Renè Magritte, Il pellegrino |
La
signorina Caporale intanto si innamora di Adriano.
A lui
però piace Adriana e pensa che la biondina potrebbe amarlo. Mattia Pascal era
finito lì, nel molino della Stia e Adriano era rinnovato: il mio spirito
ridiventò ilare, come nella prima giovinezza; perdette il veleno dell’esperienza
(162)
Cerca di
essere umano con la signorina Caporale. Ma “la mia affabilità fu nuova esca al
suo facile fuoco. E intanto avveniva questo: che alle mie parole, la povera
donna impallidiva, mentre Adriana arrossiva” 163.
Cfr. novmo" nell’ Antigone e i tanti sensi di una
sola parola.
Le
nostre anime si intendono, mentre le nostre persone sono impacciate nel
commercio delle parole comuni, nella schiavitù delle esigenze sociali. Adriano
e Adriana frequentandosi sentivano un raggio di tepore come una finestra che si
apriva su una nuova vita. Decise di farsi operare l’occhio strabico per
togliersi lo sconcio connotato così particolare di Mattia Pascal 165
Voleva
accordare l’aspetto alle mutate condizioni di spirito.
Entra in
ballo il cognato di Adriana, Terenzio Papiano. Era stato il marito di Rita, la
defunta sorella di Adriana.
Papiano
dava alla voce inflessioni da provetto filodrammatico e in conclusione di
discorso baritoneggiava.
Il
passaggio da Oreste ad Amleto è la conseguenza di uno strappo nel cielo di
carta del teatrino di marionette.
Sentiamo
Anselmo Paleari che parla dell’Elettra di
Sofocle. Infatti questa teoria non potrebbe applicarsi al matricida dell’Oreste di Euripide che è già non
dissimile da Amleto, in quanto tormentato dalla propria intelligenza: a
Menelao che gli domanda:"tiv"
se ajpovllusin noso"; quale
malattia ti distrugge?” Il nipote risponde: "hJ suvnesi", oJvti suvnoida deivn& eijrgasmevno", l'intelligenza, poiché sono consapevole di
avere compiuto azioni terribili (vv.395 - 396).
"Se,
nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è
per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno
strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei”
- Non
saprei - risposi, stringendomi le spalle.
- Ma è
facilissimo, sigor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel
buco nel cielo.
- E
perché?
- Mi
lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe
seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a
quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella
scena, e si sentirebbe calare le braccia. Oreste insomma diventerebbe Amleto.
Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna, consiste
in ciò, creda pure, in un buco nel cielo di carta - E se ne andò ciabattando
(pp. 172 - 173).
L’immagine
della marionetta d’Oreste sconcertata dal buco nel cielo mi rimase tuttavia un
pezzo nella mente. A un certo punto: “Beate le marionette - sospirai - su le
cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità
angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla! E possono
attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener sé
stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri,
poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto
proporzionato”.
Il
genero di Paleari, Papiano era il prototipo delle marionette. Era pago del
cielo di cartapesta, basso basso. La vita per lui è quasi un gioco di abilità.
Gode di cacciarsi in ogni intrigo.
Le sue
cerimonie erano tutte uncini per tirare Adriano a parlare. Ogni domanda
nascondeva un’insidia. Aveva un tratto da vessatore servizievole 175. Era un
arcifanfano. Maltrattava e derideva la Caporale, la disgraziata che non
meritava molto rispetto per il disordine della sua vita ma nemmeno di essere
schernita: la chiamava “Rea Silvia”.
La
Caporale piangeva: “donna, brutta e vecchia - esclamò - tre disgrazie, a cui non c’è rimedio! Perché
vivo io?”
Racconta
che Papiano vorrebbe sposare Adriana per la dote. La mite era quasi schiava
dell’odiosa tirannia di quel cagliostro.
Papiano
teneva in casa Paleari anche un fratello balordo, epilettico, Scipione. Papiano
fa indagini per smascherare Mattia Pascal. Porta in casa un ubriaco che dice di
chiamarsi Meis e di essere cugino di Adriano, poi vi reca un giocatore di
professione, uno spagnolo, che Mattia aveva incontrato a Montecarlo. Adriano lo
riconobbe dalla voce: “ lo avevo veduto nella sua voce”
Cfr. Edipo a Colono: “ fwnh'/ ga;r ojrw', v 139, alla voce infatti vedo.
