto tormentato dalla propria intelligenza: a Menelao che gli domanda:"tiv" se ajpovllusin noso"; quale malattia ti distrugge?” Il nipote risponde: "hJ suvnesi", oJvti suvnoida deivn& eijrgasmevno", l'intelligenza, poiché sono consapevole di avere compiuto azioni terribili (vv.395 - 396).
"Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei”
- Non saprei - risposi, stringendomi le spalle.
- Ma è facilissimo, sigor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo.
- E perché?
- Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe calare le braccia. Oreste insomma diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna, consiste in ciò, creda pure, in un buco nel cielo di carta - E se ne andò ciabattando (pp. 172 - 173).
L’immagine della marionetta d’Oreste sconcertata dal buco nel cielo mi rimase tuttavia un pezzo nella mente. A un certo punto: “Beate le marionette - sospirai - su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla! E possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener sé stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato”.
 Il genero di Paleari, Papiano era il prototipo delle marionette. Era pago del cielo di cartapesta, basso basso. La vita per lui è quasi un gioco di abilità. Gode di cacciarsi in ogni intrigo.
Le sue cerimonie erano tutte uncini per tirare Adriano a parlare. Ogni domanda nascondeva un’insidia. Aveva un tratto da vessatore servizievole 175. Era un arcifanfano. Maltrattava e derideva la Caporale, la disgraziata che non meritava molto rispetto per il disordine della sua vita ma nemmeno di essere schernita: la chiamava “Rea Silvia”.
La Caporale piangeva: “donna, brutta e vecchia - esclamò -  tre disgrazie, a cui non c’è rimedio! Perché vivo io?”
Racconta che Papiano vorrebbe sposare Adriana per la dote. La mite era quasi schiava dell’odiosa tirannia di quel cagliostro.
Papiano teneva in casa Paleari anche un fratello balordo, epilettico, Scipione. Papiano fa indagini per smascherare Mattia Pascal. Porta in casa un ubriaco che dice di chiamarsi Meis e di essere cugino di Adriano, poi vi reca un giocatore di professione, uno spagnolo, che Mattia aveva incontrato a Montecarlo. Adriano lo riconobbe dalla voce: “ lo avevo veduto nella sua voce”
Cfr. Edipo a Colono: “ fwnh'/ ga;r ojrw', v 139, alla voce infatti vedo.

