Università di Debrecen |
L’incontro alla “festa della conoscenza”
nell’Università di Debrecen. Le due Helene
Partii da Pesaro il 18 luglio del 1971,
oramai ventisettenne.
Feci il viaggio con Claudio nella nera
Volkswagen decappottabile, tenuta a tetto scoperto durante il giorno caldo e
luminoso. Ero contento, tutto contento come un bambino: senza sapere perché. Se
avessi previsto che il compagno di scuola, di strada e di qualche bagordo,
avrebbe perduto il lavoro e sarebbe finito in galera accusato di infamie su
infamie con mani sporche di strage[1], e se avessi
immaginato che nella città universitaria dell’Ungheria orientale stava
arrivando da una terra remota, iperborea, praticamente l’ultima Thule, e
proprio incontro a me, la donna bella e fine che cercavo da anni, non sarei
stato allegro e spensierato, ma dispiaciuto per l’amico dal duro destino, e
felice, pieno di felicità per il dono di Helena, la meravigliosa creatura di
Yväskylä, cittadina universitaria della Finlandia centrale.
A Debrecen dunque, il 20 luglio del ’71,
incontrai la terza finnica del mazzo, la prima davvero importante, la più
influente sul seguito della mia vita. Mi piacque subito per l’aspetto, nello
stesso tempo florido e nobile; poi la ascoltai parlare, ne osservai lo stile,
ne apprezzai il valore raro, e me ne innamorai; quindi mi feci conoscere come
persona e riuscii a piacerle; infine, come volle Dio, chiunque egli sia,
facemmo l’amore.
La vidi nel grande cortile
dell’Università la sera della “Festa della conoscenza”: mi apparve vestita di
colore bianchissimo, bianca la pelle, ma neri i capelli, e neri gli occhi dal
taglio obliquo. Scintillavano di energia spirituale, non erano solo due
brillanti scaglie di mica[2]. Helena non era
soltanto materia, come mi farà notare lei stessa durante una breve crisi di
questa storia.
Era bella, fine, sicura di sé.
Aveva una femminilità di razza. Di pura razza umana.
Avevo riconosciuto in lei la forma che
mi era piaciuta per prima: quella delle donne mie consanguinee: la mamma
subito, poi le zie, la sorella, perfino la nonna delle fotografie. E in fondo,
alla fine dei conti, narcisisticamente, anche la forma mia.
La finnica aveva un’aria intelligente e
matura: parlava con calma e decoro. Senza fretta, senza arie né smancerie,
senza posare.
Niente commedie né tragedie, le scene
cui erano ancora parecchio inclini molte ragazze e donne italiane, e non solo.
Nessuna maschera comica, né tragica.
Helena era naturale come i fiori non
coltivati, i gigli dei campi, e come le stelle del cielo che non hanno bisogno
di orpelli, cosmetici, lifting cui ricorrono i brutti, i bugiardi, gli insicuri
di sé.
Le persone che hanno scelto la propria
natura, che hanno riconosciuto e approvato il proprio destino - carattere, non
fanno scene. Di questi ci si può fidare.
Appariva, ed era l’antitesi delle mime
volgari e il contrario degli snob che insultano il bello stile: i maleducati
che trasudano ridicola affettazione. Vogliono fare colpo sugli altri cercando
di apparire diversi, più importanti di quello che sono.
Dalla sua persona uscivano, con
naturalezza, strali di grazia nobile e antica.
Nobile era lei in quanto naturale:
niente è nobile quanto la natura, la quale è aristocratica più di qualsiasi
società feudale basata sulle caste.
Non aveva niente di servile né di
artificiale.
Come l’ebbi notata, pensai che solo
stando vicino a lei avrei potuto evitare le contaminazioni che vedevo incombere
altrove. A destra e a sinistra c’erano diversi gruppi di persone chiassose,
infantili, inclini a trasgressioni disordinate.
Ero sicuro che quella ragazza mi
piaceva quanto nessun’altra delle numerose femmine umane raccolte in quel
posto.
“Questa donna è giunta nel tempo e nel
luogo dovuto al nostro incontro, pensai, “è lei la persona commisurata a me. Ed
è pure il genius loci”.
Mi avvicinai dunque, e mi
presentai.
Rispose con cortesia, ma senza dare
segni di particolare gradimento. Bevemmo un bicchiere di “sangue di toro di
Eger”, il vino rosso ungherese dal nome dionisiaco. L’ho sempre sorseggiato
sperando in esiti più o meno coribantici con le donne via via corteggiate.
Parlammo un poco, poi la invitai a
ballare. Quando mi ebbe ripetuto il suo classico nome, guardai le braccia
appoggiate sulle mie spalle, le chiome negre che le ombreggiavano il collo e il
vestito, fino al petto bianco, tondo e luminoso più della luna piena e alta
d’estate, quindi, commosso, pensai: “classica Elena dalle bianche braccia,
dalle belle chiome, probabilmente hai lavato da poco il corpo candido con acque
correnti, poi devi avere tirato fuori la biancheria e la veste da una cassa di
cedro, un legno che protegge i tessuti dall’umidità e dalle tarme. Voglio
piacerti e sentirmi accolto da te”.
Piccola digressione: Helena Schejbalova
Ma ebbi anche un pensiero più concreto;
anzi il ricordo incoraggiante di un successo erotico precedente. Sul mar Nero,
nel luglio di quattro anni prima, una ragazzina diciassettenne, di Praga,
un’Elena anche lei, Helena Schejbalova, mi aveva sorriso una mattina, mentre
bevevo il caffè in un bar dove ero andato per allontanarmi dai compagni di
viaggio, tre marchigiani simpatici ma un po’ cafoncelli, con i quali avevo
avuto un screzio piccolo, non serio, da ragazzi stupidotti quali eravamo tutti
e quattro. Segnavamo sullo sportello dell’automobile, con un pennarello, una
piccola croce per ogni ragazza baciata e facevamo a chi ne metteva di più. Era
il 1967 e avevamo 22 anni.
Questa prima Helena era una biondina
dagli occhi cerulei. Il suo sguardo colorò di celeste anche il sorriso che mi
rivolse. Glielo contraccambiai, mi avvicinai e ci presentammo. “Sei bellina -
le dissi - molto bellina”.
A parte l’eterno richiamo dei sessi,
allora i rapporti umani erano spesso cordiali. I giovani soprattutto si
guardavano con simpatia.
Parlammo, facemmo amicizia e
riuscii a baciarla, ma non potei procedere: disse che era troppo giovane per
fare l’amore.
“Sono giovane anche io - provai a
replicare - eppure maturus tibi, puella”. Invano.
Tornai al campeggio, dai miei compagni
di viaggio, tutto contento comunque, e amichevole assai. Facemmo la pace. Poi
andai a mettere la croce. Una in più.
La primavera successiva, quella magica
del ’68, Helena e io ci ritrovammo a Praga dove ero andato nell’ambito di uno
scambio di studenti universitari. Quello fu un anno in cui la gioventù aveva
fiducia in se stessa e nelle forze positive, progressive della Storia. La fanciulla
nel frattempo si era già iniziata al culto di Afrodite, la dea dal sorriso
amabile, e vivemmo una settimana d’amore che allora non valutai abbastanza.
Io avevo un’Elena finché la mia
disattenzione non la dimenticò.
Ma passati tre anni, potevo avere
un’altra Elena e ne avrei fatto tesoro.
Mi tornò in mente la più remota molto
tempo dopo, durante una gita scolastica a Praga. Erano passati più di
trent’anni, quasi quaranta, veloci e inopinati come le nuvole in cielo quando
il tempo si guasta. Oramai avevo superato i sessanta, ero senex, eppure le
donne, soprattutto le giovani mi piacevano sempre tanto, più che mai. “Il genio
non ha età”, pensavo quando mi interessavo a una donna che poteva essere mia
figlia, “vediamo di farglielo capire”.
Ero con una mia terza liceo, e gli
allievi si trovavano in giro per conto loro, o con altri professori, colleghi
che mi piacevano poco, e io a loro piacevo anche meno di poco. Andai dunque da
solo nella storica birreria Ufleku dove da ragazzo ero stato con lei, la
ragazza bionda, sorridente con gli occhi celesti. Mentre ricordavo nei
particolari quella settimana remota e il dono di quella fanciulla, pensai che
la mia vita era stata, e poteva essere ancora, un’avventura magnifica, piena di
eventi belli, quindi piansi di gioia e di gratitudine non invecchiata[4]. Riconoscenza per
lei, per le altre, non poche altre femmine umane grazie a Dio, e per il destino
che mi era stato assegnato, o avevo acciuffato io tra quelli disponibili.
Non sapevo, non saprò mai se l’avevo
scelto il demone mio, o era stata Lachesi, la figlia di Ananche a sorteggiarlo
per me[5].
Comunque ero felice e, tutto solo
com’ero, brindai a quell’ajgaqo" daivmwn. Chi mi vide dovette
pensare che fossi ubriaco.
In quel tempo ero oramai quasi
vecchio e abbastanza maturo per valutare con attenzione i grandi doni ottenuti
con l’impiego di tutte le mie facoltà, comel’iperborea Helena Sarjantola, e
quelli piovuti dal cielo, come Helena Schejbalova, fanciulla di Praga. Nel ’68
non fui abbastanza cosciente e grato di quell’offerta celeste, un’oblazione che
cominciò a cambiarmi la vita in meglio. Ero ancora una specie di prostituta che
riceve i doni come potrebbero fare le onde del mare se venissero seminate con
chicchi di grano [6].
Ma la sera del 20 luglio del ’71 il
ricordo improvviso di quel sorriso caldo e luminoso mi incoraggiò parecchio.
[2] Cfr.
Proust, All'ombra delle fanciulle in fiore, p. 397: "Se
pensassimo che gli occhi di una ragazza come quella non sono che una brillante
rotella di mica, non saremmo così avidi di conoscere e di unire a noi la sua
vita. Ma sentiamo che quel che riluce in quel disco pieno di riflessi non è
dovuto unicamente alla sua composizione materiale; che sono, ignote a noi, le
nere ombre delle idee che quell'essere si fa a proposito delle persone e dei
luoghi che conosce… le ombre, anche, della casa in cui rientrerà, i progetti
ch'essa fa o altri han fatti per lei; e soprattutto che è lei, con i suoi
desideri, le sue simpatie, le sue repulsioni, la sua oscura e incessante
volontà".
[4] Euripide mette
in evidenza il grande valore della gratitudine quale componente dell'amicizia
nell'Eracle, dove Teseo non ha dimenticato l'aiuto ricevuto dall'amico che
lo ha riportato in luce dal regno dei morti (v. 1222) e, disponendosi ad
aiutarlo, gli dice: "cavrin de; ghravskousan ejcqaivrw fivlwn" (v. 1223), io odio la gratitudine
degli amici che invecchia,
[5] Ognuno di noi,
secondo il mito di Er, prima di tornare sulla terra, si sceglie il proprio
demone. Platone, alla fine della Repubblica (617 e) fa dire a
Lachesi, la vergine figlia di Ananche: "oujc uJma'" daivmwn lhvxetai,
ajll& uJmei'" daivmona aiJrhvsesqe", non sarà il demone a sorteggiare
voi, bensì voi a scegliere il demone.
[6] Cfr. Alceo chi
fa doni a una puttana è come se li gettasse nelle onde del mare canuto (fr. 117
Voigt).
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Se conoscere è ricordare quanto abbiamo
imparato in altre vite, come afferma Platone[1], anche amare è legato
alla reminiscenza di qualche persona antica, o, viceversa, alla dimenticanza di
qualche situazione penosa.
Ho amato un’Elena che mi ha fatto venire
in mente un’altra Elena, e mi ha ricordato la mamma, e mi ha fatto pure
scordare il dolore delle frustrazioni passate.
Questa nuova Helena dunque mi disse di
avere studiato lettere e che le insegnava da un anno in una scuola media di
Yväskylä. Avrebbe compiuto ventisei anni in settembre: “ha dieci mesi meno di
me”, pensai.
Le piaceva molto imparare e insegnare. “Dum
docemus, discimus”, le dissi per impressionarla favorevolmente. Sorrise e
rispose: “videlicet”, forse non senza una punta di ironia.
All’epoca la gente di educazione
accademica usava parole latine come segno di appartenenza a un gruppo eletto.
Adesso, quale laudator temporis acti me puero, mi dolgo del fatto
che gli ignoranti blaterino storpiando l’italiano mescidato con una lingua
franca spacciata per inglese.
Ma torniamo ai tempi belli, torniamo
alla vita.
Helena amava la natura e la vita.
La propria e quella degli altri. Questo
è il predicato di nobiltà più nobile e raro.
Si faceva conoscere parlando con
precisione, senza parole di troppo, senza luoghi comuni, senza inciampare mai
in quanto diceva. Lo faceva con semplicità elegante, non usava la micrologica e
pur prolungatissima ciancia delle persone vuote, scontente, cattive.
La trovavo simile e complementare
alla mia persona: mi suggeriva e rappresentava l’idea della donna in grado di
adoperare la propria indole e intelligenza, capace di non ripetere gli
stereotipi rancidi continuamente impiegati dagli imbecilli, gli ottusi
ripetitori della pubblicità che fa come Circe[3]: trasforma gli
uomini, quelli che hanno l’apparenza di uomini, nei maiali veri che sono. Anzi,
i maiali veri in confronto a certi cialtroni panciuti fanno la loro porca
figura.
