giovedì 2 maggio 2019

Italo Svevo. L'uomo e l'inetto. 3 parte

 
John William Godward, Yes Or No
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Excursus "Odi et amo"
Molto noto è il distico elegiaco del carme 85 di Catullo: "Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris./Nescio, sed fieri sentio et excrucior.", odio e amo. Forse tu domandi come faccia questo. Non so, ma sento che accade e mi tormento. "Nota l'antitesi fra faciam e fieri: quello che accade non è un qualcosa che Catullo sia in grado di controllare, ma qualcosa che accade e che lui può solo subire, sentire nelle sue conseguenze dolorose (non a caso il poeta dice excrucior , utilizzando una forma medio - passiva, anziché usare il riflessivo me excrucio , che porrebbe con maggior vigore l'accento sul suo ruolo di soggetto attivo). L'analisi razionale non conduce al dominio dei sentimenti ma solo alla loro osservazione, all'ammissione di trovarsi in loro balia"[6].
 L'ossimòro condensa la contraddizione lacerante del poeta che dissocia l'amare dal bene velle: la componente sensuale da quella affettiva, come chiarisce bene il distico finale del carme 72 :"Qui potis est?, inquis. Quod amantem iniuria talis/ cogit amare magis, sed bene velle minus "(vv. 7 - 8), come può essere?, chiedi. Poiché una tale offesa costringe l'amante ad amare di più ma a voler bene di meno.
Su questa linea Paolo Silenziario, autore che si colloca tra la tarda antichità e l'inizio della cultura bizantina (VI sec. d. C), in uno dei suoi circa ottanta epigrammi rimasti nell' Antologia Palatina considera l'oltraggio della donna che gli ha sbattuto la porta in faccia con l’aggiunta di parole ingiuriose come una forma di u{bri" che eccita ancora di più il suo folle amore:"u{bri" ejmh;n ejrevqei ma'llon ejrwmanivhn" (V, 256) 
Il poeta di Sirmione nel carme 8 rivolge un'apostrofe a se stesso per trovare la forza di uscire dallo squilibrio che lo tormenta:"Miser Catulle, desinas ineptire " (v. 1), povero Catullo smetti di essere folle. 
"La logica che domina la poesia d'amore di Catullo è quella della contraddizione: nel compiaciuto e insistente ricorso all'autocommiserazione, che lo spinge addirittura a trasferire il proprio ego in personaggi femminili (Arianna, Berenice)...Nell'ambito della logica della contraddizione è scontato che si debba assistere a tentativi di conciliazione degli opposti: nel c. 85 l'antitesi fra bene velle e amare si condensa nell'ossimorico odi et amo , mentre nel c. 92 a Lesbia, che parla male di Catullo fa da pendant un Catullo che la copre d'improperi e tuttavia l'ama"[7].
La logica aperta al contrasto è tipica dei Greci.
Questa logica che non esclude la contraddizione secondo S. Mazzarino è tipica della cultura aristocratica dei Greci:"La nostra logica è rettilinea, astratta: quella dei Greci è sempre aperta al contrasto. Nell'Oresteia di Eschilo Divka Divkai (xymbaleî ) "Dika si scontrerà con Dika"[8]: ci possono essere due Dikai, due Giustizie nel caso dell'Oresteia , quella "matriarcale" di Clitennestra ( e delle Erinni, a cui il ghénos di Eschilo non può sacrificare) contro quella "patrilinea" di Oreste (e di Apollo, il dio degli Alcmeonidi legati al ghénos Eupatrida di Eschilo). Così in Erodoto: c'è la "tirannide" dei Greci nemica di Dike; ma c'è anche la "tirannide" di Deioce per cui i Medi hanno kòsmos ed eunomìa , e la "tirannide" di Ciro, dalla quale i Persiani ricevono "libertà", eleutherìa "[9]. Più avanti (p. 329) l'autore de Il pensiero storico classico aggiunge:"Tucidide esprime una società aristocratica, la quale svolge sino alle estreme conseguenze la capacità greca di contemplare teoricamente le aporie del lovgo" , ed insomma fonda il suo pensiero sullo ajntilogei'n "parlare in sensi opposti", egualmente validi. Dobbiamo ribadire questo punto: per la società aristocratica tucididea non ci può essere una Divkh sola: Divkh si scontra contro Divkh, come aveva già detto Eschilo; "utilità" si oppone a "giustizia", come nel tucidideo dialogo dei Melii. La cultura borghese di Socrate ha invece un punto fermo: e lo può trovare soltanto nell'identificazione dell'utile col giusto, nella presenza di una giustizia assoluta". 
 Il tema misei'n - filei'n prosegue in Ovidio il quale negli Amores scrive:"Odi, nec possum cupiens non esse quod odi " (II, 4, 5) odio e non posso non desiderare quello che odio.
Nei Remedia amoris il poeta di Sulmona rinnega questo atteggiamento tipico di anime poco fini:"sed modo dilectam scelus est odisse puellam.;/exitus ingeniis convenit iste feris./ Non curare sat est ; odio qui finit amorem,/aut amat aut aegre desinet esse miser " (vv. 655 - 658), ma è un delitto odiare una ragazza amata fino a poco tempo prima;/una conclusione del genere si addice ad animi rozzi./Basta non curarsene; chi vuole finire l'amore con l'odio/o ama o con fatica smetterà di essere disgraziato.
Ritroviamo la compresenza di stati d'animo contraddittori nell'ondeggiare psicologico e sentimentale del Petrarca:"Pace non trovo e non ho da far guerra/ e temo e spero, et ardo e son un ghiaccio,/e volo sopra 'l cielo e giaccio in terra/e nulla stringo e tutto 'l mondo abbraccio...Pascomi di dolor, piangendo rido,/egualmente mi spiace morte e vita:/in questo stato son, Donna, per vui" (Canzoniere , CXXXIV, sonetto 103).
Fine excursus