Anche per non farsi riconoscere, Adriano si fa operare l’occhio strabico Quaranta giorni al buio189. L’occhio rimase un pochino più grosso dell’altro.
Paleari gli spiega la lanterninosofia. Noi a differenza degli alberi sentiamo vivere. Il sentimento della vita è un lanternino acceso dentro di noi. Il lanternino dà una piccola luce oltre la quale c’è il buio. Siamo lucciole sperdute nel buio della sorte umana. Vediamo altre lucciole. L’illusione, grande mercantessa di vetri colorati, ci fa vedere cose e idee colorate. Anche le idee sono lucciole, lucciole più grandi, lanternoni.
 Il lanternone della virtù pagana era rosso, quello della virtù cristiana di color violetto, colore deprimente.
Talora i lanternoni si spengono e succede uno scompiglio delle lanternine: gran buio e gran confusione. Rimangono le lanternine che i grandi morti hanno lasciato sulle loro tombe. La morte che ci fa tanta paura è forse solo il soffio che spegne in noi questo lanternino. Noi povere lucciole sperdute abbiamo un sentimento sciagurato della morte con orrore del buio.
 Invero noi abbiamo sempre vissuto e sempre vivremo con l’Universo ma non lo sappiamo siccome quel maledetto lumicino piagnucoloso ci fa vedere soltanto quel poco cui esso arriva e ce lo colora a modo suo (195).
In un’altra forma di esistenza faremmo matte risate delle nostre angosce.
La così detta luce ci fa vedere ingannevolmente qua nella così detta vita e ci impedisce di farci vedere oltre. Paleari faceva sedute spiritiche per contattare esseri superiori del piano mentale
All’Adriana, Adriano diceva: sto benone, signorina! Non vedo niente!
Cfr. la novella Va bene!, Edipo e Tiresia.
Papiano lo seccava con lunghe visite in camera, gli magnificava la nipote del suo datore di lavoro, il marchese Giglio d’Auletta, bruna, esile e formosa a un tempo, tutta fuoco, con un paio d’occhi fulminanti e una bocca che strappava baci. Si chiama Pepita e viene invitata a una seduta spiritica in casa Paleari dove porta la cagnetta Minerva e il pittore Bernaldez
Paleari dice che davanti alle sedute spiritiche “la religione drizza l’orecchie d’asino e si adombra, come la scienza”. Adriana aveva paura di quegli esperimenti, ma poi promise: “per domani sera soltanto”.
Papiano prepara la stanza con un lenzuolo che serve da accumulatore della forza misteriosa. Si agiterà e gonfierà come una vela. Si vedranno anche delle luci. La Caporale era entrata in contatto con lo spirito di Max Oliz e improvvisava al pianoforte. Due colpi sì, tre colpi no, quattro buio, sei luce spiega Anselmo Paleari. A Meis pareva di assistere a una commedia mal rappresentata da comici inesperti. Era una farsa insulsa, indegna e sacrilega. Adriano stringeva forte la mano di Adriana. 4 colpi. Buio! Adriano non li aveva sentiti. La Caporale strillò: aveva ricevuto un pugno.
Meis pensa che fosse stato Papiano. Poi altri segni, più leggeri tocchi per il no e il sì. Adriano stringeva la mano di Adriana. Poi la cagnetta Minerva di Pepita che si strofina sulla sedia di Adriano. Insomma una buffonata 214. L’epilettico Scipione Papiano entrava nel buio, non visto e metteva in atto le frodi congegnate con il fratello e con la Caporale. Nel buio Adriano bacia Adriana. A un certo punto si sente battere un pugno e il tavolo si alza. Adriano pensò che fosse il suicida sepolto nel cimitero di Miragno in una tomba con il nome Mattia Pascal.

XV Io e l’ombra mia 219
La mattina seguente Adriano ripensa al bacio. Si chiede come rispondere con i fatti alla promessa. Ma lui era ancora sposato e viveva come un’ombra di uomo. Pensava di avere baciato Adriana con le labbra di un morto. Entra la ragazza e lui la accarezza. Ma è triste pensando di essere morto e ancora ammogliato: il colmo della persecuzione che una donna possa esercitare sul proprio marito. Neanche morto si era liberato della moglie. Era diventato per giunta schiavo delle finzioni e delle menzogne
I fratelli Papiano avevano rubato del denaro a Meis. Ma essendo lui fuori d’ogni legge non poteva denunziare il ladro. Lui per la legge non esisteva. Chiunque poteva derubarlo. Dodici mila lire. Adriana voleva denunciare il cognato e liberare la casa dall’ignominia di quell’uomo.
Adriano era schiacciato dal pensiero della sua assoluta impotenza, della sua nullità. Si sentiva peggio che morto: i morti almeno non possono più morire.

L’ombra
Adriano passeggiando per Roma riflette sulla propria ombra: “Uscii di casa, come un matto. Mi ritrovai dopo un pezzo per via Flaminia, vicino a Ponte Molle. Che ero andato a far lì? Mi guardai attorno; poi gli occhi mi s’affissarono su l’ombra del mio corpo, e rimasi un tratto a contemplarla; infine alzai un piede rabbiosamente su essa. Ma io no, non potevo calpestarla, l’ombra mia. Chi era più ombra di noi due? Io o lei? Due ombre! Là, là per terra; e ciascuno poteva passarci sopra: schiacciarmi la testa, schiacciarmi il cuore: e io, zitto, l’ombra, zitta. L’ombra d’un morto: ecco la mia vita…Ma sì! Così era! Il simbolo, lo spettro della mia vita era quell’ombra: ero io, là per terra, esposto alla mercè dei piedi altrui. Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra per le vie di Roma. Ma aveva un cuore quell’ombra, e non poteva amare, aveva denari, quell’ombra, e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere ch’era la testa di un’ombra e non l’ombra di una testa” pp. 234 - 235.