Helena mi piaceva e mi andava a genio
quanto a ciascuno dovrebbe piacere il proprio destino. Quel mio destino dovevo
ancora conquistarlo però.
Infatti io a lei, nel primo approccio,
non piacqui altrettanto: da come mi guardava e ascoltava, capivo che non
l’avevo colpita con l’aspetto né con altro. L’indifferenza con cui mi guardava
non cambiava la bella natura del suo incarnato e della sua persona. Magari
faceva sbiadire la mia persona.
A un tratto credetti che il suo sguardo
annoiato, quasi contrariato, volesse significarmi: “perché non te ne vai? Tu,
trattenendomi qui con te, mi fai perdere tempo!”.
Eppure mi trovavo nella mia forma migliore:
snello e abbronzato pur dopo il servizio militare. Il fatto è che non
trasmettevo forza né sicurezza con il mio sguardo: in faccia avevo il colorito
del sole, ma non il suo sangue[4]; il mio parlare non
era abbastanza intenso e preciso, non aveva densità né bellezza, anche per via
dell’inglese che conoscevo meno bene di lei. Non trovavo la forza di esprimere
il meglio di me: la mia diversità dalla gente comune priva di logos e di
pathos.
Dovevo avere il coraggio di affondare lo
sguardo, come un palombaro[5], dentro la mente per
ricavarne qualche pensiero profondo, luminoso e semplice, privo di
affettazione, degno di quella donna, e di me. Lei però non mi incoraggiava.
Sentivo che stavo assumendo espressioni e atti imbarazzati. Le raccontavo soltanto
con quale mezzo, per quale via, e con chi, ero arrivato il giorno prima
dall’Italia, e che cosa contavo di fare a Debrecen il mese seguente: molto
esercizio fisico, qualche lettura, e, magari, se il destino mi assecondava,
potevo fondare un’intesa con una donna di valore, se si lasciava conoscere e mi
accoglieva. Non ebbi il coraggio di dirle: “con te o con nessun’altra; senza di
te la mia crescita umana rimarrà bloccata per sempre: il destino mi travolgerà
e caccerà nell’orrore dell’insignificanza”. Non glielo dissi, ma pensavo
proprio in questa maniera tragica.
Ancora però non avevo compreso che
per fare qualcosa bisogna essere qualcosa, e,
a dire il vero, in quel tempo remoto non ero un granché, quindi non potevo fare
niente di egregio. Sapevo commettere qualche bravata giovanile forse con uno
stile non del tutto volgare. Conoscevo già alcune belle sentenze di autori
bravi e le snocciolavo perché suonavano bene e pensavo mi facessero fare bella
figura.
La scuola di Helena, la mia
professoressa dell’amore, l’ipostasi stessa dell’amore celeste, mi ha insegnato
sulla vita più del sapere succhiato dai libri nei venti anni precedenti.
Lascio il giudizio a te, lettore. Più
avanti vedrai.
In quel momento capii solo che non
potevo avere quella donna siccome sulla bilancia del fato non ero in grado di
mettere un contrappeso del valore di lei. Dovevo scavare dentro di me e
trovarlo. Oppure piangere la bella creatura perduta prima ancora di averne
tratto i benefici che avrebbero potuto dare alla mia vita una svolta verso le
cose grandi e belle cui mi sentivo portato. E forse, se non mi avesse amato,
sarei morto a[wro", anzi tempo. “Nel caso, mi sia lieve il suol”, pensai, tragicomicamente.
Oppure potevo consolarmi con un’altra
donna, più nobile no, però, magari, meno impervia e inaccessibile. “E lei ne
troverà un altro forse più fortunato, certo non più innamorato di me”, pensai.
Ma prima di cedere e di cercare uno
straccetto di ganza tra le creature insignificanti che andavano e venivano,
volli provare ancora a conquistare il mio destino che vedevo incarnato in
quella donna superbamente meravigliosa.
“Helena e io separati siamo ciascuno
soltanto un suvmbolon, la metà di un segno di riconoscimento. Devo ricostituire il tutto intero
con lei. Saremo un androgino perfetto di pura origine lunare.
Devo gettare un ponte vertiginoso
tra il suo spirito e il mio. Spero che la vertigine ci faccia cadere nello
stesso letto, dopo esserci abbracciati durante il volo”, pensai.
Poi: “Sarà l’abbraccio voluttuoso di due
condannati a morire, non posso negarlo, come accade a tutte le altre miserande
creature mortali.
Eppure, se questo amplesso avverrà,
rimarremo uniti per sempre: attraverseremo insieme le onde del tartareo
Acheronte: nemmeno l’orrendo traghettatore potrà separarci agitando implacabile
il terribile remo.
Neanche Minosse che, stando seduto nel
prato degli asfodeli presso il triodo dal quale si dipartono vie diverse,
emette sentenze inappellabili, potrà obbligarci a prendere cammini divergenti:
se Helena dovrà imboccare la strada caliginosa del Tartaro, io la seguirò,
anche se avrò la possibilità di dirigermi all’isola dei beati piena di luce”.
Questo anche pensai ed ero pazzo, ma di una pazzia più saggia della saggezza
dei più.
Di una pazzia che non è alienazione
meschina e volgare ma è la divina manìa dalla quale derivano agli uomini i beni
più grandi.
[2] Di nuovo
Platone: Fedone: "euj ga; r i[sqi (…) a[riste Krivtwn, to; mh; kalw'"
levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev", ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei'
tai'" yucai'"" (115 e) , sappi bene (…) ottimo Critone che il non parlare bene non
è solo una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.
[4] Cfr. il faraone
Amenhotep (Amenophi IV) nel romanzo di T. Mann Giuseppe e i suoi fratelli:
“Guarda qui!” disse a Giuseppe. “Avvicinati e guarda!” E scostando la batista
dall’esile braccio gli mostrò le vene azzurre nella parte interna
dell’avambraccio. “Questo è il sangue del Sole!” Giuseppe il nutritore (IV
volume), p. 204.
Anche Medea ha sangue del sole.
Ancora sulla festa della conoscenza.
Debrecen, luglio 1971
Helena ancora non mi aveva congedato,
ma, nonostante insistessi, la mia situazione non migliorava.
Le dicevo che facevo l’insegnante di
lettere nelle scuole medie senza nemmeno accennare a cosa significasse per
me l’educazione dei ragazzini; poi aggiungevo che avevo letto dei libri buoni,
senza nominarne alcuno e chiarire che cosa ci avevo trovato di bello.
Tanto meno osai dirle, forse neppure
potevo immaginarlo, che un giorno avrei scritto di lei qualcosa di
straordinario, anzi “cosa non detta in prosa mai né in rima”[1]. Ancora non sapevo che sarei stato
nunzio agli uomini della storia grande e meravigliosa avvenuta tra noi.
Non riuscivo a meritarmi la sua
attenzione.
Helena mi guardava inesorabile con
l’aria di chi pensa: “e a me cosa vuoi che importi di questo? In che cosa mi
riguarda?”.
Vedevo che il mio livello di
conversazione e la mia stessa persona non la interessavano punto. Mi ascoltava
e rispondeva alle domande con cortesia formale, però non mi domandava niente a
sua volta, non rilanciava mai, tanto che per proseguire dovevo sempre essere io
a riprendere l’iniziativa, e questo rendeva il mio parlare via via più
imbarazzato e meno sicuro; a mano a mano che non mi chiedeva nulla, il mio eloquio
diventava sempre più forzato, il mio aspetto più insignificante e opaco.
La bella donna non aveva alcun interesse
di sapere alcunché sul mio conto.
Non avevo significato nulla e non
significavo niente agli occhi suoi.
Alla fine mi fece una domanda che mi
annientò: mi chiese se poteva tornare al tavolo dei suoi connazionali senza
offendermi.
“Che cosa fai meravigliosa creatura, mi
lasci?” pensai, e poi
“Così mi annichilisci, altro che
offendermi!”. Il mio cuore pompava fiotti di sangue pallido. Mi sentivo come
arenato nelle secche della sventura, chiuso in una tana priva di luce, tetra e
soffocante.
Era la caverna orribile
dell’amore mancato, la spelonca piena di pianti e rimpianti.
I miei sentimenti da chiari e dritti si
confondevano in un groviglio fitto e arruffato, i pensieri si sgretolavano come
frammenti e pezzetti privi di ogni coesione.
“Ma forse non è quella gran donna che
sembra”, cercai di consolarmi. “E’ solo una delle tante”.
Le risposi che andava bene, e
l’accompagnai al tavolo della sua gente senza chiederle se voleva ballare di
nuovo più tardi, perché non mi sembrava il caso di riproporglielo, proprio per
niente. Temevo di cadere nel patetico implorando una proroga.
Frustrazione, dolore, angoscia. Forse
però potevo rifarmi. “La sorte è capricciosa, balzana, e fa salti
imprevedibili, ma se il valore la imbriglia si lascia guidare”, pensai
“La mamma talora indifferente o furente,
le zie pretificate e fasciste, la nonna agraria e imperiosa, le
ho domate tutte dopo le prepotenze subite; con loro mi sono rifatto quasi
del tutto
Mi permettono una vita meno
misera, materialmente e mentalmente di quella di tanti colleghi miei.
Quella finnica bella e fine
sembra dotata di un potere benefico; ma allora, a maggior ragione,
deve arrivare ad amarmi, a unirsi con la mia natura, non del tutto
ignobile forse, non proprio fiacca spero. Lei sembra una donna di grande
formato e levatura; allora, in questo ambiente di giovani disordinati, di
lazzaroni confusionari, di uomini grigi e rassegnati, di vecchi il cui essere è
solo un essere stati, di teste svigorite, prive di coscienza o al massimo
dotate di una semi coscienza obnubilata e crepuscolare, ebbene Helena, tra
tutti costoro, dove può trovare un uomo, se non proprio in me? Se tutta la
natura è imparentata con se stessa[2], questa femmina
finnica mi è particolarmente congeniale.
Fallo sapere, annuncia che Gianni,
diversamente da Pan, non è morto!”
Così pensavo per rinfrancarmi.
Esageravo nel denigrare gli altri,
facendone un mucchio deforme, un impasto tellurico, per mettermi su un altare
accanto alla mia dea, quella che doveva rivelarsi quale magna mater,
non mediterranea del resto ma iperborea. Madre anche del mio destino.
Invero l’università estiva di Debrecen
ospitava giovani e meno giovani di qualità superiore alla media, una media per
giunta che nei primi anni Settanta non era certo inferiore a quella dei decenni
precedenti e successivi: allora tra le persone, soprattutto se dotate di
educazione accademica, circolavano curiosità, cordialità, simpatia e facilità
nei rapporti di amicizia e di amore. Conoscevano tutti il latino. Si parlava
retoricamente e pure politicamente, si cantavano canzoni politiche piuttosto
che le volgarità goliardiche nate dalla frustrazione sessuale.
Insomma l’ambiente nell’insieme era
bello e stimolante. Eros ci aveva radunati lì, in quel consesso festoso, perché
gli facessimo onore accoppiandoci non senza amore.
C’erano anche diverse persone valide
dalle quali potevo imparare. Soprattutto c’erano tante ragazze squisite.
Ma in quei giorni avevo deciso che
la magna mater et magistra, e l’amore, poteva essere solo lei,
Helena. Era lei il mio “compito difficile”, quello che nei miti e nelle fiabe
viene assegnato all’eroe.
Consideravo che c’era un mese davanti a
noi e tante altre feste: varie occasioni per avvicinarla. Sì, perché
guardandomi in giro, avevo già visto che se la mancavo quell’Elena lì,
nessun’altra mi avrebbe mai compensato di tale fallimento. Certamente non in
questa vita e probabilmente nemmeno nelle prossime centocinquanta. “Grandissima
figa spirituale o pneumatica” - pensavo - all’epoca senza ironia. “Bella, fine,
sublime, predestinata a me ab aeterno.
La sua anima non è come quella dei
maiali e di tanti che sembrano uomini”.
Avevo imparato non ricordo da quale
filosofo, forse lo stoico Cleante, che i porci hanno l’anima (e[cein th; n yuchvn) invece del sale (ajnq j aJlw`n) , solo perché non
imputridiscano le loro carni, escrescenze di corpaccioni pigrissimi, come le
pance adipose di certi otri ambulanti che paiono esseri umani.
“Voglio farmi tornare in mente le cose
interessanti che ho imparato e raccontargliele - pensavo ancora - devo
impressionarla, vincere la sua ritrosaggine. Dare spettacolo con le parole,
come ho imparato dalle tragedie di Seneca e da quelle di Shakespeare.
Le mie parole del resto devono scaturire
totalmente dalle mie forze vitali, dalla libido che sento per quella donna.
L’importante è non attenuare il desiderio, né degradarlo rivolgendola a
un’altra: ‘fac tantum cupias, sponte disertus eris’[3], Ovidio, maestro e amico.
Devo evitare però espressioni concitate,
sguardi affamati, sorrisi disperati.
Dammela, Dio, dammela. Cosa ti costa?
Non l’hai creata tu stesso, con le tue mani, così bella e fine apposta per me?