Anche
per non farsi riconoscere, Adriano si fa operare l’occhio strabico Quaranta
giorni al buio189. L’occhio rimase un pochino più grosso dell’altro.
Paleari
gli spiega la lanterninosofia.
Noi a differenza degli alberi sentiamo vivere. Il sentimento della vita è un
lanternino acceso dentro di noi. Il lanternino dà una piccola luce oltre la
quale c’è il buio. Siamo lucciole sperdute nel buio della sorte umana. Vediamo
altre lucciole. L’illusione, grande mercantessa di vetri colorati, ci fa vedere
cose e idee colorate. Anche le idee sono lucciole, lucciole più grandi,
lanternoni.
Il
lanternone della virtù pagana era rosso, quello della virtù cristiana di color
violetto, colore deprimente.
Talora i
lanternoni si spengono e succede uno scompiglio delle lanternine: gran buio e
gran confusione. Rimangono le lanternine che i grandi morti hanno lasciato
sulle loro tombe. La morte che ci fa tanta paura è forse solo il soffio che
spegne in noi questo lanternino. Noi povere lucciole sperdute abbiamo un
sentimento sciagurato della morte con orrore del buio.
Invero
noi abbiamo sempre vissuto e sempre vivremo con l’Universo ma non lo sappiamo
siccome quel maledetto lumicino piagnucoloso ci fa vedere soltanto quel poco
cui esso arriva e ce lo colora a modo suo (195).
In un’altra
forma di esistenza faremmo matte risate delle nostre angosce.
La così
detta luce ci fa vedere ingannevolmente qua nella così detta vita e ci
impedisce di farci vedere oltre. Paleari faceva sedute spiritiche per
contattare esseri superiori del piano mentale
All’Adriana,
Adriano diceva: sto benone, signorina! Non vedo niente!
Cfr. la
novella Va bene!, Edipo e
Tiresia.
Papiano
lo seccava con lunghe visite in camera, gli magnificava la nipote del suo
datore di lavoro, il marchese Giglio d’Auletta, bruna, esile e formosa a un
tempo, tutta fuoco, con un paio d’occhi fulminanti e una bocca che strappava
baci. Si chiama Pepita e viene invitata a una seduta spiritica in casa Paleari
dove porta la cagnetta Minerva e il pittore Bernaldez
Paleari
dice che davanti alle sedute spiritiche “la religione drizza l’orecchie d’asino
e si adombra, come la scienza”. Adriana aveva paura di quegli esperimenti, ma
poi promise: “per domani sera soltanto”.
Papiano
prepara la stanza con un lenzuolo che serve da accumulatore della forza misteriosa.
Si agiterà e gonfierà come una vela. Si vedranno anche delle luci. La Caporale
era entrata in contatto con lo spirito di Max Oliz e improvvisava al
pianoforte. Due colpi sì, tre colpi no, quattro buio, sei luce spiega Anselmo
Paleari. A Meis pareva di assistere a una commedia mal rappresentata da comici
inesperti. Era una farsa insulsa, indegna e sacrilega. Adriano stringeva forte
la mano di Adriana. 4 colpi. Buio! Adriano non li aveva sentiti. La Caporale
strillò: aveva ricevuto un pugno.
Meis
pensa che fosse stato Papiano. Poi altri segni, più leggeri tocchi per il no e
il sì. Adriano stringeva la mano di Adriana. Poi la cagnetta Minerva di Pepita
che si strofina sulla sedia di Adriano. Insomma una buffonata 214. L’epilettico
Scipione Papiano entrava nel buio, non visto e metteva in atto le frodi
congegnate con il fratello e con la Caporale. Nel buio Adriano bacia Adriana. A
un certo punto si sente battere un pugno e il tavolo si alza. Adriano pensò che
fosse il suicida sepolto nel cimitero di Miragno in una tomba con il nome
Mattia Pascal.
XV Io e
l’ombra mia 219
La
mattina seguente Adriano ripensa al bacio. Si chiede come rispondere con i
fatti alla promessa. Ma lui era ancora sposato e viveva come un’ombra di uomo.
Pensava di avere baciato Adriana con le labbra di un morto. Entra la ragazza e
lui la accarezza. Ma è triste pensando di essere morto e ancora ammogliato: il
colmo della persecuzione che una donna possa esercitare sul proprio marito.