Il topos letterario della vita come ombra o sogno
Pindaro chiama l'uomo "sogno di ombra" (skia'" o[nar/a[nqrwpo"", Pitica VIII, vv. 95 - 96 ).
Nell'Aiace di Sofocle, Odisseo esprime la convinzione che l'ombra sia la quintessenza dell'uomo e manifesta la compassione del poeta per tutte le creature umane cadute sulle spine della vita:"oJrw' ga;r hJma'" oujde;n o[nta" a[llo plh;n - - ei[dwl j o{soiper zw'men h] kouvfhn skiavn", io infatti vedo che non siamo se non immagini quanti viviamo, o inconsistente ombra (Aiace, vv.125 - 126).
Pulvis et umbra sumus”, polvere e ombra siamo, secondo Orazio (Odi, IV, 7, v. 16).

 Nel Seicento questa idea va di moda, tanto che Calderòn de la Barca intitola il suo capolavoro (del 1635) La vita è sogno, e, nel corso del dramma (I, 2), scrive:" il delitto maggiore dell'uomo è essere nato".
 Prospero in La tempesta [10] afferma:" we are such stuff - as dreams are made on; and our little life –is rounded with sleep” (IV, 1), noi siamo fatti co,n la materia dei sogni, e la nostra breve vita è circondata dal sonno"( Quindi il duca si avvia con la mente alla sua Milano "dove un pensiero su tre, sarà la tomba" (V, 1).
Nel Macbeth il protagonista dice:"Life's but a walking shadow " (V, 5), la vita non è che un'ombra che cammina.

Concludo con Proust:"Ci si accanisce a cercare i rottami inconsistenti d'un sogno, e intanto la nostra vita con la creatura amata continua: la nostra vita, distratta dinanze a cose di cui ignoriamo l'importanza per noi, attenta a quelle che forse non ne hanno, succube di esseri senza nessun rapporto reale con noi, piena di oblii, di lacune, di ansietà vane; la nostra vita simile a un sogno" (La prigioniera, p. 147).