Per chi se no? Dio, se me la dai, te ne sarò grato per sempre; sempre crederò
in te, e celebrerò il tuo nume ogni due giorni, anzi tutti i giorni che vorrai
regalarmi, Dio buono. Il mio altare fumerà almeno dodici volte all’anno di olocausti
santi, per te. Se non me la dai, invece, potrei degradarmi, bestemmiare,
ingrassare, e andare con la nera Volkswagen scoperta, sul lungomare di Rimini,
a insultare le puttane, forsennato, sconvolto dal doloroso delirio, ubriaco
fradicio e ruttando fiato puzzolente di cavolo e formaggio rancido.
Pochi mesi fa in caserma, per
disperazione mangiasti, poco prima della cena a base di pasta asciutta, una
mezza pagnotta di pane nero, un intero salame e ti scolasti un bottiglione di
birra nera, spessa, inebriante. “Prelibatezze” che mi aveva fatto arrivare
sottobanco mia sorella, per compassione. Pensava che mi tirassero su. Invece
ingrassavo diventando deforme, ogni giorno di più.
Questo magari no, non lo farò più
in nessun caso. Ingrassare sia il vetitum maximum, il tabù
principale.
Bestemmiare pure è vietato, poiché
infamare gli dèi è odiosa sapienza[4]. Allora dammela, Dio
santo, tu che mi hai aperto anzi tempo[5] le porte del carcere cieco della
caserma dove mi facevano lavare i piatti di giorno e stare sveglio davanti al
muro di cinta con il fucile scarico in spalla quasi tutte le notti perché avevo
detto a un commilitone, tal Gariboldi, di essere comunista e che mi faceva
schifo militare in un esercito che non era al servizio del popolo ma fungeva da
cane da guardia della borghesia. L’infameriferì al capitano.
Sicché mi sequestrarono i libri sui
quali preparavo il concorso e mi trasferirono immediatamente nella caserma dei
riottosi e degli “sciacquini”.
Ma tu, dio della giustizia, dio
dell’amore, mi hai salvato con un anno di anticipo, il 15 maggio scorso. Sotto
nobili gioie anche la pena gravida di rinascente rancore, muore, finalmente
domata. Come scrisse qualcuno, Pindaro forse. Dopo quei cento giorni di morte
civile e sessuale voglio ribattezzarmi negli umori santi di Helena.
Ora rendimi interessante agli
occhi di questa femmina finnica, dio, una femmina umana di grande formato!
Anzi questa donna è il modello di tutte
forme modellate con arte: ha la bellezza di Afrodite, la mente di Themi, la
favella di Atena. Ogni sua movenza è dotata di misura e di ragione, come i
movimenti del sole”.
Così pregai, con franchezza, senza
ironia che non si addice a chi ama.
Dio mi guidò, Dio mi esaudì. Del resto
le mie divinità sono state, volta per volta, le donne, le femmine umane che ho
amato sempre e, nei secoli dei secoli, amerò.
[5] Il mio servizio militare è durato
un centinaio di giorni: poco più di tre mesi invece di 15. Lo interpretai come
il segno di un destino buono. Più tardi lessi queste parole in un Saggio
autobiografico di T. Mann, e me ne compiacqui: “Dovevo fare il mio
anno di servizio militare che però si ridusse a tre mesi (…) Il medico curante
di mia madre conosceva l’ufficiale medico competente”.
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Mentre pregavo, quasi a mani giunte, la
guardavo con aria seria e con il fiato sospeso, dal tavolo non poco chiassoso
degli Italiani a quello sospiratissimo delle Finlandesi: Helena, l’auriga della
mia anima, parlava pacatamente con un paio di sue connazionali sbiadite. Notai
che non fumava. Era perfetta, era la mia dea, il completamento di me, spezzone
di essere umano, la contromarca della mia vita era lei.
Mi scusai con gli amici storici
che nell’estate del ’71 erano tutti a Debrecen. Andai a controllare la forma
mia in uno specchio dei gabinetti. Non ero male. Fisicamente mi trovavo nella
condizione migliore: snello, abbronzato, con i capelli bruni corti, ancora un
poco militareschi che tuttavia mi donavano; portavo con disinvoltura le lenti a
contatto e avevo un vestito azzurro che si intonava bene con il colore assai
scuro della mia pelle da etrusco adusto dal Sole, il dio che mai mi lascia
sbiadire. Anche in caserma trovavo il modo di prendere il suo colore santo.
Avevo l’incarnato e le fattezze corporee dalla mamma mia, Luisa Martelli, una
ragazza bella, speciale, di Borgo Sansepolcro, il paese di Piero, quello della
Resurrezione di Cristo, della Madonna del parto[1], e di altro.
Gli occhi azzurri di Luisa no,
purtroppo, non li avevo presi, ma andava bene lo stesso.
Mi piacevo abbastanza. Non ero male per
niente: infatti passando in mezzo ai tavoli per andare a specchiarmi, avevo
notato che diverse fanciulle mi guardavano con simpatia, e questa è la prova
migliore, l’unica, che sei in buona forma e puoi piacere[2]. Ringraziai la mamma mia benedetta.
Andava bene così. Con gli occhi azzurri magari mi sarei montato la testa e
avrei peccato di u{bri~. Una volta la mamma mi disse che se avessi preso il suo colore di occhi e la
statura di mio padre sarei stato bello come Alain Delon. Risposi che mi piacevo
com’ero e non mi sarei cambiato con lui.
“Basta che tu sia contento te”, fece lei
nella sua bella lingua.
Io non volevo iniziare una vita diversa
ma proseguire nel percorso in salita della mia.
Mi confortai: la bella donna non mi
aveva scartato per via dell’aspetto, altrimenti mi avrebbe scansato subito e
completamente, come stava facendo con alcuni giovanotti petulanti che la
invitavano a ballare; no, Helena aveva provato noia della mia parola banale,
priva di qualsiasi bellezza dal punto di vista del conoscibile, anche se il
visibile to; oJratovn, non era male. Con l’eloquio vuoto di idee e privo di sentimenti avevo
aggiunto squallore al silenzio. Come fa la gente comune, e lei, come la mamma
mia, non era una persona comune. Io nemmeno. Dunque potevo trovare un rimedio.
Una donna siffatta esigeva, e meritava, il meglio di me. Motivo di più per
amarla. Era un’impresa ardua, del resto ogni cosa difficile ributta l’uomo
imbelle. E viceversa.
Mi venne in mente Pindaro che nell’Olimpica
I racconta l’impresa di Pelope il quale per conquistare Ippodamia deve
battere, in una gara furiosa su un cocchio tirato da cavalli, il sanguinario
padre di lei, Enomao[3], assassino dei
pretendenti ogni volta sconfitti. L’eroe eponimo del Peloponneso, la notte
prima dell’agone rischioso pensa, e prega così il dio Poseidone:
“Dato che è necessario morire, perché
uno dovrebbe
smaltire invano una vecchiaia anonima
seduto nell'ombra
senza parte di tutte le cose belle? Ma
questa
Per vincere la mia gara dunque, per
evitare una sconcia disfatta, dovevo trovare il modo di farmi ascoltare con
interesse in un secondo incontro con la bella donna cosciente del bello, dovevo
piacerle tanto da farla giacere nuda con me nudo in un letto, cosa che è il
solo rimedio al dolore della carenza amorosa. Dovevo espugnarla.
Era dunque necessario preparare una
conversazione più intensa, più densa e pastosa; un logos più
profondo e più alto, un pathos pieno di vita, parole e
pensieri sublimi, com’era lei nella mia valutazione, forse eccessiva ma atta a
stimolare tutte le mie energie migliori. I miei slanci amorosi dovevano avere
il fascino di figure retoriche geniali. un fraseggiare di brevità, di bellezza
e di forza; con meno di tanto non potevo farcela. Dovevo quel successo al
prosieguo della mia esistenza terrena.
“E il vincitore per il resto della vita
Poi tornai al tavolo degli Italiani, non
lontano da quello dei Finnici.
“Siamo alle solite Gianni, punti le
finniche”? mi domandò il povero Bruno Pera, già sacro alla morte non tanto
lontana. Una sorte molto amara degna di riflessioni dolorose, anche se il
personaggio non mi era del tutto simpatico.
“Sì, certo - risposi con disappunto -
perché, a te fanno schifo?”
“No - disse - ma mi sembri ripetitivo,
fissato, e anche un poco razzista”.
Era un rivale, un donnaiolo del resto
meno attento di me alla qualità.
Lui non cercava l’identità nell’amore:
aveva da tempo una fidanzata in Italia che lo raggiunse pure.
“Questo è l’anno della degradazione!”,
gridava ogni tanto, facendo anche gesti bizzarri, chissà perché.
Digressione brevissima in memoria di
Bruno, il ragazzo romano morto ante diem.
Forse Apollo, o la Pizia seduta
sull’ombelico del mondo, gli avevano sussurrato il destino, e ne sentiva la
pala spietata già vicina ad arrotarlo, a travolgerlo, e gli dava voce, con
macabra preveggenza.
Del resto, povero Bruno, hai evitato la
degradazione della vecchiaia che ora mi incalza assai da vicino. Pensa che mi
sono tagliato i baffi nerissimi che avevo allora e mi stavano bene, come i tuoi
a te. Bianchi facevano schifo alle donne giovani che ci piacciono tanto. A te
non sono venuti. Non gliene hai dato tempo. Finché sei stato al mondo, piacevi
alle donne. Non meno di me, lo riconosco. Eri un rivale degno. Del resto
piacevamo a tipi diversi e ci piacevano tipe diverse: mai ci siamo scontrati.
Anzi, ricordo che quell’estate, la
nostra penultima estate comune, notasti che io, come te, mantenevo la linea,
mentre Claudio era diventato “un cesso d’omo”.
Con i capelli me la cavo ancora: ho solo
qualche filo bianco. Spero che tengano duro, i capelli neri e il tenue,
delicatissimo filo della vita. Atropo ha spezzato il tuo troppo presto. Mi
dispiace Bruno, mi dispiace molto.
Claudio disse soltanto: “bella sì, ma
non guzza mica”.
“Te lo faccio vedere io”, pensai ma non
lo dissi. Sarebbe stata ybris infatti replicare con tanta
iattanza.
Ripresi a guardare la finnica bella e fine,
con sguardo un poco obliquo per non darlo a vedere. L’avevo presa di mira e non
volevo che se ne accorgesse.
Parlava di rado, senza bere
alcolici, sempre senza fumare e senza scomporsi. Consideravo il non fumare un
predicato di nobiltà. Allora era raro, come ora non avere il telefonino.
La rarità scandalizza gli idioti, i
servi più tenaci e brutali di ciascuna moda. L’originalità anche non affettata,
dà fastidio a costoro.
Vedevo Helena come un’immagine già
dipinta dentro di me.
In seguito seppi che non beveva e non
fumava anche perché sospettava di essere incinta. Forse per lo stesso motivo mi
aveva concesso così poco tempo, e agli altri corteggiatori ancora di meno. Ma
in quel momento non lo sapevo, e avevo bisogno di attribuirle ogni virtù, in
modo che se mi avesse dato il suo assenso, avrei potuto farne un idolo, o
almeno un modello da imitare per precisare la mia identità e rendere migliore
me stesso.
La guardavo senza ascoltare i miei amici
e impiegavo tutte le energie della mente per capire come potessi arrivare a lei
di nuovo; questa volta però andandole a genio. Ne avevo bisogno. Non potevo
fallire. Per crescere, per diventare un uomo, dovevo succhiare in senso fisico
e metafisico le sue ubertose mammelle[6] che, solo a guardarle,
diffondevano meravigliosa soavità e una strana consolazione.
La bella donna sembrava piuttosto
spaesata e disorientata in quell’ambiente di ragazzi, di sposati e di vecchi,
un luogo nuovo per lei, mentre io vi avevo già raccolto esperienze di amicizia
e di sesso, se non proprio di amore, e avevo ricordi importanti. Potevo fruire
di un certo vantaggio.
Ripresi a incoraggiarmi mentalmente:
“Dai Gianni ché ce la puoi fare. Dai, che tu non sei male; anzi sei l’unico
della sua levatura. Pensa agli altri italiani. Claudio, a parte lo stomacone,
non è brutto, è colto, e non è stupido, ma è un goliardone che fa del casino;
la sua insensibilità pachidermica di certo non si confà a quella femmina umana.
Luigino è un raffinato, ma, per fortuna, è un cinedo tra i più sdilinquiti: lo
chiamiamo “Natica svelta” senza sua offesa; Danilo beve e rutta, talora
brancola ebbro, e sospira per gli alcolici amati, se li sogna anche di notte”.
Danilo; digressione breve
Ricordai un episodio, per farmi venire
del buonumore.
Una mattina l’ubriacone professionista
era steso nel letto, a pancia in su, a bocca aperta. Sembrava che non
respirasse. Non capivo se era morto oppure, come al solito, ebbro. A un tratto
si svegliò piangendo e gridando: Dioniso gli aveva riempito la mente di furore
mandandogli in sogno la visione di una bottiglia di Tocai caduta a terra e
rotta. Raccontò, tra le lacrime, che aveva visto il liquido prezioso e amato
scorrere e sparire bevuto dalla terra permeabile e ghiotta. Il meschino non si
saziava di gemiti e lamenti.