Torniamo a Svevo
La mattina seguente Emilio sentiva non indignazione ma commozione per il proprio destino. Ancora nel letto, immaginava che Angiolina lo curasse. Era tornata la gioventù che annullava le risoluzioni della mente senile. Voleva rivedere Angiolina, parlando poco. Le parole potevano falsare i rapporti. Il possesso non dava la verità ma era esso stesso la verità pura e bestiale (p. 158).

Viene in mente il satiro di Nietzsche e il centauro della morte del cervo di D’Annunzio. La donna dissoluta è la vita indistruttibilmente potente e lieta che attira con magnifica provocazione

Ma Angiolina non ne volle sapere. Non voleva disonorare la propria casa. Lo esaminava per capire come il possesso di lei lo aveva cambiato. Emilio pensò che “doveva aver conosciuto degli uomini che provavano ripugnanza per la donna avuta” (p. 158)
Ma Emilio la desiderava. Andò ad affittare una camera suggeritagli da quel donnaiolo del Balli. Era una stanzaccia affittata da una vecchia laida. Eppure l’idea di fare l’amore lì lo eccitava. Ma nell’attesa di Angiolina era incerto se amarla con passione o dirle: “sei tanto disonesta che mi ripugni” 160.
Invidiava Amalia che era disfatta ma tranquilla. L’amore da lei non provato rimaneva il puro, grande desiderio divino: era nell’effettuazione che la piccola natura umana si trovava bruttata, avvilita. Angiolina ritardò di mezz’ora durante la quale Emilio la odiò. Ma quando arrivò, lui fu sorpreso dalla propria fortuna.
“Nella penombra la stanza della vedova Paracci divenne un tempio” (p. 161). Lì per lì Emilio godette dell’amante compiacente, ma più tardi il ricordo di tutta la scena “gli fece digrignare i denti dall’ira” (p. 161). La passione l’aveva liberato dal doloroso abito dell’osservatore, ma il ricordo lo tormentava. Era certo dalle reazioni di lei che Angiolina aveva conosciuto dei maschi che l’avevano soddisfatta meglio. Quando abbandonò il letto, tradì d’essere stanca di starvi (p. 162) Poi lo spinse fuori dal talamo dicendo: “Andiamo bell’uomo!” La parola ironica doveva essere stata pensata da una mezz’ora circa. Egli l’aveva letta sulla sua faccia”, lo ferì e si sentì respinto e volle riconquistarla.
Continua la partita a scacchi. E’ geloso del Volpini che era brutto e vecchio. Ad Angiolina diceva che non poteva fare a meno di lei.
Emilio stesso non poteva fare a meno di Angiolina.
 Durante l’appuntamento seguente, l’osservatore implacabile e implacato nota che lei aveva imparato accenti nuovi bruschi, non manchevoli di spiriti, e giochi di parole grossolani, probabilmente da un altro amante, forse uno studente perché ella maneggiava alcune parole latine volte a senso turpe 164. Lei disse che era stato Meriggi, il fidanzato di un tempo. Ma allora, perché non ne aveva fatto pompa per tanto tempo? Dallo stesso amante recente aveva imparato canzonette veneziane liberissime. Le cantava stonando. Emilio si immaginava questo amante accanto a sé, beffardo e gaudente. Quando le chiese da chi avesse imparato, lei disse Geloso! Soffriva se lei diceva - “Sei invelenà oggi?” Soffriva come se si fosse trovato a faccia a faccia col suo inafferrabile rivale. Nei gesti e nelle parole di Angiolina riconosceva diversi amanti di lei. Ma il più odiato restava quello ignoto.