XVI Il ritratto di Minerva 236
Meis torna a casa: Adriana ha denunciato il furto ma lui finge di avere ritrovato i soldi. Adriano non potendo sposare Adriana decide di farsi disprezzare da lei.
Il marchese Giglio d’Auletta si adoperava per la restaurazione del potere temporale dei Papi a Roma e per quella dei Borboni a Napoli.
Vanno nel salone splendidamente arredato in mezzo al quale c’era un cavalletto con un ritratto della cagnetta Minerva. La nipote del marchese, Pepita, aveva un naso aquilino e robusto ed era bella, sfavillante negli occhi, capelli nerissimi, lucidi e ondulati, labbra fini, taglienti, accese. La mite bellezza bionda di Adriana accanto a lei impallidiva. La cagnetta era brutta. Il marchese curvo, quasi spezzato in due, sorrise alla sua stanchezza mortale. Gli occhi erano vivacissimi e ardenti. Parlava con spiccato accento napoletano.
Rimpiangeva i Borboni ed esecrava il filibustiere Garibaldi.
Pepita si lanciò a parlare contro l’Italia e contro Roma, così gonfia di sé per il suo passato. Pure Spagna c’era tambien un Colosseo come il nostro, della stessa antichità, ma loro non se ne curavano. Piedra muerta! Valeva più la plaza de toros e anche il ritratto di Minerva del pittore Bernaldez che lei aspettava e che arrivò. Poi Pepita per punire il pittore del ritardo cominciò a sfoggiare civetteria con Adriano. Adriana ne soffriva.
Scoppia una scenata tra Adriano e il pittore. Il pittore cerca di colpirlo e Adriano vuole sfidarlo a duello ma non ha i testimoni per farlo. Sente di nuovo la sua assoluta impotenza. Insultato, quasi schiaffeggiato sfidato, doveva andarsene via come un vile. Entra nel caffè Aragno schifato di se stesso.
Si presenta come Adriano Meis a un tenente giovane e dice di avere bisogno di due padrini. Il giovane ufficiale chiama un tenente anziano con un paio di baffoni all’insù e la caramella incastrata per forza in un occhio. Era pure lisciato e impomatato. Tirò fuori tutta la materia cavalleresca che conosceva: Adriano doveva andare da un colonnello.
Adriano disse, agitato, che non voleva tante formalità. Ne seguì uno scoppio di risa sguaiate. Meis scappò via con l’anima frustata da quel dileggio.
Chiudevano le botteghe, le porte, le finestre: tutta la vita si rinserrava, si spegneva, ammutoliva, la vita che non aveva più scopo né senso per lui.
E’ il problema di fondo dell’identità: non averla equivale a essere morto.
Si ritrova sul ponte Margherita a osservare il fiume nero nella notte. Si domanda: “là?” Odia Romilda e la madre che lo avevano gettato in tali frangenti Ora, dopo essersi aggirato per due anni come un’ombra in una illusione di vita oltre la morte si sentiva trascinato per i capelli a eseguire la loro condanna. Lo avevano ucciso davvero! Pensò che invece di uccidersi poteva vendicarsi di loro. Del resto non poteva nemmeno uccidersi. Era già morto. Si ritrova in tasca il berrettino da viaggio e pensa di simulare il suicidio di Adriano Meis. Il parapetto, il cappello, il bastone. Una volta per uno. Qua come nella gora del mulino (cfr. p. 92). Non doveva uccidere un morto ma quella folle assurda finzione che lo aveva torturato e straziato per due anni. Via dunque, tristo fantoccio odioso, giù, giù. Annegato come Mattia pascal!
Adriano Meis nato da una menzogna macabra sarebbe finito con un’altra menzogna macabra. Scrisse con il lapis Adriano Meis su un foglietto. Poi c’erano il cappello e il bastone. Infilò nel nastro del cappello il biglietto ripiegato, poi lo posò sul parapetto con il bastone. In testa si mise il berrettino e andò via

XVII Rincarnazione 262
Andò alla stazione in tempo per prendere il treno delle 24, 10 per Pisa
Partito il treno, si sentì sollevato: tornava a essere Mattia Pascal.
Pensa con angoscia all’Adriana: “se io per te non potevo essere vivo, Adriana - gemetti - meglio che tu ora mi sappia morto! Morte le labbra che colsero un bacio dalla tua bocca! Dimentica, dimentica!”
Si fermò qualche giorno a Pisa. Poi pensa di andare a Oneglia da suo fratello Roberto. A Miragno con 52 mila lire poteva vivere discretamente. Si fece tagliare i capelli corti come Mattia Pascal.
La mattina legge un giornale di Roma e trova la notizia del proprio suicidio. Un articolo accennava alla sorpresa e al dolore della famiglia del cavalier Anselmo Paleari caposezione al Ministero della pubblica istruzione ora a riposo dove il Meis abitava molto stimato per il suo riserbo e i suoi modi cortesi” 269
Parte per Oneglia. Va dal fratello. Dopo lo sbalordimmento di Roberto i due fratelli si abbracciano. Dice che ha fatto il morto ma ha capito che non è una bella professione e quindi: mi rifaccio vivo”
cfr. Euripide: nel Frisso (fr. 833) e nel Poliido (fr. 638) c’è una famosa questione: “tiv" d j oi\den eij to; zh'n mevn ejsti katqanei'n, - - to; katqanei'n de; zh'n kavtw nomivzetai;”, chi sa se il vivere sia da un lato essere morti,/ ed essere morti dall’altro lato laggiù non venga considerato vivere?