“E’ il vino, è il vino che manca”,
ripeteva sconsolato. “Dovevo berlo subito!”
“Se vuoi, vado a strizzare dell’uva per
te”, cercai di consolarlo
“Sì, vai di corsa - rispose l’obnubilato
- perché se non bevo entro quattro minuti almeno un goccio, divento pazzo!”. E
invocava Dioniso con ululati lunghi
“Più di così?” pensai, senza dirglielo.
E corsi al bar per comprargli una bottiglia.
Una volta gli diedi il consiglio di non
dare troppo a vedere il suo vizio: a Padova un bidello dell’Università,
richiesto di lui, mi aveva detto che quella mattina non l’aveva visto:
probabilmente era andato nell’osteria a bere un goccetto. Il custode aveva
parlato con un tono tra lo scherzoso e il biasimevole.
L’amico mi guardò trasecolato, emise un
muggito, poi disse: “ma quale vizio? Di quale bidello e custode vai cianciando,
tu fighetto da Pesaro che giri con una macchina hitleriana!
Si chiama Giovanni, è un mio amico, e
tante volte andiamo a bere un’ombretta in compagnia!”.
Replicai solo dicendo: “in effetti che
male c’è? anche io mi chiamo Giovanni!”, poi tacqui, siccome le sue parole mi
parvero ebbre.
Ricordavo questi episodi ridendo tra me,
senza pietà per il poverino.
Poi tornai a valutare il presente: “Fulvio
ha adocchiato quella studentessa italiana arrogante, un inganno mascherato, per
ora, con l’intento malsano di farne la sua sposa e mettersela in casa.
L’apparenza violenta la verità, e il risveglio per l’amico infatuato sarà molto
amaro.
Quando quella ragazzotta graziosa e
prepotente sarà priva di maschera e si sarà rivelata quale una delle tre Erinni[7], allora non gli piacerà più, e le loro
nozze, se saranno inopportunamente avvenute, avranno un sapore cattivo. Quindi
lo sposo pentito andrà a piangere sulla riva del mare, come Odisseo a Ogigia,
quando gli venne a noia Calipso.
Ermes, mandato da Atena: "lo trovò
seduto sul lido: mai gli occhi/erano asciutti di lacrime, ma gli si struggeva
la dolce vita/mentre sospirava il ritorno, poiché non gli piaceva più la
ninfa, ejpei; oujkevti h{ndane nuvmfh "[8]. Un esempio di semplicità, verità e
spontaneità. Una spiegazione di quattro parole. Senza chiacchiere aggiunte.
Fulvio, altra digressione breve
Qualche anno più tardi infatti Fulvio mi
confessò che andava a piangere sul molo del porto di Chioggia invocando:
“Debrecen, dove sei, e voi amici miei, dove siete?” Rimpiangeva il tempo
perduto.
Ma nell’agosto del ’71, istigato da lei,
partì dall’Ungheria senza salutare nessuno e per due anni non si fece vedere.
All’epoca Fulvio non voleva figurare nel
numero degli scapoli malfamati e si assoggettò all’amore di una forsennata,
come il sire Agamennone con l’invasata Cassandra[9].
“Eh sì, eh - diceva ogni tanto - a una
certa età, la nostra, uno deve sposarsi”.
“Davvero?” facevo io, e procedevo sulla
mia strada peccaminosa, senza temere che il fuoco del cielo scendesse sulla mia
testa di peccatore incallito. Certamente non il fuoco di Sodoma sterminatore
degli uomini - donna.
Del resto ce ne sono ancora tanti
scampati a quel fuoco. Per fortuna. Più ce ne sono, più noi donnaioli siamo
contenti, per via della minore concorrenza.
Ma torniamo a quella sera di luglio e al
pensiero che passava in rassegna i possibili proci di Helena.
“Bruno, il romano, è belloccio, non
posso negarlo, e fisicamente potrebbe anche piacerle, ma grazie a Dio, non sa
parlare l’inglese ed è troppo estroverso, incline alla fanfaronata anche
cafona: per una donna siffatta colui non è abbastanza distinto, Helena lo
riterrebbe un ciarlatano da fiera; Alfredo non può piacerle: è troppo depresso
e insicuro, in preda a un’indolenza agitata, ricorda l’homunculus venuto
al mondo solo a metà, cosa stranissima[10]; Mario, il napoletano è grasso assai, e
non poco gozzuto. Per giustificarsi dice “ho preso da mammà”, ma di
fatto, in rebus ipsis, è più incline al cibo che a qualunque altra
cosa; la mente intronata di Fausto non riesce a connettere verbo con verbo. Un
qualche dio gli ha gettato pensieri confusi nel petto.
Tristano corteggia le donne con un’aria
da seminarista. Così becca solo le vecchie[11], a volte anche laide.
Ezio ci prova sempre in maniera
claunesca: quando va da ciascuna a chiedere: “Akarsz táncolni, akarsz
táncolni? ”[12], strizza l’occhio furbetto
e compie una ridicola piroetta roteando, come se avesse un piede cavallino.
Quindi il mattacchione si ferma e parla, a lungo, con l’eloquenza delle
marionette. La sua mente non sa produrre altro.
Non ha molto senno sotto la zazzera. Le
corteggiate il più delle volte gli ridono in faccia”.
Esageravo così, fluttuando tra
l’iperbole e il paradosso, facendo mentalmente caricature spietate anche degli
amici per farmi coraggio.
“I maschi stranieri - pensavo anche con
presunzione tipica del gallismo nostrano - non contano: non sono tanto
interessati alle femmine, e comunque non sono arsi dal fuoco sacro di Eros,
come te, vecchio mio”.
A dire il vero, una volta un ragazzo
finlandese mi aveva detto che si eccitava soprattutto quando vedeva scaricare
da un camion casse di liquidi alcolici. Naturalmente fece amicizia con Danilo,
un sodalizio celebrato tre volte al giorno con sorsate rapide ma colossali.
Forse anche per questa inclinazione un
poco perversa dei loro maschi avevo messo nel mirino in primis le femmine
finniche tra le altre straniere. Le italiane non erano ancora abbastanza
emancipate dal perbenismo sessuale. In confronto al cigno cui assimilavo
Helena, le connazionali mi parevano oche stridule e mal pennute.
Naturalmente esageravo.
Digressione breve: la Moraccia di Modena
e Claudio
Una sera una di loro, una Modenese detta
“Moraccia”, si affacciò a una finestra dicendo che lei e le sue amiche
dell’Università di Bologna a Debrecen si annoiavano a morte. All’epoca era
fidanzata con un giovane canuto che un giorno venne a prenderla, e in seguito
sarebbe diventato un ciarlatano famoso. Noi lo canzonavamo per la chioma
precocemente bianca, sempre molto curata, il cui albore spiccava vieppiù in
contrasto con i capelli nerissimi e un poco appiccicosi di quella sua
timoratissima fidanzata.
Claudio che tra le donne disponibili
beccava di tutto, dal prato posto tra i collegi gridò la sua litania
arcidiabolica: “per forza, perché non guzzate!”, e la moraccia strapazzata si
ritirò con sdegno, non senza gridare con urlo da stridula strige cui vengano
strappate le viscere: “maleducato!”.
“Sì, però io guzzo e non mi annoio”,
replicò il donnaiolo ancora impunito.
Claudio beccava qualsiasi donna non
facesse troppe storie. Una volta una quarantenne, all’epoca una mezza vecchia
per noi, gli chiese di aspettare un poco dicendogli: “a fiuk nem tudnak
várni”, i ragazzi non sanno aspettare.
Stavano facendo del petting appoggiati
al muro di un collegio, o a un albero, al buio.
Il dispettoso drudo se ne andò con un
ghigno beffardo, mormorando: ”"fuge rustice longe/hinc Pudor”[14] e lasciandola con le mutande a
metà delle cosce. Il donnaiolo non era certo raffinato, ma non era nemmeno
incolto.
Le urla e le maledizioni della donna
abbandonata risuonarono per tutto il campus universitario, alle due della
notte. E noi ci facemmo due grasse risate fino all’alba.
Università di Debrecen |
Quella sera cruciale io continuavo a
pensare: “Helena esige uno stile non pagliaccesco, vacillante o rumoroso, ma
razionale, dolce e sicuro. Perché quella donna è bella e ordinata. Una chiara
fusione di eros e logos.
Gianni Ghiselli, in questa confusione, ci
sei solo tu di adatto, di congeniale a lei. Ragiona e ringrazia Dio, chiunque
egli sia[15]. Ci sei solo tu. Altrimenti avrebbe
accettato di ballare con altri. Invece è ancora seduta là. Anzi, ora ti ha
perfino guardato. Ciao, sapessi quanto ti amo, profumata creatura, tesoro dagli
aromi soavi!
Adesso calma, Ghiselli, però: se agisci
con senno, se non perdi la testa o le lenti a contatto, se non ti ubriachi, non
ti lasci andare a mangiare, non ti ingaglioffi andando a fare casino con gli
altri, se non ti accontenti di un baccanale corrotto con una cialtrona
qualunque, quella gran figa spirituale, quasi un ossimoro vivente, la becchi
tu. E’ iscritta nel tuo destino. Lei può correggere le rotazioni della tua testa
e armonizzarle con il giro delle stagioni, degli astri, del cosmo. Magnifica,
magnifica. Splendore della sera di festa. Questo dì è solenne e verrà inciso
nelle tavole degli Annali della tua vita.
Stai calmo però. Per oggi non
invitarla più. Sì, ha accettato di ballare con te e ora ti ha anche guardato,
per carità, non dico di no, ma non invitarla. Dai retta.
Sì, d’accordo è la tua femmina, ti è
destinata ab aeterno, è della tua levatura, è cosmica, è una
sintesi di natura e di spirito, è quello che ci vuole per te, e la tua ricerca
nostalgica di tale incontro, stanne certo, coglierà il bersaglio tanto bramato:
le sue mammelle ti nutriranno lo spirito e non solo quello, vedrai. Ma ora non
fare l’idiota: adesso non devi invitarla con suppliche vischiose e inutili, da
perfetto imbecille. La voglia è grande, quasi cannibalesca direi, ma la tua
forza attuale è quella di un pigmeo affamato. Non tirare avanti rizzando la
coda impudico come il cavallo nero della biga di Platone[16].
[2] Non la pensa così Giocasta
nelle Fenicie di Euripide. La donna domanda al figlio Eteocle:
“pensi che essere guardati sia segno di valore? (periblevpesqai timiovn;) Secondo lei è kenovn, cosa vuota (v. 551.
[3] Il momento che precede la partenza
è raffigurato dalle sculture del frontone orientale del tempio di Zeus a
Olimpia.
[6] Cfr. il Faust I
di Goethe: “Natura illimitata, dove stringerti? Voi seni, dove? Voi, sorgenti
di ogni vita da cui la Terra e il Cielo pendono, cui questo petto
esausto tende” (Notte) .
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Devi rovesciare questo insuccesso,
metterlo sottosopra, capovolgerlo, farlo diventare un trionfo. Ascolta il tuo
demone, che poi sei tu, tu sei la tua incoercibile Moira. Devi riflettere. Ma
riflettere al cubo[1].
Tempus tacendi. Devi prepararti un
discorso colorito ma non superficiale, colto eppure originale, forte ma non
arrogante, ricco di pathos senza essere querulo. Chi può darle tanto? Nessuno,
a parte te. Anche tu sei un gran figo, se ce la metti tutta. Dai retta al
demone tuo, non contaminarlo con l’impulsività delle bestie. Oggi non è andata
benissimo ma la prossima volta vedrai: Cloto non permette alla sorte di stare
ferma, anzi: fa girare ogni fato[2].
Proprio tutta però devi
mettercela, Gianni. Nemmeno all’inerzia devi lasciarti andare, neanche a
cercarne una meno rara, preziosa, difficile.
E’ difficile, sì. Chiama a raccolta
tutte le forze, le capacità, le arti angeliche e diaboliche in tuo possesso.
Tra noi due ci sarà un alto agone
di natura fisica e mentale, una gara davvero olimpica. La vittoria di entrambi
sarà l’unione, fisica e mistica, una gioiosa ierogamia. Questa volta non puoi
sbagliare una sillaba, anzi nemmeno una virgola”.
Ondeggiavo tra il pessimismo,
l’esaltazione e l’autocorrezione ironica del superomismo.
Dovevo provarci di nuovo, più avanti.
Senza fretta funesta, fonte di calamità, e pure senza ozio cattivo, quello che
lascia passare l’occasione, sempre “calva di dietro” purtroppo.
Il mese di Debrecen passa in fretta;
l’intera vita umana è breve, e non è possibile rimetterla in gioco, come si fa
con una pedina.
Sapevo che non potevo permettermi
di sbagliare né di perdere tempo. Dovevo acciuffare, prendere per il ciuffo nel
momento giusto l’occasione offertami dal destino.
Mi vennero in mente dei versi di
Mimnermo:
" Ma di breve durata è come un
sogno
la giovinezza preziosa; e la tremenda e
deforme
vecchiaia subito sul capo è sospesa,
odiosa insieme e spregiata".