Angiolina diceva che durante l’assenza di Emilio non aveva frequentato nessuno, sebbene fosse ammirata da molti,
Era una mentitrice ostinata ma non sapeva mentire.
 Lui la faceva cadere in contraddizione, ma lei non se ne curava perché non credeva alla logica.

“Quei filosofi che credono all’assoluto logico della verità non hanno mai avuto a che discorrere a ferri corti con una donna” Pavese, Il mestiere di vivere, 19 febbraio 1938
“La strategia amorosa si sa adoperare soltanto quando non si è innamorati” Pavese, Il mestiere di vivere, 24 ottobre 1940.
A Emilio mancano la forza e la disciplina: “C’è una superiorità nell’affrontare la vita secondo una forza, una disciplina (…) Ogni vita vissuta secondo uno stampo coerente e comprensivo e vitale è classica” Pavese, Il mestiere di vivere, 1 giugno 1940.

Non era raffinata nel male, anzi sembrava quasi avvisarlo quando lo ingannava. Lui era infelice, Spesso, cacciato da casa dalla triste faccia della sorella, correva dagli Zarri ma raramente trovava Angiolina. La madre lo faceva aspettare in un’attesa indicibilmente dolorosa.
 Una sera, andandosene, incrociò lei che rincasava vestita da fantesca, “la testa coperta da una pezzuola con la quale si celava anche una parte della faccia” 166. Si era travestita perché non voleva farsi individuare.
Una sera tardò di un’ora. Lui la aspettava affacciandosi sulle scale tortuose e sudice della stanzaccia poggiato sulla ringhiera e persino piegato per scorgere il punto più lontano ove ella doveva apparire.
Quando arrivò, Emilio le fece violenti rimproveri. Lei lo accarezzò e lui la sentì molto accaldata. “Un sospetto orribile gli passò per la mente: Tu sei stata or ora con un altro - urlò. Lei disse “Sei matto!” e trovò una scusa. Ma Emilio non aveva dubbi e voleva salvarsi da tanta immondizia. Ci voleva un atto di energia sovrumana per dirle mai più. E poi? L’inerzia, il vuoto, la morte della fantasia e del desiderio, uno stato più doloroso di qualunque altro. Ne ebbe paura. L’unica vendetta fu attirarla a sé e dirle: “Io non valgo mica molto più di te” (p. 169). Lei minaccia di andarsene ma lui la trattiene, quasi si scusa. Sperava che il possesso togliesse violenza al suo sentimento. Sognava di essere ammalato per farsi curare da lei. Ma lei con qualche frase sciocca lo smontava. Un’altra volta Emilio incolpava la povertà per le loro difficoltà e diceva di essere capace di un’azione eroica per il trionfo del socialismo. Con l’annientamento del capitale la donna sarebbe stata uguale all’uomo e l’amore un dono reciproco. Ognuno avrebbe svolto un mite e breve lavoro.
Ma la figlia del popolo teneva dalla parte dei ricchi.