Neanche morto si era liberato della moglie. Era diventato per giunta schiavo
delle finzioni e delle menzogne
I
fratelli Papiano avevano rubato del denaro a Meis. Ma essendo lui fuori d’ogni
legge non poteva denunziare il ladro. Lui per la legge non esisteva. Chiunque
poteva derubarlo. Dodici mila lire. Adriana voleva denunciare il cognato e
liberare la casa dall’ignominia di quell’uomo.
Adriano
era schiacciato dal pensiero della sua assoluta impotenza, della sua nullità.
Si sentiva peggio che morto: i morti almeno non possono più morire.
L’ombra
Adriano
passeggiando per Roma riflette sulla propria ombra: “Uscii di casa, come un
matto. Mi ritrovai dopo un pezzo per via Flaminia, vicino a Ponte Molle. Che
ero andato a far lì? Mi guardai attorno; poi gli occhi mi s’affissarono su l’ombra
del mio corpo, e rimasi un tratto a contemplarla; infine alzai un piede
rabbiosamente su essa. Ma io no, non potevo calpestarla, l’ombra mia. Chi era
più ombra di noi due? Io o lei? Due ombre! Là, là per terra; e ciascuno poteva
passarci sopra: schiacciarmi la testa, schiacciarmi il cuore: e io, zitto, l’ombra,
zitta. L’ombra d’un morto: ecco la mia vita…Ma sì! Così era! Il simbolo, lo
spettro della mia vita era quell’ombra: ero io, là per terra, esposto alla mercè
dei piedi altrui. Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra per le vie di Roma.
Ma aveva un cuore quell’ombra, e non poteva amare, aveva denari, quell’ombra, e
ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere ch’era
la testa di un’ombra e non l’ombra di una testa” pp. 234 - 235.
Il topos
letterario della vita come ombra o sogno
Pindaro chiama
l'uomo "sogno di ombra" (skia'"
o[nar/a[nqrwpo"", Pitica VIII,
vv. 95 - 96 ).
Nell'Aiace di Sofocle, Odisseo esprime
la convinzione che l'ombra sia la quintessenza dell'uomo e manifesta la
compassione del poeta per tutte le creature umane cadute sulle spine della
vita:"oJrw' ga;r hJma'"
oujde;n o[nta" a[llo plh;n - - ei[dwl j o{soiper zw'men h] kouvfhn skiavn", io infatti vedo che non siamo se non
immagini quanti viviamo, o inconsistente ombra (Aiace, vv.125 - 126).
“Pulvis et umbra sumus”, polvere e ombra
siamo, secondo Orazio (Odi, IV, 7, v.
16).
Nel
Seicento questa idea va di moda, tanto che Calderòn de la Barca intitola
il suo capolavoro (del 1635) La vita
è sogno, e, nel corso del dramma (I, 2), scrive:" il delitto maggiore
dell'uomo è essere nato".
Prospero in La tempesta [10] afferma:" we are such stuff - as dreams are made on; and our little life –is
rounded with sleep” (IV, 1), noi siamo fatti co,n la materia dei sogni, e
la nostra breve vita è circondata dal sonno"( Quindi il duca si avvia con
la mente alla sua Milano "dove un pensiero su tre, sarà la tomba" (V,
1).
Nel Macbeth il protagonista dice:"Life's but a walking shadow " (V, 5), la vita non è
che un'ombra che cammina.
Concludo
con Proust:"Ci si accanisce a cercare i rottami inconsistenti d'un sogno,
e intanto la nostra vita con la creatura amata continua: la nostra vita,
distratta dinanze a cose di cui ignoriamo l'importanza per noi, attenta a
quelle che forse non ne hanno, succube di esseri senza nessun rapporto reale
con noi, piena di oblii, di lacune, di ansietà vane; la nostra vita simile a un
sogno" (La prigioniera, p. 147).
XVI Il
ritratto di Minerva 236
Meis
torna a casa: Adriana ha denunciato il furto ma lui finge di avere ritrovato i
soldi. Adriano non potendo sposare Adriana decide di farsi disprezzare da lei.
Il
marchese Giglio d’Auletta si adoperava per la restaurazione del potere
temporale dei Papi a Roma e per quella dei Borboni a Napoli.
Vanno
nel salone splendidamente arredato in mezzo al quale c’era un cavalletto con un
ritratto della cagnetta Minerva. La nipote del marchese, Pepita, aveva un naso
aquilino e robusto ed era bella, sfavillante negli occhi, capelli nerissimi,
lucidi e ondulati, labbra fini, taglienti, accese. La mite bellezza bionda di
Adriana accanto a lei impallidiva. La cagnetta era brutta. Il marchese curvo,
quasi spezzato in due, sorrise alla sua stanchezza mortale. Gli occhi erano
vivacissimi e ardenti. Parlava con spiccato accento napoletano.