Quaranta anni più tardi, grande
mortalis aevi spatium, una grossa porzione della vita mortale, nel luglio
del 2011, sarei tornato a Debrecen, quasi vecchio oramai, tuttavia in
bicicletta, con una pedalata di 1200 chilometri in 8 giorni, e avrei
ricordato come un sogno quella sera e tutto quel mese fatato della mia
giovinezza preziosa, quando potei godere in pieno del favore degli dèi.
Intanto nell’attesa soffrivo, ma intuivo
che la sofferenza portava intelligenza della situazione[3]. Se volevo interessarla, dovevo oltrepassare
il personaggio che pure con grande sforzo e discreta soddisfazione avevo già
raggiunto, senza però essere diventato ancora una persona: in quel periodo
lontano ero piuttosto contento di avere costruito in me stesso il giovane uomo
non sgradevole, presunto elegante, non senza qualche nota di sprezzatura,
dotato di alcune letture buone, di un’automobile simpatica, quasi originale per
l’epoca, di denaro in quantità sufficiente per invitare a teatro e a cena una
donna ogni tanto, e questo anche grazie ai mezzi che mi elargivano la vecchia
nonna e le zie, le anziane tiranne, oramai domate e ridotte a dispensiere
generose del mio benessere materiale. “Sorelle Materassi”, le chiamava la
mamma.
Ebbene Helena Sarjantola, con il
suo stile nobile e maturo, cosciente di sé, mi fece capire che nella mia
umanità dovevo trovare qualcosa di meglio del dandy di provincia, del giovin
signore raffinato che volevo sembrare e non ero. Avevo bisogno di una donna
siffatta per diventare quello che sono. Avermi aiutato a trovare dentro di me
una persona migliore, ossia più buona, più intelligente, autentica e lieta del
personaggio che cercavo in vari modelli esterni, per imitarlo ed esibirlo agli
altri, è stato il grande dono suo.
Gliene sono grato ancora, dopo più
di quarant’anni da quell’evento. Ci voleva quella creatura di nome e formato
classico, Elena dalle braccia bianche come mandorle, dalle splendide chiome
sciolte sul collo candido[4], era necessaria per
provocare una nuova maturazione mia a quasi ventisette anni: se non l’avessi
incontrata, probabilmente avrei continuato per chissà quanto tempo a fare il
ragazzo carino, piacente, quale ero diventato dopo anni di esercizio in tal
senso: sorridente e un poco ridicolo, incipriato di alcune letture citate
spesso, anche a sproposito, esibite pacchianamente come l’automobile strana, le
magliette firmate, le scarpe di marca costosa, alternate con altre dalla suola
bucata, da comunista o da zingaro chic, noncurante dell’abbigliamento,
eppure domicilato in appartamentino di lusso nella piazza centrale di Padova,
una nicchia da fighetto. All’epoca ero, in qualche modo, fortunato, ma non
certo felice. Difettavo di autenticità e di realtà. Mi atteggiavo a comunista,
ad artista, ed ero solo un piccolo borghese sviato.
Da fighetto potevo trovare ragazze a
loro volta carine, ma senza esigenze di stile davvero elegante, di pensiero
profondo quale attribuivo a quella finnica che, conosciuta da poco, stava
transvalutando, cioè rivoluzionando la mia scala di valori fasulli, piccolo
borghesi e infantili.
La realtà era cosa più seria, moralmente
più seria di me.
C’erano diverse femmine appetibili
quella sera di luglio, la ismerkedési est [5], nel grande cortile dell’Università,
dove Eros ci aveva riuniti in tanti proprio per farci conoscere.
Alcune poi erano decisamente
belle: ad esempio Katalin, la ragazza ungherese conosciuta nel ’68, quando era
ancora fanciulla diciottenne. Nel 1971 non era più tanto pulzella, né come
esperienza né come atteggiamento: nel frattempo si era sposata. non bene, e
quella sera sembrava avere voglia di cornificare il marito spregiato, e proprio
con me, se non erravo nell’interpretare il tono aspro, cattivo, che usava con
lui, e le occhiate incoraggianti, i caldi sorrisi ammiccanti che mi
indirizzava. Avrei potuto vivere un’avventura piacevole e piccante con
l’indigena venusta e procace, godere di quelle natiche belle, per giunta
agghindate, da giovane callipigia magiara, ma costei aveva poco altro di bello
e nulla di fine, mentre io sentivo la necessità di Helena di Yväskylä per
crescere ancora.
Katalin per giunta non era contenta di
sé, e alla mia crescita non giovava piacere a una donna che non piaceva a se
stessa.
Così mi tenni impegnato per tutta la
“sera della conoscenza” a studiare Helena, onde trovare in me le parole adatte
per impressionarla, per lasciare un’impronta nell’anima sua durante l’incontro
successivo. Poi magari pure un segno di vittoria in quel corpo formoso che
compendiava il cosmo. Sarebbe stato un trofeo e un’apoteosi. Riguardo a
Katalin, che venne a invitarmi più di una volta, offrendomi anche un numero di
telefono, non coniugale e domestico, ma galeotto, cercai di prendere tempo, per
vedere se prima di accettarne o rifiutarne l’oblazione, per niente sgradita, potevo
avere una seconda occasione con l’altra, la femmina umana, anzi più che umana:
nel mio sentimento Elena era piena di grazia, piena di Dio, foriera di un
destino buono, del fato che, solo, era mio. Era l’eterno femminino che doveva
trarmi verso l’alto[6].
Annusavo come un cane dalle buone
narici. Fiutavo una serie di eventi favorevoli, da non lasciarmi scappare.
Contavo sulle capacità della mia mente e del mio carattere.
La luce del mio intelletto non doveva
disperdersi, ma focalizzarsi su quella donna, illuminarla e scaldarla. La forza
della mia intelligenza doveva manifestarsi diritta come un raggio di sole, o
come una freccia, e colpirla. Senza farle del male però.
Salutai gli amici: “Avete ragione
ragazzi, sono fissato con le finniche. Vado a letto in anticipo per pensare a
quest’ultima senza essere disturbato da contubernali molesti quali voi siete.
Buona notte”.
“Fai bene a pensarla da solo, tanto non
guzza!”, ripeté Claudio battendo sul tavolo il suo pugno freddo, da diavolo,
mentre un sorriso carnivoro gli deformava il volto.
Un augurio sinistro che non mi smontò,
anzi ravvivò il mio desiderio di Helena con il beneficio del tempo e intanto di
solitudine significativa.
“Il demonio è l’infernale
personificazione della negatività”, mormorai.
Poi a voce alta dissi: “Tu Claudio
ora per me sei e{n ti tw`n ajdiafovrwn[8], una cosa di quelle indifferenti, di cui non tengo
alcun conto. Comunque la bellezza non subisce decreti sulla piazza volgare del
mercato.”
Uscii e mentre passavo accanto alla
fontana, variopinta, illuminata da luci colorate pensai: “il successo delle
prossime mosse mi aiuterà a trovare la via della mia vita. Non sono un
sapiente, ma alcune cose le so”.
Andai a letto. Ero solo e sospiroso, ma
il guanciale non era pieno di sassi[9], né conteneva uno zoccolo
di giumenta [10]. Piuttosto era
soffice e sodo nello stesso tempo, piacevole e utile come le mammelle di
Helena. “La vita imita l’arte”, pensai dandomi scioccamente un sacco di arie,
“non l’arte la vita”[11].
Mi addormentai speranzoso. Abbastanza.
[3] Cfr. Eschilo, Agamennone 177 tw` pavqei mavqo~, attraverso il dolore
la comprensione. Poi Ovidio: “Dolor hic tibi proderit olim” (Amores,
III, 11, 7) Un giorno questo dolore ti sarà utile.
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Il “ricevimento del rettore”. Il giro
nella puszta.
Dopo la festa della conoscenza, per due
giorni interi non la rividi, né la sentii, ma non smisi di cercarla con gli
occhi, con le orecchie e perfino con il naso, ovunque mi aggirassi, pensandola
spesso: sul prato, nel grande bosco, in piscina dove nuotavo di giorno, allo
stadio dove correvo a mezzogiorno e al tramonto, poi di notte quando vagavo da
solo per l’oscurità dei sentieri della grande foresta, e la mattina seguente
dentro l’università, durante gli intervalli tra le lezioni, come facevo nei
corridoi del liceo Mamiani di Pesaro quando, diciassettenne, ero innamorato di
una ragazza bionda, di Fano.
Un amore mai contraccambiato, un
cupo capriccio da adolescente. L’insuccesso di allora si rivelò con il senno
del poi, una fortuna grande.
I bersagli mancati non sono adatti a
noi, e il successo è fallirli.
Pure nella mensa cercavo Elena, tra lo
schioccare dei piatti e il vociare delle inservienti. Non la incontravo, ma
l’avevo in mente, e sentivo il bisogno ansioso di vederla, di parlarle ancora,
di ascoltarla, per fare l’amore con lei e formare un modello dentro di me, un
paradigma di vita amorosa trionfante. Volevo entrare in comunione con quella
donna per diventare migliore. Mi avevano colpito i suoi sguardi e i suoi
atteggiamenti appropriati alle parole che diceva, piene di senso e non banali.
Avevo invece dei dubbi sullo stile mio, sull’eloquio inadeguato alla sua bella
persona, e cercavo un’altra occasione per muovermi e parlare meglio: una sorta
di esame di riparazione nella scuola dell’amore. Alla donna che mi aveva messo
nel fuoco dovevo significare con lingua non inerte ma diritta, con parole
assolutamente plastiche, che non ero un uomo volgare, nemmeno banale: dovevo
appiccare fiamme d’amore anche dentro di lei, dirle che amavo la vita, credevo
nell’educazione, volevo sapere di letteratura, di filosofia, di arte, di
cinema, la più moderna e progressiva delle arti[1]; che avevo voglia di fare sport con
metodo, per mantenere la migliore delle forme possibili a me. Questo e altro
potevo realizzare, pensavo, se quella donna bella e fine mi avesse aiutato.
Dovevo incontrarla di nuovo per tentare
ancora la sorte: la sera della conoscenza le speranze della mia vita, di
cambiarla in meglio, erano state umiliate, ma “Cloto fa girare ogni fato -
ripetei[2] - speranzoso e devoto.
E se lei continuerà a non
incoraggiarmi - conclusi - insisterò con dieci bocche, dieci lingue per bocca e
con voce di ferro[3]”.
Finché, due giorni più tardi, la
vidi di nuovo seduta nel Megaron, la grande sala centrale dell’Università.
Parlava con una bionda. Eravamo al “ricevimento del Rettore”: la festa
pomeridiana. Nel mezzo della sala c’era un tavolo grande coperto di piatti con
dolci, e irto di bottiglie con liquidi vari, per lo più alcolici. Mi sentivo
meno insicuro che al primo incontro serale: questa volta ero entrato sapendo
già chi cercavo e che cosa volevo; inoltre, nel pomeriggio estivo il salone
veniva irradiato da un sole ancora alto attraverso il lucernario del soffitto,
e quando sono evidenziato e rallegrato da una fonte luminosa, massime se
naturale, mi sento più bello e meno insicuro che nella penombra, più capace di
comunicare simpatia a chi mi piace, forse perché provo una simpatia grande per
la fiamma del dio che nutre la vita e le dà colorito. Sentivo rifulgere dentro
di me la forza santa del sole.
L’eroica luce del sole illumina le opere
buone dei buoni e scopre gli obbrobri dei malvagi che infatti, come denuncia
l’apostolo giovane, preferiscono le tenebre.
Pregai dunque il dio di attribuirmi una
vita piena della sua luce e di darmi la splendidissima donna che amavo.
A dire tutta la verità, quando vidi il
termine fisso dei miei continui pensieri, sentii il bisogno di farmi coraggio
con una palinka all’albicocca, una specie di grappa ungherese,
un farmaco per la mia insicurezza: infatti, nonostante la preparazione mentale,
la santa luce del sole estivo, e l’ottimismo di fondo, io con la bella donna
che, probabilmente annoiata, dopo due soli balli con me, era tornata
direttamente al tavolo suo, ero svantaggiato in partenza. Come nella vita del
resto. Stavo risalendo la china lunga ed erta, uno Stelvio dalla parte di Prato
da fare in bicicletta in non più di due ore[5]. Sono venticinque chilometri di salita,
ora più dura, ora meno.
Dovevo provarci di nuovo.
Dopo avere bevuto, non a dismisura, e
averla guardata con una certa insistenza, non proprio con fissità, ma in modo
piuttosto tenace, senza del resto venirne contraccambiato, se non di sfuggita,
mi avvicinai a lei mentre beveva una birra, con lentezza, e parlava con voce
bassa, adagio, alla vicina, verosimilmente un’altra finnica, bionda però, e non
bella. Aveva le gote rossicce. A dirla tutta, un cesso di donna quell’altra.
Salutai Elena con calore, ma lei, quasi
stupita, sembrava non ricordarsi, o ricordarsi appena, di me; quindi, con
fatica e imbarazzo, cercai di rammentarle il nostro incontro serale; poi, in
modo diretto, giacché oramai era l’unica cosa da fare, la ratio extrema,
dissi che due sere prima io l’avevo notata subito per il suo stile, e non
l’avevo scordata neppure per un momento. Anzi, avevo pensato a un nuovo
colloquio tra noi. Avevo passato due giorni aspettando di incontrarla un’altra
volta per dirle che avrei voluto conoscerla meglio.