Don Milani: "la pubblicità si chiama persuasione occulta quando convince i poveri che cose non necessarie sono necessarie"[10].
"Il sistema migliore per rendere inoffensivi i poveri è insegnare loro a imitare i ricchi"[11].

Ella del resto accettava del denaro da lui. Lei fingeva di protestare ma la borsa di Emilio era esausta. La ragazza fece intervenire il padre ma mentre il vecchio parlava, lei uscì. Il padre continuò a parlare dicendo cose sconnesse: era pazzo. Parlava di due nemici: Tic e Toc. Poi se ne andò. Tornò Angiolina e i due entrarono in grande confidenza. Ma lei diventava sempre più rozza. Egli era stupefatto dalla volgarità della donna amata. Era convinto di non poterla elevare e sentiva a volte il bisogno di scendere a lei, al di sotto di lei. Una sera la forzò a fare sesso e lei lo ammirò: la femmina conquistata che ama il padrone
Il Balli rese ancora più dolorosa la situazione. Angiolina doveva posare per lui. Balli non riusciva a lavorare se non scolpiva l’immagine di Angiolina. Un giorno mentre i due camminavano sulla riva del mare si videro venire incontro Angiolina, Balli vide il suo capolavoro. Era la gioventù incarnata e vestita che si muoveva alla luce del sole (p. 178)
Il balli la invita a posare, Emilio ne soffre ma non chiede all’amico di rinunziare perché sapeva che “quella povera donna amava molto chi la respingeva e non voleva che le fossero date nuove ragioni per amare il Balli” (p. 179).

