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Seconda parte della conferenza che terrò nel liceo Pirandello di Bivona il 28 maggio 2019
Razionale
e irrazionale in Euripide
Nella
Parodo delle Baccanti il
Coro delle Menadi d'Asia vede Dioniso ed entusiasma gli spettatori
trasferendo davanti a loro l'immagine del dio che trema
magicamente nella sua anima. "Ora al coro ditirambico
è affidato il compito di eccitare dionisiacamente l'anima degli
ascoltatori al punto che essi, quando l'eroe tragico appare sulla
scena, non vedano già l'uomo grottescamente mascherato, bensì una
figura visionaria partorita per così dire dalla loro stessa
estasi"[1].
La
Parodo delle Baccanti dà
un'idea del dionisiaco, della rinuncia alla identità personale,
dell'alternativa all'apollineo come principium
individuationis e
volontà di potenza, del tuffarsi nei flutti del misticismo ed
entrare in comunione con la natura, imitando Dioniso. “Così come
c’è una Imitazione
di Cristo,
ci fu anche una imitazione di Dioniso, che venne chiamata
letteralmente “imitazione” - oJmoivwsi~
pro;~ to;n qeovn
- , la quale consisteva nel “perdere la testa”, dimenarsi,
ammattire: maivnesqai,
bakceuvein”[2].
Il
suono cupo degli strumenti delle Baccanti, i tuvmpana baruvbroma (v.
156) e i lwtoiv (v. 160), i
flauti , eccitava i sensi; non aveva
intervalli regolari come quello degli strumenti a corde che invece
stimolava la riflessione.
Lo
sviluppo dell'arte ellenica è legato alla duplicità di questi due
istinti artistici, l’apollineo e il dionisiaco, alla loro tensione
dialettica e alla loro sintesi nella tragedia.
Nietzsche divide
la cultura greca antica in grandi periodi determinati
dalla lotta di questi due principi avversi:"dall'età del
bronzo, con le sue titanomachie e la sua aspra filosofia popolare si
sviluppò, sotto il dominio dell'istinto di bellezza apollineo, il
mondo omerico", poi "questa magnificenza "ingenua"
venne di nuovo inghiottita dal fiume irrompente del dionisiaco",
quindi "di fronte a questa nuova potenza l'apollineo si elevò
alla rigida maestà dell'arte dorica e della visione dorica del
mondo".
Infine
abbiamo la tragedia attica "come la meta comune dei due istinti,
il cui misterioso connubio si è glorificato, dopo una lunga lotta
precedente, in una tale creatura che è insieme Antigone e
Cassandra"[3].
Nel Faust II
di Goethe, Elena, personaggio del dramma, ricorda la prima fase e i
suoi ritorni: “ Ma il terrore che sino dalle origini insorgendo -
dal seno della notte antica, multiforme, - come nubi roventi dalle
fauci del fuoco del monte, alto si volve, anche all’eroe scuote il
petto”.
Quindi
l’apollineo: “Le creature orrende della notte le ricaccia, amico
- della bellezza (Schönheitsfreund),
Febo, nelle caverne e le affiena”[4].
.
Sentiamo
l’interpretazione di E. R. Dodds il quale assimila Dioniso
alla Afrodite dell’Ippolito, presentata con i versi 447 ss.
Vediamone
alcuni: “Si muove per l’etere ed è nel flutto marino Cipride,
tutto nasce da lei: è lei che semina e dona l’amore, da cui tutti
sulla terra siamo nati” (447 - 450). E’ la nutrice di Fedra che
parla.
Tale
interesse si accentua ancora nelle Baccanti delle
quali traduciamo buona parte della Parodo (vv. 64 - 167), dove il
Coro delle Menadi d'Asia vede Dioniso ed entusiasma gli spettatori
trasferendo davanti a loro l'immagine del dio che trema
magicamente nella sua anima:"Dalla terra
d'Asia,/lasciato il sacro Tmolo[5],
imprendo alacremente/ per Bromio una fatica dolce e un travaglio che
fa bene/ celebrando Bacco./ Chi è per strada, chi è per strada,
chi?/Si ritiri nelle case, e ognuno / osservi un religioso
silenzio:/io infatti celebrerò Dioniso/secondo il rito, sempre.//O
beato chi con buona sorte/conoscendo i misteri degli dèi/santifica
la vita/e si aggrega al tiaso[6] con
l'anima,/baccheggiando nei monti/con sacre purificazioni,/e
celebrando secondo il rito/le orge della grande madre Cibele/alto
scuotendo il tirso[7],/e,
incoronato di edera,/venera Dioniso.//Andate Baccanti, andate
Baccanti,/per ricondurre Dioniso/il dio Bromio figlio di dio/dai
monti Frigi/ alle contrade dell'Ellade dagli ampi/spazi, il
Bromio;//che/ un giorno la madre/generò portandolo tra le
puerperali/strette delle doglie del parto/mentre volava il tuono di
Zeus/e il bambino veniva espulso dal ventre/ed ella lasciava la vita
per il colpo del fulmine;/ma subito dopo lo accolse/nei talami