Rimpiangeva
i Borboni ed esecrava il filibustiere Garibaldi.
Pepita
si lanciò a parlare contro l’Italia e contro Roma, così gonfia di sé per il suo
passato. Pure Spagna c’era tambien un
Colosseo come il nostro, della stessa antichità, ma loro non se ne
curavano. Piedra muerta! Valeva
più la plaza de toros e
anche il ritratto di Minerva del pittore Bernaldez che lei aspettava e che
arrivò. Poi Pepita per punire il pittore del ritardo cominciò a sfoggiare
civetteria con Adriano. Adriana ne soffriva.
Scoppia
una scenata tra Adriano e il pittore. Il pittore cerca di colpirlo e Adriano
vuole sfidarlo a duello ma non ha i testimoni per farlo. Sente di nuovo la sua
assoluta impotenza. Insultato, quasi schiaffeggiato sfidato, doveva andarsene
via come un vile. Entra nel caffè Aragno schifato di se stesso.
Si
presenta come Adriano Meis a un tenente giovane e dice di avere bisogno di due
padrini. Il giovane ufficiale chiama un tenente anziano con un paio di baffoni
all’insù e la caramella incastrata per forza in un occhio. Era pure lisciato e
impomatato. Tirò fuori tutta la materia cavalleresca che conosceva: Adriano
doveva andare da un colonnello.
Adriano
disse, agitato, che non voleva tante formalità. Ne seguì uno scoppio di risa
sguaiate. Meis scappò via con l’anima frustata da quel dileggio.
Chiudevano
le botteghe, le porte, le finestre: tutta la vita si rinserrava, si spegneva,
ammutoliva, la vita che non aveva più scopo né senso per lui.
E’ il
problema di fondo dell’identità: non averla equivale a essere morto.
Si
ritrova sul ponte Margherita a osservare il fiume nero nella notte. Si domanda:
“là?” Odia Romilda e la madre che lo avevano gettato in tali frangenti Ora,
dopo essersi aggirato per due anni come un’ombra in una illusione di vita oltre
la morte si sentiva trascinato per i capelli a eseguire la loro condanna. Lo
avevano ucciso davvero! Pensò che invece di uccidersi poteva vendicarsi di
loro. Del resto non poteva nemmeno uccidersi. Era già morto. Si ritrova in
tasca il berrettino da viaggio e pensa di simulare il suicidio di Adriano Meis.
Il parapetto, il cappello, il bastone. Una volta per uno. Qua come nella gora
del mulino (cfr. p. 92). Non doveva uccidere un morto ma quella folle assurda finzione
che lo aveva torturato e straziato per due anni. Via dunque, tristo fantoccio
odioso, giù, giù. Annegato come Mattia pascal!
Adriano
Meis nato da una menzogna macabra sarebbe finito con un’altra menzogna macabra.
Scrisse con il lapis Adriano Meis su un foglietto. Poi c’erano il cappello e il
bastone. Infilò nel nastro del cappello il biglietto ripiegato, poi lo posò sul
parapetto con il bastone. In testa si mise il berrettino e andò via
XVII
Rincarnazione 262
Andò
alla stazione in tempo per prendere il treno delle 24, 10 per Pisa
Partito
il treno, si sentì sollevato: tornava a essere Mattia Pascal.
Pensa
con angoscia all’Adriana: “se io per te non potevo essere vivo, Adriana -
gemetti - meglio che tu ora mi sappia morto! Morte le labbra che colsero un
bacio dalla tua bocca! Dimentica, dimentica!”
Si fermò
qualche giorno a Pisa. Poi pensa di andare a Oneglia da suo fratello Roberto. A
Miragno con 52 mila lire poteva vivere discretamente. Si fece tagliare i
capelli corti come Mattia Pascal.
La
mattina legge un giornale di Roma e trova la notizia del proprio suicidio. Un
articolo accennava alla sorpresa e al dolore della famiglia del cavalier
Anselmo Paleari caposezione al Ministero della pubblica istruzione ora a riposo
dove il Meis abitava molto stimato per il suo riserbo e i suoi modi cortesi”
269
Parte
per Oneglia. Va dal fratello. Dopo lo sbalordimmento di Roberto i due fratelli
si abbracciano. Dice che ha fatto il morto ma ha capito che non è una bella
professione e quindi: mi rifaccio vivo”
cfr.