Excursus
Quod sequitur, fugio; quod fugit, ipse sequor [12], fuggo da chi mi insegue, inseguo chi fugge
Le sfasature erotiche possono essere inserite nel tovpo" dell'amore che insegue chi fugge e viceversa.
Vediamone alcuni aspetti.
Tale locus ha un' ampia presenza nella poesia amorosa e, probabilmente, pure nell'esperienza personale di ciascuno di noi: Teocrito[13] nel VI idillio paragona Galatea, che stuzzica Polifemo, alla chioma secca che si stacca dal cardo quando la bella estate arde:"kai; feuvgei filevonta kai; ouj filevonta diwvkei" (v. 17), e fugge chi ama e chi non ama lo insegue. Nell'XI idillio il Ciclope dà a se stesso il consiglio di non inseguire chi fugge ma di mungere quella presente (75), femmina ovina o umana che sia.
 Abbiamo qui la tipica ironia teocritea che deriva dalla consapevole dissonanza tra l'elemento popolare e quello raffinato letterario.
Teocrito è, come Callimaco[14], un rappresentante di una poesia cosiddetta postfilosofica:"Post - filosofici sono questi poeti, nel senso che non credono più nella possibilità di dominare teoreticamente il mondo, e nell'esercizio della poesia, a cui Aristotele aveva ancora riconosciuto un carattere filosofico, si allontanano scetticamente dall'universale e si rivolgono con amore al particolare"[15].
Lo stesso Snell qualche capitolo prima aveva ricordato che nel V secolo era comunque già avvenuto "quel distacco fra il mondo della storia e quello della poesia" codificato da Aristotele quando afferma "che la poesia è più filosofica della storia poiché la poesia tende all'universale, la storia al particolare[16]" (p. 141).
La poesia postfilosofica dunque non racconta più l'universale.
 "Un epigramma di Callimaco (Anth. Pal. 12, 102) liberamente tradotto per l'occasione in versi latini, è in Orazio il ritornello caro a questi incontentabili amanti:" Come il cacciatore insegue la lepre nella neve e non la prende quando è a portata di mano, così fa anche l'amante che dice: " (…) Meus est amor huic similis: nam/transvolat in medio posita et fugientia captat " (Sermones, 1, 2, 107s.). Ed è proprio questo epigramma di Callimaco che fornisce ad Ovidio (in un componimento degli Amores tutto impegnato a redigere il codice della perfetta relazione galante) il motto che può rappresentare emblematicamente la tormentata forma dell'amore elegiaco: quod sequitur, fugio; quod fugit, ipse sequor (2, 20, 36)"[17], evito ciò che mi segue, seguo ciò che mi evita.
 E' questo un luogo comune dell'amore, o, forse, della non praticabilità dell'amore.
Catullo[18] cerca di sfuggire obstinata mente (8, 11) a questa tragica legge che nega la realtà dell'amore:"nec quae fugit sectare, nec miser vive " (8, 10), non dare la caccia a quella che fugge e non vivere da disgraziato. 
Il topos torna nella letteratura italiana. Nella Gerusalemme liberata[19] leggiamo:"Ma perché istinto è de l'umane genti/che ciò che più si vieta uom più desìa,/dispongon molti ad onta di fortuna/seguir la donna come il ciel s'imbruna" (V, 76).
 Nella commedia La locandiera [20] Goldoni fa dire alla protagonista, Mirandolina, in un monologo."Quei che mi corrono dietro, presto mi annoiano" (I, 9).
Una situazione analoga troviamo in Il giocatore di Dostoevskij dove il protagonista dichiara il suo amore a Polina in questi termini:"Lei sa bene che cosa mi ha assorbito tutto intero. Siccome non ho nessuna speranza e ai suoi occhi sono uno zero, glielo dico francamente: io vedo soltanto lei dappertutto, e tutto il resto mi è indifferente. Come e perché io l'amo non lo so. Sa che forse lei non è affatto bella. Può credere o no che io non so neppure se lei sia bella o no, neanche di viso? Probabilmente il suo cuore non è buono e l'intelletto non è nobile; questo è molto probabile"[21].
Proust nel V e terzultimo volume della Ricerca[22] esprime lo stesso concetto:"Qualsiasi essere amato - anzi, in una certa misura, qualsiasi essere - è per noi simile a Giano: se ci abbandona, ci presenta la faccia che ci attira; se lo sappiamo a nostra perpetua disposizione, la faccia che ci annoia"[23].
L'analogia con il cacciatore può essere estesa a quella con il raccoglitore di fiori. Il fiore raccolto non è più amabile. Molto note sono questa ottave dell'Orlando furioso[24]:"La verginella è simile alla rosa,/ch'in bel giardin su la nativa spina/mentre sola e sicura si riposa,/né gregge né pastor se le avicina;/l'aura soave e l'alba rugiadosa,/l'acqua, la terra al suo favor s'inchina:/gioveni vaghi e donne innamorate/amano averne e seni e tempie ornate.//Ma non sì tosto dal materno stelo/rimossa viene, e dal suo ceppo verde,/che quanto avea dagli uomini e dal cielo/favor, grazia e bellezza, tutto perde./La vergine che 'l fior, di che più zelo/che de' begli occhi e de la vita aver de',/lascia altrui còrre, il pregio ch'avea inanti/perde nel cor di tutti gli altri amanti" (I, 42 - 43).
William Shakespeare,
Le allegre comari di Windsor, II, 2 (1602)
Love like a shadow flies when substance love pursues;/pursuing that that flies, and flying what pursues”
L'amore, come un'ombra, fugge quando l'amore reale lo insegue, inseguendo quello che fugge, fuggendo chi l'insegue.
Meno noti sono forse il sentimento e la riflessione di Vrònskij dopo che ha realizzato il suo sogno d'amore con Anna Karenina:"Lui la guardava come un uomo guarda un fiore che ha strappato, già tutto appassito, in cui riconosce con difficoltà la bellezza per la quale l'ha strappato e distrutto"[25].
Gozzano[26], su questa linea, sospira con ironia:" Il mio sogno è nutrito d'abbandono,/di rimpianto. Non amo che le rose/ che non colsi"[27].