Mattia matto esclamò Berto, contento del resto
Gli dice che Romilda, sua moglie, ha ripreso marito.
Mattia ride e replica che quello è il colmo della fortuna.
Si era rimaritata con Pomino. Ma il fratello gli dice che tornato il primo marito, il secondo matrimonio non sarà più valido
Mattia si ferma a desinare e parte alle otto di sera.

XVIII Il fu Mattia Pascal 276
Va a Miragno pieno di interrogativi, soprattutto sulla moglie e la suocera. Va a casa Pomino. Era morto il padre di Pomino
Si presenta al giovane Pomino come “Mattia Pascal, dall’altro mondo”. Pomino cadde seduto a terra. La vedova Pescatore accorsa con il lume in mano, cacciò uno strillo acutissimo, da partoriente. Mattia gridò sono vivo, vivo, con gioia feroce
Alla suocera dà della strega e della megera
Arriva Romilda allattando una bambina. Gridò Mattia e cadde tra le braccia di Pomino. La piccina rimase nelle braccia di Mattia. Vagiva con la vocina agra di latte. Con la bimba in braccio l’odio si attenua.
Comunque dice a Pomino che il loro matrimonio è nullo.
La megera prima inveì contro Mattia, poi contro il genero “melenso, sciocco, buono a nulla”. Romilda era ancora bella e Mattia le scocca un bel bacione sulla guancia ma dice a Pomino che gliela lascia. Poi Mattia scherza e dice che corteggerà l’ex moglie.
Quindi domanda: su di’ Romilda chi è più bello? Io o lui?
Parlano tutta la notte, e all’alba Mattia scende nella strada dove si trova ancora una volta sperduto, pur nel paesello natio, solo, senza casa, senza meta. Nessuno mi riconosceva perché nessuno pensava più a me p. 292. Andò nella biblioteca e nemmeno l’amico reverendo don Eligio lo riconobbe lì per lì.
Incontrò Oliva florida e bella con un figlio come lei, attribuito al marito Malagna ma concepito con Mattia.
Il fu va a vivere dalla vecchia zia Scolastica. Dorme nel letto dove è morta la povera mamma e passa gran parte del tempo in biblioteca in compagnia di don Eligio il quale dice che fuori dalla legge e fuori da quelle particolarità liete e tristi che siamo noi non è possibile vivere. Mattia replica dicendo di non essere rientrato nella legge e nemmeno nelle proprie particolarità. Mia moglie è moglie di Pomino e io non so chi sono.
Nel cimitero c’è ancora la lapide con il suo nome. Mattia vi ha portato una corona di fiori e ogni tanto si reca a vedersi morto e sepolto là. Se qualcuno gli chiede chi sia, risponde: “io sono il fu Mattia Pascal”. 295 fine del romanzo

Avvertenza sugli scrupoli della fantasia
La vita che è ricca di assurdità non si cura della verosimiglianza. Le assurdità della vita non hanno bisogno di parere verosimili perché sono vere. Non si può tacciare di inverosimiglianza l’arte in nome della vita. Non esiste l’uomo ma gli uomini. C’è una varietà di uomini capaci di commettere assurdità che non hanno bisogno di apparire verosimili poiché sono vere.
Contro i critici i quali ritengono che umanità consista più nel sentimento che nel ragionamento e lo accusano di presentare personaggi in preda al ragionamento, risponde che l’uomo tanto appassionatamente ragiona (o sragiona, il che è lo stesso) quando soffre perché vuole vedere la radice delle sue sofferenze e chi gliele ha date, mentre quando gode si piglia il godimento e non ragiona. Per quei critici chi soffre e ragiona non è umano, perché pare che chi soffra debba essere soltanto bestia.
Lo accusano di cerebralità e paradossale inverosimiglianza.
Ma un critico anomalo ha domandato che cosa è la vita normale.
E’ solo un sistema di rapporti che noi scegliamo nel caos degli eventi quotidiani e arbitrariamente qualifichiamo normale.
Anche questo critico del resto giudica negativamente l’opera di Pirandello perché non saprebbe dare un senso universalmente umano alle sue favole.
Ma ogni realtà d’oggi è destinata a scoprirsi quale illusione domani

Coro
Di molti casi Zeus è dispensatore sull’Olimpo
molti eventi in modo insperato compiono gli dèi;
e i fatti aspettati non vennero portati a compimento,
mentre per quelli inaspettati un dio trovò la via.
Così è andata a finire questa azione (Medea, 1415 - 1419). 