Euripide: nel Frisso (fr.
833) e nel Poliido (fr.
638) c’è una famosa questione: “tiv"
d j oi\den eij to; zh'n mevn ejsti katqanei'n, - - to; katqanei'n de; zh'n
kavtw nomivzetai;”, chi
sa se il vivere sia da un lato essere morti,/ ed essere morti dall’altro lato
laggiù non venga considerato vivere?
Mattia
matto esclamò Berto, contento del resto
Gli dice
che Romilda, sua moglie, ha ripreso marito.
Mattia
ride e replica che quello è il colmo della fortuna.
Si era
rimaritata con Pomino. Ma il fratello gli dice che tornato il primo marito, il
secondo matrimonio non sarà più valido
Mattia
si ferma a desinare e parte alle otto di sera.
XVIII Il
fu Mattia Pascal 276
Va a
Miragno pieno di interrogativi, soprattutto sulla moglie e la suocera. Va a
casa Pomino. Era morto il padre di Pomino
Si
presenta al giovane Pomino come “Mattia Pascal, dall’altro mondo”. Pomino cadde
seduto a terra. La vedova Pescatore accorsa con il lume in mano, cacciò uno
strillo acutissimo, da partoriente. Mattia gridò sono vivo, vivo, con gioia
feroce
Alla
suocera dà della strega e della megera
Arriva
Romilda allattando una bambina. Gridò Mattia e cadde tra le braccia di Pomino.
La piccina rimase nelle braccia di Mattia. Vagiva con la vocina agra di latte.
Con la bimba in braccio l’odio si attenua.
Comunque
dice a Pomino che il loro matrimonio è nullo.
La
megera prima inveì contro Mattia, poi contro il genero “melenso, sciocco, buono
a nulla”. Romilda era ancora bella e Mattia le scocca un bel bacione sulla
guancia ma dice a Pomino che gliela lascia. Poi Mattia scherza e dice che
corteggerà l’ex moglie.
Quindi
domanda: su di’ Romilda chi è più bello? Io o lui?
Parlano
tutta la notte, e all’alba Mattia scende nella strada dove si trova ancora una
volta sperduto, pur nel paesello natio, solo, senza casa, senza meta. Nessuno
mi riconosceva perché nessuno pensava più a me p. 292. Andò nella biblioteca e
nemmeno l’amico reverendo don Eligio lo riconobbe lì per lì.
Incontrò
Oliva florida e bella con un figlio come lei, attribuito al marito Malagna ma
concepito con Mattia.
Il fu va
a vivere dalla vecchia zia Scolastica. Dorme nel letto dove è morta la povera
mamma e passa gran parte del tempo in biblioteca in compagnia di don Eligio il
quale dice che fuori dalla legge e fuori da quelle particolarità liete e tristi
che siamo noi non è possibile vivere. Mattia replica dicendo di non essere
rientrato nella legge e nemmeno nelle proprie particolarità. Mia moglie è
moglie di Pomino e io non so chi sono.
Nel
cimitero c’è ancora la lapide con il suo nome. Mattia vi ha portato una corona
di fiori e ogni tanto si reca a vedersi morto e sepolto là. Se qualcuno gli
chiede chi sia, risponde: “io sono il fu Mattia Pascal”. 295 fine del romanzo
Avvertenza
sugli scrupoli della fantasia
La vita
che è ricca di assurdità non si cura della verosimiglianza. Le assurdità della
vita non hanno bisogno di parere verosimili perché sono vere. Non si può
tacciare di inverosimiglianza l’arte in nome della vita. Non esiste l’uomo ma
gli uomini. C’è una varietà di uomini capaci di commettere assurdità che non
hanno bisogno di apparire verosimili poiché sono vere.
Contro i
critici i quali ritengono che umanità consista più nel sentimento che nel
ragionamento e lo accusano di presentare personaggi in preda al ragionamento,
risponde che l’uomo tanto appassionatamente ragiona (o sragiona, il che è lo
stesso) quando soffre perché vuole vedere la radice delle sue sofferenze e chi
gliele ha date, mentre quando gode si piglia il godimento e non ragiona. Per
quei critici chi soffre e ragiona non è umano, perché pare che chi soffra debba
essere soltanto bestia.
Lo
accusano di cerebralità e paradossale inverosimiglianza.
Ma un
critico anomalo ha domandato che cosa è la vita normale.