Speravo che potessimo parlare ancora.
“Quando e di che cosa? ” mi domandò con
miglior labbia e senza intonazione retorica, guardandomi, del resto, con
un’espressione di curiosità vagamente ironica. Sembrava volesse lasciare la
scelta e l’iniziativa a me, visto che ero, e chissà perché, tanto interessato a
un colloquio con lei.
Notai che mi stava guardando in maniera
già un poco meno generica. La mia proposta diretta doveva averla incuriosita.
Il suo sguardo sembrava aggiungere alle parole: “E allora? Quali interessi
possiamo avere in comune? Dimmelo tu, visto che ci tieni tanto”
Mi sentii incoraggiato, e, sorridendo,
risposi: “il più presto possibile! Adesso! Se vuoi, ti porto a vedere la puszta,
la grande pianura senza alberi. Conosco una csárda dove
suonano egregiamente le danze ungheresi di Brahms, si beve del vino buono e si
può parlare stando in pace. Sono sicuro che abbiamo qualche cosa, anzi molto da
dirci!
Hai un’aria da persona riflessiva. Mi
piacerebbe sapere che cosa pensi e dirti quanto può interessarti di quello che
penso io, rispondendo alle tue domande, se me le farai”. Scherzosamente e non
poco scioccamente conclusi dicendo: “videlicetomnino sine
pecunia”. Elena fece un sorriso forse di compatimento, non privo comunque
di simpatia. Dal fatto che cercavo di fare bella figura con lei, aveva capito
che chiedevo il suo aiuto.
E non me lo negò. Con questo mi diede la
forza e la voglia di offrire il mio aiuto ad altri quando me l’avrebbero
chiesto, Anzi, lo feci con lei stessa una ventina di giorni più tardi, come
vedremo.
Mi guardava con un’espressione sempre
meno generica, quasi benevola, comunque non riluttante. L’altra mi fissava con
gli occhi sgranati e poco espressivi: non capivo nemmeno se fosse in grado di
comprendere quanto dicevo nel mio inglese trattato come se fosse una lingua
neolatina, cioè inglesizzando molte parole italiane o pronunciando le inglesi
con un forte accento pesarese.
“Se vuoi, puoi invitare anche la tua
amica”, dissi, accennando con il capo alla biondastra imbambolata e brutta
assai, a dire il vero.
Accanto alla bellezza, la bruttura
appare più deforme.
“In questo caso, chiamo un mio amico
italiano intelligente; così, in modo più vario, ci scambiamo notizie sulle
culture, credo alquanto diverse, dei nostri paesi”.
Il tono doveva essere quello giusto: la
bella donna, dalla prima curiosità quasi stupita, era passata a uno sguardo
sempre più attento. Anche l’idea di farla salire sulla mia automobile nuova e
poco comune, mi faceva coraggio nella mia debolezza di allora. Helena mi aveva
guardato con simpatia, finalmente: forse si era accorta che non ero brutto del
tutto, né integralmente cretino, né proprio vuoto e volgare. Quindi, con tono
ed espressione non avversi alla mia proposta, si rivolse in finlandese a
quell’altra chiedendole, immagino, che cosa ne pensasse. La bionda tardava a
rispondere. Allora l’idolo mio cominciò a parlarle in inglese, probabilmente
per significarmi che potevo intervenire in favore del programma.
Lo feci con foga, caldeggiando la puszta sconfinata,
la caratteristica osteria di Hortobágy, i violini e i cembali degli zigani che
suonano le danze popolari magiare e le danze ungheresi di Brahms. Fuori
dalla csárda invece si poteva ascoltare il canto del vento
estivo che soffiava dalla puszta sulle nove arcate del celebre
ponte e le rendeva arcanamente sonore.
L’altra, l’attonita bionda che si
chiamava Marja Liisa e sembrava intronata, continuava a fissarmi con gli occhi
sbarrati senza dire parola, come Argo, il mostro insonne dalle mille pupille,
messo dal padre Inaco a guardia di Iò, la fanciulla concupita da Zeus. “Chissà
- pensai - forse questa specie di guardiano, o forse di Gorgone è stata posta
alle calcagna dell’idolo mio per controllarla. Cercherò di neutralizzarla. Io
non sono Perseo, mi mancano i calzari alati, ma questa la eludo, tonta com’è”.
Quindi ruppi gli indugi e dissi: “Va
bene. Ora chiamo il mio amico”.
Allora il bersaglio massimo dei miei
desideri disse con voce soave: “Sì, andiamo nella puszta”.
Veramente si poteva parlare anche lì, ma
la puszta era un pretesto per andare via insieme e creare un
precedente, magari con una complicità da sviluppare. Come quella instaurata con
Fulvio, la prima volta di Debrecen, nel luglio, già allora lontano, del 1966[6].
Corsi a chiamare l’amico, trattenendomi
per non fare salti di gioia. Sì, quella donna, molto probabilmente, era
destino. La stessa Afrodite dal dolce sorriso ci spingeva benignamente
all’unione da lei preparata e benedetta.
io negli anni 70 |
Ancora l’amico non aveva ingranato con
la futura moglie, l’insolente del Carso.
“Va bene, va bene”, lo incalzai, “io
voglio la mora. Non è per gioco né per vanità che la voglio. Io la amo. Quella
non è una donna, è la dèa che completerà la mia nascita di uomo umano.
Sbrighiamoci però: non posso perdere per colpevole inerzia quello che mi offre
il destino con tanta benevolenza! Ora il tempo per me ha un senso profondo”.
Aggiunsi queste parole con un’enfasi tale che doveva togliere ogni dubbio alle
mie intenzioni.
Così tutti e quattro salimmo sulla nera
Volkswagen decappottata. Cercavo di fare bella figura anche guidando
l’automobile. Se non altro, da appassionato ciclista qual ero, davo sempre la
precedenza alle biciclette. Ma anche ai pedoni. Ai più deboli insomma. Da
bambino tenevo per Ettore e per i Troiani. E per gli Indiani massacrati dai
bianchi nei film western. Sono sempre stato dalla parte delle vittime dei
prepotenti.
A metà strada, Elena disse che da come
mi comportavo alla guida sembravo una persona gentile e sicura. Ero tutto
contento. Mi sembrava che un cielo più vasto vestisse il mondo di luce
purpurea. Duravo fatica a non scoppiare di gioia. Ma non dovevo esplodere.
Dovevo procedere sfruttando l’abbrivio del successo appena iniziato. La bella
donna, presa di mira dalle mie brame, dal bisogno del suo corpo e del mio
riscatto, stava entrando in sintonia con me. Stavo ritrovando l’amore
difficile, troppo spesso smarrito, di mia madre, della nonna Margherita, di mia
sorella, Margherita anche lei, e delle nostre zie, Rina, Giulia e Giorgia. Le
ho recuperate al mio affetto e alla mia gratitudine grazie anche all’amore
contraccambiato da Elena.
Attraversando la puszta con
gli occhi umidi dalla felicità, notavo con simpatia le oche e le pecore
bianche, gli enormi maiali neri, le falangi di girasoli verdi e gialli, i
cavalli pezzati, le farfalle variopinte, i pozzi dalle lunghe antenne
scenografiche; tutto con simpatia e gioia guardavo, perfino le grosse nuvole
scure e acquose che da occidente minacciavano pioggia.
Scorreva un torrente cromatico con un
mormorio che faceva eco ai miei sentimenti.
Ogni cosa aveva una sua attrattiva
poiché faceva parte di un processo naturale che mi apparteneva. Era lo scenario
della mia crescita in termini umani.
Mi sentivo in armonia e in comunione con
il mondo, come sempre succede quando si viene contraccambiati nell’amore o
quando si crea qualche cosa di bello. Questo l’avrei fatto più avanti, se
quella donna ispiratrice di sentimenti forti avesse riconosciuto e favorito il
mio genio.
Arrivati a Hortobágy, distante da
Debrecen una trentina di chilometri, entrammo nella grande osteria dove gli
zigani suonavano violini e cembali.
Nella loro musica, già ascoltata negli
anni precedenti in vari locali di Debrecen, e lì nella puszta,
sentivo fin dall’estate lontana del ’71, l’eco di un tempo remoto che però non
mi induceva alla nostalgia, ma viceversa mi dava la spinta a procedere, “soffio
possente di un fatale andare”[7], poiché confrontando
il presente con il passato, notavo un continuo progresso che non si sarebbe
arrestato durante la mia vita terrena, forse neppure oltre la morte. I suoni
discordanti che avevano composto la mia vita fino a quel momento potevano
essere composti in una melodia ricca di significato e di promesse riguardo a
successive armonie.
“Chi si affatica sempre a procedere
oltre, noi possiamo redimerlo”, dice il coro di angeli nell’atto di salvare
Faust[8].
Entrammo e ci sedemmo a un tavolo
situato vicino a una stufa di maiolica o terracotta policroma, bianca e azzurra
come una formella robbiana. Mi vennero in mente quelle viste alla Verna un
pomeriggio che ero salito lassù durante un giro ciclistico della Toscana. La
mattina ero andato a vedere la Maddalena di Arezzo, la
Madonna incinta di Monterchi e la Vergine della Misericordia di
Borgo Sansepolcro: figure semplici e belle, ideali e reali, dolci e risolute
come la donna che stava seduta di fronte a me. Quel giorno, le immagini di
Piero della Francesca, il giaciglio dell’onesto Francesco, lo stesso Gesù della
pinacoteca del Borgo, il Cristo che esce dal sepolcro, “accigliato colono
imbalsamato dal sole”[9], mi avevano
riconciliato con la religione cristiana, facendomi antivedere una risurrezione
mia, grazie alle donne belle e fini che avrebbero donato gioia e conforto alle
solitudini immense, alle fatiche erculee della vita da asceta pagano cui ero
predestinato da sempre.
[4] Nell'Edipo re il sole
oltre essere " pavntwn qew'n provmo"" (660), il primo fra tutti gli dei, è anche la
fiamma che nutre la vita, "th;n pavnta bovskousan flovga" (v. 1425);
nell'Edipo a Colono (v. 869) è, con una ripresa dell'idea
omerica, "oJ pavnta leuvsswn JvHlio"", Elio che vede
tutto. Platone nella Repubblica (508c sgg.) insegna che
il Sole è figlio del Bene che il Bene generò simile a sé: infatti quello che è
il bene (to; ajgaqovn) nel mondo
intelligibile (ejn tw`/ nohtw`/) è Elio nel mondo visibile (ejn tw`/ oJratw`/). Il dio Elio in effetti
occupava il posto che verrà attribuito a Cristo: il 25 dicembre, il solstizio
d’inverno nel calendario giuliano[4], prima dell’affermarsi del cristianesimo,
era il dies natalis solis invicti. La scuola di oggi fatta per
raccomandati figli di raccomandati o per figli di facchini predestinati
dall’empia ingiustizia al facchinaggio, non insegna più queste verità.
Continuerò a farlo io con questo blog.
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I colloqui nella csárda e
nel bosco
I tavoli e le panche dove ci eravamo
seduti erano di legno scuro e massiccio, probabilmente lo stesso delle querce
del grande bosco di Debrecen, visto che la puszta è priva di
alberi.
Elena ordinò un caffè e dell’acqua, io
lo stesso: volevo parlarle e ascoltarla con totale lucidità.
Pensai che non potevo parlare da persona
ordinaria: se non avessi trovato la levxiς dell’uomo tw'/ o[nti kalo; ς kajgaqovς, sarei stato ricusato per la seconda
volta, e per sempre.
Era necessario pensare bene al contenuto
non ordinario della mia affabulazione: scegliere quello che dovevo dire, a{ te lektevon, e la forma elegante
delle parole: come dovevo dirle: wJς lektevon.
“Posso assumere tre ruoli - pensai - non
di più: lo studioso - artista, lo sportivo e l’uomo capace di amare una donna
dandole gioia e aiuto. Più dilettoso in questa parte, piuttosto austero nelle
altre due. Simplex munditiis”.
Tale compito assegnai alla mia parte di
attore, mentre facevo il regista di me stesso.
Dovevo mettercela tutta per
piacerle, e ce la misi, e fu sufficiente.
“Senti, Elena”, le dissi. “Ti chiami
Elena, vero?” La bella donna annuì.
Non dissi che Eschilo etimologizza il
suo nome con “colei che distrugge le navi”, annienta gli uomini e le città”[1]. Infatti, a parte che l’etimologia è
fantasiosa, io da quella donna mi aspettavo tutt’altro che distruzione: doveva
essere colei che mi avrebbe costruito e fatto diventare quale volevo essere, quale
dopotutto ora sono.
“Che cosa è l’amore per te?” Le
domandai. Molto direttamente, forse anche troppo, volevo saggiare il terreno
della sua disponibilità erotica e dirle qualche cosa di incoraggiante all’eros,
se, rispondendo, mi avesse dato la pur minima occasione di farlo.
Rispose: “E’ un sentimento positivo: che
la mia umanità si espande e comunica qualche cosa di buono. Siamo qui al mondo
gli uni per gli altri.