Fiori e pésca suggeriscono a Musil[28] paragoni e metafore per la brama amorosa contaminata dalla noia o addirittura dal disgusto :" appena rivolto altrove il suo sguardo incontrò quello di una donna che era come un fiore polposo oscillante sullo stelo. In quell'umore gradevole che è fatto per metà di attenzione desta e per metà di sentimento, egli si rese conto che all'esigenza ideale di amare il proprio prossimo la gente reale obbedisce in due tempi, di cui il primo consiste nel non poter soffrire i propri simili, mentre il secondo compensa il primo con l'annodare legami erotici con quelli dell'altro sesso. Senza riflettere ritornò tosto sui suoi passi per seguire la donna; fu un moto solamente meccanico, conseguente all'incontro dei loro sguardi. Egli vedeva la figura di lei sotto le vesti come un gran pesce bianco che è vicino alla superficie dell'acqua. Gli sarebbe piaciuto fiocinarlo virilmente e vederlo dibattersi, e v'era in quel desiderio tanta ripulsione quanta attrazione"[29].
Sentiamo infine C. Pavese[30]:"Ma questa è la più atroce: l'arte della vita consiste nel nascondere alle persone più care la propria gioia di esser con loro, altrimenti si perdono"[31].

Fine excursus

CONTINUA

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[6] G. B. Conte (a cura di) Scriptorium Classicum 2, p. 17.
[7] P. Fedeli, Lo spazio letterario di Roma antica , I, p. 151.
[8]Coefore 461:" [Arh" [Arei xumbalei', Divka/ Divka".
[9] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico , I, p. 175.
[10] Lettera a una professoressa , nota 56 di p. 69.
[11] Carlos Ruiz Zafòn, L'ombra del vento, p. 187.
[12] Ovidio, Amores, II, 20, 36.
[13] 310 ca - 250 ca a. C. Nacque a Siracusa e morì, probabilmente, a Coo. Ha lasciato 30 Idilli, una vantina di epigrammi e un carme figurato (Zampogna).
[14] 305 ca - 240 ca a. C. l'opera più importante sono gli Aitia, una raccolta di elegie in 4 libri di cui ci sono giunti circa 200 frammenti. La poetica di Callimaco, che raccomanda la poesia breve e molto elaborata, sarà esemplare per i neoteroi (cfr. il carme 95 di Catullo) e per i poeti successivi. Properzio chiama se stesso il Callimaco romano (IV, 1, 64).
[15] Bruno Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo , p. 372.
[16] Aristotele, Poetica , 1451b.
[17]G. B. Conte, introduzione a Ovidio rimedi contro l'amore , p. 43.
[18] 84 - 54 ca a. C. Ci ha lasciato un Liber di 116 carmi: i primi 60 detti polimetri sono poesie brevi, quelli dal 61 al 68 sono i carmina docta in cui predominano l'esametro o il distico elegiaco, i carmi 69 - 116 sono epigrammi in distici elegiaci.
[19] Poema in venti canti, in ottave, composto da Torquato Tasso (1544 - 1595) tra il 1565 e il 1575.
[20] Del 1753.
[21] F. Dostoevskij, Il giocatore (del 1867), p. 42.
[22] Conclusa negli ultimi mesi di vita, tra il 1921 e il 1922.
[23] M. Proust, La prigioniera, p. 183.
[24] Poema di Ludovico Ariosto (1474 - 1533) in 46 canti, in ottave. L'edizione definitiva è del 1532.
[25] L. Tolstoj, Anna Karenina (del 1877), p. 366.
[26] 1883 - 1916.
[27] Cocotte, vv. 67 - 69.
[28] 1880 - 1942.
[29] L'uomo senza qualità, p. 849.
[30] 1908 - 1950.

[31] Il mestiere di vivere, 30 settembre 1937.

2 commenti:

Platone: il mito della caverna.

Vediamo dunque questo mito (VII libro della Repubblica di Platone Socrate parla a Glaucone e gli dice: considera gli uomini rinchiusi...