E’ solo
un sistema di rapporti che noi scegliamo nel caos degli eventi quotidiani e
arbitrariamente qualifichiamo normale.
Anche
questo critico del resto giudica negativamente l’opera di Pirandello perché non
saprebbe dare un senso universalmente umano alle sue favole.
Ma ogni
realtà d’oggi è destinata a scoprirsi quale illusione domani
Coro
Di molti
casi Zeus è dispensatore sull’Olimpo
molti
eventi in modo insperato compiono gli dèi;
e i
fatti aspettati non vennero portati a compimento,
mentre
per quelli inaspettati un dio trovò la via.
Così è
andata a finire questa azione (Medea,
1415 - 1419).
La
conclusione dell'Alcesti, dell'Andromaca, dell'Elena e delle Baccanti è
uguale a questa della Medea, tranne
che per il primo verso degli ultimi cinque : " pollai; morfai; tw'n daimonivwn" (Alcesti ,
v. 1159; Andromaca, v.
1284; Elena, v. 1688; Baccanti, v. 1388), molte sono le forme
della divinità". L'Ippolito si
conclude con la constatazione, da parte della Corifea che su Trezene è
caduto, ajevlptw~ (v. 1463) inaspettatamente un dolore
comune che provocherà un fluire continuo di lacrime.
A volte
le persone e i personaggi scoprono il loro nudo volto individuale sotto la
maschera che li rendeva marionette di sé stessi.
Non
sopportano la maschera e la rompono.
Non hominibus tantum sed rebus persona demenda
est et reddenda facies sua (Seneca, Ep., 24, 13)
Cfr.
Lucrezio: “Quo magis in dubiis hominem
spectare periclis/convenit adversisque in rebus noscere qui sit;/nam verae
voces tum demum pectore ab imo/eliciuntur <et> eripitur persona, manet
res" (De rerum natura, III,
55 - 58), tanto più è necessario provare la persona nei pericoli rischiosi e
conoscerne la qualità nelle situazioni sfavorevoli; infatti le parole
autentiche allora finalmente escono dal fondo del cuore e si strappa la
maschera, rimane la sostanza.
Ci
mettiamo o ci mettono la maschera per il gioco delle parti, e fino a un certo
punto non sappiamo chi siamo. Su di noi viene fatta una costruzione
arzigogolata, un macchinismo in cui ciascuno di noi è la marionetta di se
stesso, poi alla fine c’è il calcio che manda all’aria tutta la baracca.
La
maschera ha i suoi difetti finché non si scopre nuda
Il
romanzo venne accusato di inverosimiglianza ma Pirandello riferisce un articolo
del “Corriere della sera” del 27 marzo 1920 dove si fa la cronaca di un fatto
reale molto simile a quello inventato.
La vita
dunque è capace di reali inverosimiglianze. La vita, senza saperlo copia l’arte.
E'
opportuno a questo punto un excursus su Oscar Wilde il quale in La decadenza della menzogna (del 1889
scrive: "Sicuro. Per paradossale che possa sembrare - e i paradossi sono
sempre cose pericolose - non è meno vero: la vita imita l'arte assai più di quanto
l'arte imiti la vita (...) Un grande artista inventa un tipo, e la vita tenta
di copiarlo, di riprodurlo in forma popolare (...) I greci, con il loro rapido
istinto artistico, capirono questo, e mettevano nella stanza della sposa la
statua di Ermes o di Apollo, affinché ella potesse generare figli altrettanto
ben formati delle opere d'arte che contemplava nell'estasi o nel dolore.
Sapevano che la vita non solo guadagna dall'arte la spiritualità, la profondità
del pensiero e del sentimento, il turbamento o la pace dell'anima, ma che essa
può formarsi sulle stesse linee e colori dell'arte, e può riprodurre la dignità
di Fidia come la grazia di Prassitele (...) Schopenhauer ha analizzato il
pessimismo che caratterizza il pensiero moderno, ma Amleto lo ha inventato. Il
mondo è diventato triste perché una volta una marionetta fu malinconica.
Il
nichilista, quello strano martire che non ha fede, che va al patibolo senza
entusiasmo, e muore per quello in cui non crede, è un prodotto puramente
letterario. Esso fu inventato da Turgenev e completato da Dostoevskij"[11] In Oscar Wilde, Opere, Mondadori, 1982, pp.222 - 224.
[10] Del 1612.
[11] In Oscar Wilde, Opere, Mondadori, 1982, pp.222 - 224.
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