Io adesso provo amore, individualmente,
per un uomo che mi aspetta in Finlandia, ma generalmente lo sento per tante
persone, per tutte spero, e per ogni creatura vivente”.
Riflettei un momento su questa risposta,
degna del suo stile. Quella donna mi nobilitava la vita.
“Sì è in gamba come pensavo, è del mio
stampo e della mia levatura. Purtroppo ha un compagno, ma non credo ne sia
innamoratissima. In fondo il suo amore singolo non esclude l’umanistico,
un mare magnum dal quale potrebbe emergere l’individuazione
per un’altra persona. Potrei essere io da come attentamente mi guarda. Sarebbe
la mia salvezza dal naufragio sempre temuto. Ora devo trovare un pensiero
profondo tuffandomi nell’anima di lei, poi esprimerlo con parole belle e
luminose. Il mio amore per Elena deve assumere la forza di un fremito cosmico.”
Quindi, assecondando la mia speranza,
domandò: “E per te, l’amore cos’è?
Scusami, non ricordo il tuo nome”.
“Gianni. Per me prima di tutto è
emozione: esaltazione estetica dello spirito annoiato dall’ottusità e dalla
disonestà dei più, dalle filastrocche dei luoghi comuni. Io non riesco ad amare
“generalmente” le persone adulte delle quali in passato mi sono fidato troppo,
e le conseguenze sono state penose. Caso mai, anzi senz’altro, umanisticamente
amo i ragazzini, i miei allievi. Sì, quelli li amo comunque, siccome non
trovano ridicolo e innaturale che non diffidi di loro, che voglia aiutarli a
crescere buoni e forti. Gli alunni mi curano l’anima[2]”.
Feci una breve pausa, poi conclusi:
“Dell’amore individuale e sessuale penso che sia la cosa più importante della
vita e del mondo intero. Se non lo fosse, la genesi non comincerebbe di lì,
scrisse, a ragione, un poeta italiano suicida nel dopoguerra”[3].
Mi guardava con interesse sempre
maggiore.
Poi disse: “Tu mi sembri un uomo strano,
singolare. Prima, osservandoti nel salone dell’università ho notato che hai
qualche cosa di particolare negli occhi”.
“Sono molto miope e ho le lenti a
contatto” feci con ironia palese, e con modestia ostentata, del tutto falsa.
Sapevo bene, già allora, che gli occhi sono il centro dell’energia erotica.
Si nescis, oculi sunt in amore duces [4], ricordai senza dirglielo. Ho la
tendenza a citare e devo guardarmi dal cadere nel cattivo gusto, nella parte
dell’erudito ombroso e ingobbito: “davanti a lui ogni uccello giace spennato”[5]. Le citazioni non possono essere più
che i cavalli laterali della troika. Gli altri due destrieri siano sentimento e
fantasia. La ragione rimanga l’auriga.
Che ne dici lettore? Cito troppo? Sono
un pedante mezz’orbo di occhi e di mente? Fammi sapere con tutta franchezza.
Elena sorrise e continuò. “Quello che
dici, mi conferma che non sei una persona comune. In te ci sono dolori molto
sofferti, ma c’è anche qualche cosa di intelligente e di buono che può
prevalere, se qualcuno ti aiuta”.
Colsi la palla al balzo, immediatamente,
con zampata da giovane leopardo affamato, e dissi: “Aiutami tu. Tu puoi farlo
perché mi piaci, mi emozioni, mi costringi a pensarti, mi stimoli a fare bella
figura.
Ti sono molto grato di avermi
interpretato tanto benevolmente.
Anche io in te ho visto qualche cosa di
non ordinario, e fin dalla prima sera, quando tu non mi avevi notato”.
“Non c’era abbastanza luce a quell’ora”,
si scusò.
“Lo immaginavo. Sotto quella luce
incerta e distratta non potevi notare una presenza introversa come la mia. Io
invece ti ho notata lo stesso, perché tu eri luminosa come un giorno senza
nubi, o come luna piena che risplende nelle notti serene e quasi nasconde le
stelle. Tu brilli sempre, anche adesso: rifulgi di luce corporea, e di luce
interiore. Io vorrei orientare la mia vita sul corso della tua luce”.
Dovevo tradurre il mio desiderio di
quella donna in immagini lucide e profondamente emotive.
“Io… io credo che mi innamorerei
di te senza riserve, credo che potrebbero unirci ponti vertiginosi se tu non
fossi legata a un altro.”
“Già. Peccato che l’altro in me non veda
quanto vedi tu”. Questa risposta, sussurrata, mi parve un altro particolare
decisivo. Lo era.
Afrodite e suo figlio mi stavano
togliendo ogni dubbio.
“Forse non siete abbastanza
sintonizzati, dico spiritualmente”, azzardai, tutto contento, e rivolsi un
sorriso amichevolmente giocondo a Fulvio che cercava di comunicare con la
finnica imbambolata.
“Può essere” fece Elena con un sorriso
tra l’ironico e il mesto. “Scusa, sevo dire due parole alla mia amica”.
Pensai che aveva manifestato una
stravagante autonomia dal suo uomo, una libertà dalle convenzioni sociali in
base alle quali la fidanzata avrebbe dovuto respingere con sdegno, perfino con
“santa” ira il mio corteggiamento, almeno nella fase iniziale. Non avevo mai incontrato
una donna così educata e nello stesso tempo tanto “dissoluta”, in senso buono,
ossia sciolta dal perbenismo piccolo borghese tipico delle fidanzatine
italiane.
Potevo continuare a punzecchiarla in
molti sensi
Si rivolgeva in finlandese alla biondastra
che si trovava in difficoltà a parlare con Fulvio, disorientato anche lui.
Forse pensava alla ragazza carsica che sembrava riluttare. Ero felice, ogni
momento di più. Avevo trovato il tono giusto, atto a suscitare l’interesse non
solo generico della splendidissima donna: procedendo metodicamente su questa
via[6] potevo farla innamorare di me, e
non in modo proditorio o sadico, ossia per umiliarla e tradire la parola data,
ma in buona coscienza e rispettando la santa fides, fundamentum
iustitiae, siccome ero innamorato di lei e sentivo che dalla comunione dei
nostri corpi e dalla trasfusione reciproca delle anime poteva nascere in tutti
e due una maggiore comprensione della vita e di quanto è umano, una intelligenza
indispensabile per la crescita delle nostre persone e della missione di
educatori che ci premeva. Mangiammo un piatto di carne senza le patate
aborrite, insipide come donne insignificanti, e per giunta eterne nemiche della
santa snellezza dovuta al mio progetto e a me stesso. Sapevamo entrambi che
l’aspetto ordinato, a partire dalla snellezza, fa parte del dovere
dell’insegnante il quale rappresenta una figura emblematica agli occhi
dell’allievo. Come un principe per il suo popolo. Condividevamo il disprezzo di
Hanno Buddenbrook per i professori connotati dallo squallore[7].
Quindi tornammo Debrecen nella notte
nuvolosa, attraverso la puszta più che mai deserta. Arrivati
nel campus universitario, davanti al kollegium, salutammo Fulvio e
Marja Liisa che non avevano trovato modo né voglia di comunicare e si
separarono subito non senza un paio di smorfie che apparvero spettrali.
Noi due invece, potenziali amanti, gli
amanti in pectore, nel petto già fervido, il mio almeno lo era, ci
incamminammo per il bosco segnato da parecchi sentieri, verso la zona dov’era
un laghetto con un ponticello di legno. Giunti là, sedemmo su una panchina
sotto una quercia immensa, sull’orlo dell’acqua. Elena mi parlò della sua vita
in Finlandia, del suo lavoro che amava e del suo uomo di cui, invece, non
sembrava innamoratissima. Disse comunque che voleva rispettarlo, e che gli
voleva bene, particolarmente da quando, negli ultimi tempi, avevano quasi
deciso di vivere insieme perché lei forse, probabilmente, aspettava un bambino.
Quest’ultima notizia mi impressionò, ma non fu un deterrente tale da farmi
cambiare proposito. Anzi, il desiderio di unirmi a lei ne fu incentivato:
all’amore si aggiungeva il gusto del proibito e quello della rivalsa: lei era
bella e fine; di lui disse che era facoltoso, una specie di Puntila brechtiano,
non colto, un poco strambo, un poco beone e fisicamente prestante.
“Comunque - pensai - ai suoi occhi non è
un magnanimo eroe, come dovrò apparirle io, per vincere la battaglia erotica.
Battaglia e guerra: “Militat omnis amans et habet sua castra Cupido”
Sentite le sue parole, il mio
demone avido, magro, cupamente famelico, mi spingeva più che mai a corteggiarla
perché si unisse con me e mi nutrisse con la sua carne bianca e sostanziosa,
dopo avere abolito tutti i divieti di cui ero stato imbevuto in famiglia e in
parrocchia, tabù che in passato mi avevano oscurato la gioia di vivere.
“Perché hai scelto quell’uomo?” Le
domandai a bruciapelo.
“Perché è buono, mi dà sicurezza e il
suo aspetto mi piace”.
Gongolando dentro di me senza
farlo vedere, anzi con aria compunta, un poco gesuitica, le feci notare che non
gli aveva attribuito genio né intelligenza, le doti che alle donne di una certa
levatura piace al di sopra di tutte le altre. Infatti sono qualità di rilevanza
cosmica. La potenza suprema che attira le femmine umane belle e fini, Elena non
l’aveva riconosciuta al suo compagno finnico, mentre in me la stava rilevando e
potenziando dopo un’ora di conversazione.
La partita a scacchi dunque poteva
procedere. Lo svantaggio della prima serata era stato colmato e si stava
rovesciando in vantaggio.
Per confermarlo, passai all’attacco. Le
domandai: “Sicché non è tanto intelligente il tuo fidanzato?”
“Crede di esserlo” rispose non senza
ironia, aprendo la strada al mio trionfo, infondendo ulteriore coraggio al
demone mio.
“Un particolare decisivo”, pensai
E subito dissi: “Anche se tu hai un uomo
e aspetti un figlio da lui, io ti amo, e sento che se mi ricambierai, noi ci
rafforzeremo e diverremo più felici, dum vita manebit”[8]. Se non potrai amarmi, io accetterò
questo destino malvagio: sarò un vir fortis cum mala fortuna compositus.
Cercavo di controbilanciare il mio inglese modesto e troppo neolatino con il
latino vero, quello classico che la bella donna conosceva e intendeva, come
vedremo.
“Forse non aspetto un bambino”, replicò,
“né rimarrò con lui. Sai, io non sto del tutto bene. A volte sento grandi
dolori nel ventre. Quand’ero più giovane, da adolescente, mi hanno operata. Poi
stavo molto meglio, ma ultimamente, con l’interruzione delle mestruazioni, sono
tornati i dolori. Un medico di Yväskylä, poco prima che partissi, mi ha detto
che devo farmi vedere presto, qui a Debrecen. Potrei essere incinta, ma
potrebbe essere cancro. Ho paura. Comunque devo fare una serie di analisi,
cominciando dal test di gravidanza. Ho molta paura. Non sono sicura di
aspettare un bambino, né di volerlo, e ho terrore di essere malata a morte. Poi
ho altri timori”.
Qui si interruppe. “Cioè?” le domandai
spaventato, commosso, eccitato. Quella donna era la femmina incinta: la
madre, amata nobis quantum amabitur nulla [9], la mamma che fino allora non era stata
abbastanza affettuosa con me sebbene, ora ne sono certo, mi amasse, né io ero
stato capace di affetti generosi con lei, nonostante l’amassi molto; Elena era
inoltre la giovane bisognosa di aiuto e conforto: la figlia che non avevo e
forse non avrei avuto mai il coraggio di mettere al mondo; era la donna
intelligente, ammirata e desiderata: l’amante e l’amica quale mai avevo
incontrato.
Le femmine leziose, le sbiadite e le
variopinte, le insipide come patate, le frustrate aggressive, le cretine
integrali, le morte di studio o di sonno, le commedianti incolte, le
chiacchierone petulanti in vari modi incontrate fino a quel momento non avevano
mai suscitato interesse nell’anima mia.
Certo non così grande e forte
“Cioè non so parlare ungherese, e in
clinica temo di non potermi spiegare”.
“Ti aiuto io”, proposi, “io me la cavo,
anzi, per te sarei capace di improvvisarmi eloquente anche in questa lingua
magiara”. Non dissi “ostrogota” poiché l’ungherese e il finlandese hanno una
lontana parentela. Sarebbe stato offensivo. Aggiunsi che le mie parole si
sarebbero accese di una luce chiarissima, riverberando la splendente bellezza
di lei. Una bellezza, aggiunsi, che era anche intelligenza e moralità.
“Voglio farmi ricordare da te,
meritando” conclusi.
Ma Elena non si lasciò impressionare
granché dal mio slancio: mi prese la mano destra e disse: “Gianni, io non ho
bisogno di un amante. Tu sembri buono. Possiamo essere amici, se vuoi. In ogni
modo mi piaci: sei intelligente, sei simpatico, sei gradevole. Tu sai piacere,
davvero, e io sto imparando a stimarti, a volerti bene. Però non deludermi con
una richiesta che ora non posso esaudire. Adesso non lo farei con nessuno,
nemmeno con lui”.
La guardavo con aria di assenso.