 La conclusione dell'Alcesti, dell'Andromaca, dell'Elena e delle Baccanti è uguale a questa della Medea, tranne che per il primo verso degli ultimi cinque : " pollai; morfai; tw'n daimonivwn" (Alcesti , v. 1159; Andromaca, v. 1284; Elena, v. 1688; Baccanti, v. 1388), molte sono le forme della divinità". L'Ippolito si conclude con la constatazione, da parte della Corifea che su Trezene è caduto, ajevlptw~ (v. 1463) inaspettatamente un dolore comune che provocherà un fluire continuo di lacrime.
   
A volte le persone e i personaggi scoprono il loro nudo volto individuale sotto la maschera che li rendeva marionette di sé stessi.
Non sopportano la maschera e la rompono.

Non hominibus tantum sed rebus persona demenda est et reddenda facies sua (Seneca, Ep., 24, 13)
 Cfr. Lucrezio: “Quo magis in dubiis hominem spectare periclis/convenit adversisque in rebus noscere qui sit;/nam verae voces tum demum pectore ab imo/eliciuntur <et> eripitur persona, manet res" (De rerum natura, III, 55 - 58), tanto più è necessario provare la persona nei pericoli rischiosi e conoscerne la qualità nelle situazioni sfavorevoli; infatti le parole autentiche allora finalmente escono dal fondo del cuore e si strappa la maschera, rimane la sostanza.

Ci mettiamo o ci mettono la maschera per il gioco delle parti, e fino a un certo punto non sappiamo chi siamo. Su di noi viene fatta una costruzione arzigogolata, un macchinismo in cui ciascuno di noi è la marionetta di se stesso, poi alla fine c’è il calcio che manda all’aria tutta la baracca.
La maschera ha i suoi difetti finché non si scopre nuda
Il romanzo venne accusato di inverosimiglianza ma Pirandello riferisce un articolo del “Corriere della sera” del 27 marzo 1920 dove si fa la cronaca di un fatto reale molto simile a quello inventato.
La vita dunque è capace di reali inverosimiglianze. La vita, senza saperlo copia l’arte.

E' opportuno a questo punto un excursus su Oscar Wilde il quale in La decadenza della menzogna (del 1889 scrive: "Sicuro. Per paradossale che possa sembrare - e i paradossi sono sempre cose pericolose - non è meno vero: la vita imita l'arte assai più di quanto l'arte imiti la vita (...) Un grande artista inventa un tipo, e la vita tenta di copiarlo, di riprodurlo in forma popolare (...) I greci, con il loro rapido istinto artistico, capirono questo, e mettevano nella stanza della sposa la statua di Ermes o di Apollo, affinché ella potesse generare figli altrettanto ben formati delle opere d'arte che contemplava nell'estasi o nel dolore. Sapevano che la vita non solo guadagna dall'arte la spiritualità, la profondità del pensiero e del sentimento, il turbamento o la pace dell'anima, ma che essa può formarsi sulle stesse linee e colori dell'arte, e può riprodurre la dignità di Fidia come la grazia di Prassitele (...) Schopenhauer ha analizzato il pessimismo che caratterizza il pensiero moderno, ma Amleto lo ha inventato. Il mondo è diventato triste perché una volta una marionetta fu malinconica.
Il nichilista, quello strano martire che non ha fede, che va al patibolo senza entusiasmo, e muore per quello in cui non crede, è un prodotto puramente letterario. Esso fu inventato da Turgenev e completato da Dostoevskij"[11] In Oscar Wilde, Opere, Mondadori, 1982, pp.222 - 224. 





[10] Del 1612.
[11] In Oscar Wilde, Opere, Mondadori, 1982, pp.222 - 224.

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