Le dissi: “non preoccuparti. Ti farò
questo piccolo favore senza aspettarmi niente in cambio, se non la tua
simpatia. E su questo non giustificarti, non dire altro. L’aiuto che posso
darti non ha bisogno di lunghi discorsi”.
Intanto però pensavo: “Sembra un
rifiuto, ma non lo è. Mi ha riconosciuto tutte le qualità per cui una donna di
valore ama un uomo. Mi chiede di non chiederle amore, mentre è lei che me lo
offre. Sennò tornava in collegio con l’altra, la brutta, la medusa scema dalle
gote ilari. La faccenda della lingua ungherese è un pretesto, magari
suggeritole dal fato, un’occasione offerta alla crescita della nostra intesa. I
medici ungheresi o vietnamiti della clinica universitaria un poco di inglese lo
sanno. Che noi due si faccia l’amore è destino. Dio stesso lo vuole e io non
recalcitro mai al volere di Dio.
Sono naturalmente, e senza sforzo
alcuno, concorde con Lui e con il destino.
Sono perfino disposto ad
aiutarla gratis et sine corporis voluptatibus, se il
Fato dispone questo e lei davvero non può darmi nulla in cambio. Ma è molto
improbabile, quasi impossibile”.
[3] Cesare Pavese. Precisamente: “Se
il chiavare non fosse la cosa più importante della vita, la Genesi non
comicerebbe di lì”. Il mestiere di vivere, 25 dicembre 1937. Non mi
ricordo come lo tradussi in inglese
[5] Cfr. Nietzsche, Così parlò
Zarathustra “Guardatevi anche dai dotti! Essi vi odiano: perché sono
sterili! Essi hanno occhi freddi e asciutti, davanti a loro ogni uccello giace
spennato”.
[6] Procedere metodicamente è una
tautologia: mevqodo~ (methodos) contiene oJdov~ (hodós) che significa “via”.
[7] "I maestri supplenti o
tirocinanti che lo istruivano in quelle prime classi, dei quali sentiva
l'inferiorità sociale, la depressione spirituale e la poca cura dell'esteriorità
fisica, gli ispiravano, oltre il timore della punizione, un segreto
disprezzo" T. Mann, I Buddenbrook (del 1901) , p. 330.
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Conclusione del colloquio nel bosco.
L’errore manuale evitato. Il solecismo erotico - psicologico invece perpetrato.
Dopo qualche istante di riflessivo
silenzio, le accarezzai i capelli e le sussurrai: “Non avere paura. A Elena, la
figlia di Zeus, non si addice la paura”1. Mi guardò sorridendo a sua volta e disse: “Di te io
non ho paura. Tu hai lo sguardo buono, innocente”.
Intanto la luna, bianca come le braccia
di Elena, era sbucata in mezzo alle nubi ricciute, ma l’alta e vasta chioma
dell’antica quercia non le permetteva di illuminare in pieno la nostra
panchina, né di cospargere con luminosi diamanti i capelli neri e foltissimi
della donna mia. Il laghetto nel mezzo della radura invece splendeva nella
notte che si andava rasserenando, i grilli sembravano suonare il preludio di
un’opera piena di amore, le rane cantarne i duetti, i terzetti, i cori. Pensai
a Mozart amato da Dio, a Rossini e ad altre voci divine. Mi sentivo amato anche
io. Avrei voluto unirmi a tutte le cose belle del creato.
Elena a un tratto scostò la sua nobile
testa dalla mia mano, ma lentamente e guardandomi con occhi pieni di pathos
luminoso, come se mi chiedesse, speravo, di accarezzarle il cuore, cioè, più
realisticamente, il petto opulento, o la vita di onesta snellezza, invece del
volto pallido, dei capelli corvini e della testa piena di dubbi, forse non
senza dolore.
Commosso, stavo per lanciare entrambe le
palme aperte sui seni tanto desiderati, ma trovai la forza di trattenermi.
“Aspetta un momento - pensai - aspetta,
pezzo d’asino, se non vuoi che questo amore cruciale venga mozzato proprio sul
gambo lascivo della tua concupiscenza che vuole soddisfarsi prima del tempo,
oscenamente.
Devi attendere, se vuoi compiere questa
impresa nel modo migliore e cogliere una vittoria davvero olimpica: questo
successo ti serve per conquistare, con Elena, l’autocompiacimento necessario a
realizzare le cose egregie cui ti senti portato. Tua madre non ti ha capito e
amato quanto avresti voluto: quando eri bambino diceva che eri un piccolo
delinquente, siccome la criticavi: l’avresti voluta perfetta, molto migliore di
te, mentre era infantile, emotiva, capricciosa, e tu, invece di accettarla
com’era, volevi cambiarla, sbagliando. Tua mamma era bella com’era e non voleva
tradire la sua natura. Come te d’altra parte. Con questa donna - mamma puoi
rifarti, puoi diventare l’arbitro di te stesso, della stima che hai fatto
dipendere troppo dagli altri, perché non hai avuto la forza di piacere del
tutto alla madre tua.
Ora devi fare pressione su questa
femmina umana e sulla natura perché ti riveli i suoi propositi arcani. Alcuni
nomi di amanti, come Elena, fatalmente tornano, altri mutano.
Devo capire se il meccanismo cambia o è
sempre lo stesso: menzogne, inganni, strumentalizzazione, perfidia, tradimenti,
collisione, catastrofe finale. Uomini e donne, finita la breve e buffa farsa
del loro amore presunto, scherniscono con un ghigno il piacere che hanno dato e
ricevuto, poi precipitano nell’abisso urlando di dolore. C’è sempre una Maria
che butta giù una Francesca e un Marco che fa cadere un Raffaele.
Vorrei che con Elena tale gioco perverso
cambiasse,
vorrei uscire con lei dalla fossa”.
Dopo questa riflessione, mi rimisi
all’opera e le domandai: “Perché mi trovi intelligente? Forse lo sono, però non
credo di avertelo già dimostrato”.
“Io l’ho capito da quello che dici, da
quello che non dici, da come ti muovi, da come riesci a diventare simpatico; tu
sei diverso dagli altri, da quelli che giocano sporco: quanti cercano di
burlare il cuore e il cervello del prossimo con le parole”. Si fermò un
momento. Quindi, con nobile sdegno aggiunse: “Non so se tu puoi frequentarli.
Io non ci riesco”.
“Non li frequento granché” replicai.
“Volevo sentirtelo dire. In effetti ho
visto subito che eri diverso dagli altri, e mi sei piaciuto, poi parlando con
te, ho imparato a stimarti; anzi, forse in questo momento non dovrei dirtelo,
ma comincio a provare sentimenti buoni e forti nei tuoi confronti”.
“Dunque non mi sono sbagliato”, pensai.
Poi dissi: “Allora c’è davvero qualche
cosa di grande, un’armonia già visibile e chiara tra noi, un’intesa predestinata ab aeterno e
forse illimitata nel tempo”. Volevo allargare l’apertura appena ricevuta,
consacrando con l’infinito l’ipotesi del connubio, che, ora ne sono convinto,
era voluto dal Fato se lo aveva inserito nella serie delle cause che, pur attraverso
difficoltà e travagli, conducono a risultati egregi, latori di bene.
Infatti l’armonia invisibile è più forte
di quella visibile2, e il fine di ogni
pur piccolo evento è il benessere dell’universo. Non ho mai perduto questo
ottimismo di marca stoica se vogliamo, ma che ho fatto mio.
Quindi ricominciai: “Io credo ci sia un
demone buono, un destino favorevole che ci ha fatto incontrare e spinge ad
amarci, o a volerci bene, se preferisci: forse noi siamo due spezzoni, metà e
simboli di una persona una volta completa, poi divisa perché troppo forte, come
racconta Aristofane nel Simposio di Platone. Adesso, se ci
uniamo di nuovo, recuperiamo quell’interezza di cui sentiamo entrambi la
nostalgia struggente, e con il completamente dell’intera unità della nostra
persona, raggiungeremo una felicità non inferiore a quella degli dèi del cielo3. Sento che se farò l’amore con te, non potrò fallire
mai più. L’amore non è mai contrario all’economia. Magari a quella degli
strozzini, ma non a quella vera, all’economia della vita.
Con te diventerò più felice, più buono e
più reale. Non possiamo rinnegare i nostri sentimenti. Sarebbe come spengere
due di quelle stelle lassù”. E indicai il cielo.
Poi aggiunsi: “Sarebbe come negare
l’armonia dei corpi celesti. Non c’è la più piccola sfera tra quante ne vedremo
tornando in collegio e nei nostri letti, che nel suo moto non canti come un
angelo4 e che non si intoni con l’amore
che proviamo noi due, l’uno per l’altra”. Mi ero preparato il discorso e lo
recitai bene poiché “sentivo” la parte che “dovevo” sostenere. Un ruolo senza
il quale non potevo procedere nella mia vita. Ero incantato fino ai precordi ma
quell’incanto non mi toglieva lucidità mentale, anzi l’accentuava.
I miei sofismi con tanto di fuchi e di
calamistri, di ornamenti ascitizi5, di citazioni e
reminiscenze, ognuno di questi calcoli complicati ed esatti, dopo tutto stavano
conducendomi alla spontaneità, se il risultato finale era, come volevo,
diventare quello che sono al meglio di me, e compiere il mio destino realmente
stabilito ab aeterno. Con quell’amore sarei diventato una persona
migliore, più forte e più buona, che se fossi rimasto privo della santa
comunione con Elena.
Il massimo oggetto dei miei desideri, un
oggetto trasfigurato oramai, incluso in me stesso ed elevato in una sfera
artistica, mi guardava con benevolenza sempre maggiore, ammirata, credo, anche
dagli echi letterari, più o meno scoperti e denunciati, mai latenti o
dissimulati, come puoi constatare tu stesso, affezionato lettore. Sentivo
crescere l’intesa e l’ammirazione per lei notando la sua sensibilità alle
parole e alle idee. Cercai di baciarla accostando il mio volto al suo con
calma: oramai mi sembrava un atto giustificato, quasi dovuto a me stesso e a
lei; ma Elena dalle belle guance6, con altrettanta
calma, cioè senza scatti né sdegno, quando vide che mi avvicinavo alla sua
agognatissima bocca, la scostò girandola a destra e disse: 2Scusa, ma io non
voglio essere tanto la compagna di un uomo dal quale oltretutto forse aspetto
un bambino, quanto l’amante tua. Credimi, non ho ancora deciso che cosa farò.
Proprio perché ti stimo e ti voglio bene, ti prego di non chiedermi di venire a
letto con te"
“D’accordo”, risposi, dopo un profondo
respiro, ma avendo capito poco le sue ragioni. “Anche se mi dispiace molto e la
rinuncia a te sarà il grande rimpianto della mia vita, credo di avere capito.
Adesso torniamo in collegio; continuiamo a parlare domani. Vuoi?”
Rispose con un “sì”, sommesso, e,
alzatasi, cominciò a camminare in silenzio, a testa bassa. Credo che le
dispiacesse questa screanzata interruzione del dialogo da parte mia. Forse
pensava che alla fine mi ero rivelato poco intelligente e ancor meno sensibile
in quanto non comprendevo i suoi motivi seri di donna che voleva parlare e
sentire parlare un uomo senza fare del sesso con lui.
Io con l’intelletto potevo averla
capita, ma nell’insicurezza di allora, un’insicurezza tragica che del resto
questo episodio mi aiuterà a superare in non piccola parte, lo dico con il
senno dei nove lustri successivi e decine di amanti aggiunte, io, l’uomo non
abbastanza capito e amato dalle donne di casa quando era bambino, se non fossi
riuscito a fare l’amore con quella donna bella, fine, materna, mi sarei sentito
umiliato nel misero orgoglio di maschio frustrato che vuole dimostrare a se
stesso e al suo gruppo di valere qualcosa in quanto capace di portarsi a letto
una femmina umana desiderabile e molto difficile, siccome ostacolata da
impedimenti di non piccolo conto. Fu un errore, un solecismo erotico, troncare
il colloquio quella notte di luna, ma per buona sorte, per mia intelligenza e
per la disposizione benevola di Elena trovai il modo di rimediare.
CONTINUA
CONTINUA
1 Cfr. Goethe, Faust II,
3, 8646.
2 Cfr
Eraclito: aJrmonivh ajfanh; ~ fanerh'~ kreivsswn (fr. 27 D.)
3 Cfr. Leopardi, Storia del
genere umano: “la felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve
intervallo superata dalla divina”. Probabilmente ricordavo queste parole di
Leopardi perorando la causa di quell’amore capitale.
4 Cfr. Shakespeare, Il mercante di
Venezia, V, i.
5 Cfr. Leopardi: “E Socrate stesso,
l'amico del vero, il bello e casto parlatore, l'odiator de' calamistri e de'
fuchi e d'ogni ornamento ascitizio e d'ogni affettazione, che altro era ne'
suoi concetti se non un sofista niente meno di quelli da lui derisi?” (Zibaldone,
3474).
Le parole difficili sono
latinismi: calamistrum, che è un ferro per arricciare i capelli. Fuco
da fucus, “tintura rossa”, e scitizio da ascisco,
“annetto.
6 Cfr. Omero, Odissea,
XV, 123.
7 Cfr. Shakespeare, Enrico
IV, Parte I, V, 1.
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