puerperali Zeus Cronide/e celatolo nella coscia[8]/lo
tiene stretto con fibbie d'oro/così da nasconderlo a Era.//E poi lo
diede alla luce, quando le Moire/lo ebbero compiuto, il dio dalle
corna di toro,/e lo incoronò con corone/di serpenti, donde le
menadi/intrecciano ai ricci/la preda di caccia che nutre la fiera.//O
Tebe nutrice di/Semele, incoronati di edera;/infiorati, infiorati di
verdeggiante/smilace dalle belle bacche/e baccheggia con i rami/di
quercia o di abete,/e adorna l'indumento delle/nebridi[9] screziate
con ciocche di ricci/dal bianco pelo; e intorno ai tirsi
violenti,/santifìcati: presto tutta la terra danzerà,/chiunque
guidi i tiasi è Bromio./Verso ilmonte verso il monte, dove
aspetta/la turba delle donne/allontanata da telai e pettini/in furore
ad opera di Dioniso. (vv. 64 - 119)…Dolce nei monti, chi
dai tiasi in corsa/cade per terra, indossando/il sacro indumento
della nebride, cacciando/il sangue del capro ucciso, gioia di
mangiare la carne cruda[10],
spingendosi sui monti frigi, lidi, e/il capo è Dioniso,/
evoè.//Scorre latte sul suolo, scorre vino, scorre il nettare/delle
api./Il baccante sollevando/la fiamma ardente/dal ramo di pino/come
vapore di incenso di Siria/si precipita in corsa/con danze eccitando
gli erranti/e con grida agitandoli,/e scagliando nell'aria la molle
chioma./E insieme con i canti freme così:/"O andate Baccanti,/
andate Baccanti,/splendore del Tmolo aurifluente,/cantate Dioniso/al
suono dei timpani[11] dal
cupo fremito,/celebrando con grida di evoè il dio dell'evoè/tra
grida e suoni frigi/quando il sacro flauto melodioso/freme sacri
ludi, che si accordano/alle erranti al monte, al monte:
felice/allora, come puledra con la madre/al pascolo muove il piede
rapido, a balzi, la baccante. (vv. 120 - 167).
Ho
tradotto quasi intera[12] la
Parodo delle Baccanti per
dare un'idea del dionisiaco, della rinuncia alla identità personale,
dell'alternativa all'apollineo come principium
individuationis e
volontà di potenza, del tuffarsi nei flutti del misticismo ed
entrare in comunione con la natura, imitando Dioniso.
Le Baccanti hanno
avuto interpretazioni contrastanti: secondo alcuni sono la palinodia
dell'autore che torna alla religione dopo il razionalismo e la
stanchezza postfilosofica; secondo altri costituiscono un' ulteriore
condanna della religione.
La
prima lettura si fonda in buona parte sui versi del Primo
Stasimo: "Pietà eccelsa tra gli dèi/Pietà che giù in
terra/porti l'ala d'oro/odi queste parole di Penteo?/Odi l'empia/
violenza a Bromio, il/figlio di Semele, il primo dio/tra i beati
nelle gioie dalle/belle corone? Lui che ha queste
caratteristiche:/guidare i tiasi alle danze/e scoppiare a ridere al
suono del flauto/e porre fine agli affanni/quando la gioia del
grappolo/è giunta sulla mensa degli dèi,/e nei conviti incoronati
di edera/il cratere cinge/di sonno gli uomini.//Di bocche senza
freno/di stoltezza senza misura/il termine è sventura;/mentre la
vita/della calma e il comprendere/rimane senza agitazione e/tiene
insieme le case: infatti/ i celesti, pur abitando l'etere
lontano,/vedono le azioni dei mortali tuttavia./Il sapere non è
sapienza/e il pensare pensieri non umani./Breve è la vita: per
questo/chi insegue grandi pensieri/ non può sopportare il presente./
Di uomini folli e mal consigliati/queste sono le disposizioni/secondo
me.//Possa io giungere a Cipro/l'isola di Afrodite,/dove stanno gli
Amori/che seducono le menti dei mortali,/e a Pafo che correnti/dalle
cento bocche di un fiume barbaro/fanno fruttificare senza pioggia./E
dove è la Pieria ritenuta/bellissima sede delle Muse,/sacra pendice
dell'Olimpo,/là portami, Bromio, Bromio./Là sono le Grazie,/là il
Desiderio, là è costume per le/Baccanti celebrare l'orgia.//Il
demone figlio di Zeus/gode delle feste,/e ama Irene che dona/il
benessere,/ dea nutrice di figli./E uguale al ricco e/al povero
concede di avere/la gioia, senza pena, del vino;/odia invece quello
cui non stanno a cuore queste cose:/nella luce e durante
le amabili notti/beata passare la vita,/e tenere lontana l'anima
saggia e la mente/dagli uomini straordinari[13]:/ciò
che la folla/più semplice crede e/pratica, questo io possa
accettare"( Baccanti,
vv. 370 - 432). Sembra una scelta delle credenze popolari, contro il
reo dolor che pensa, i sofismi e il pretenzioso sapere degli
intellettuali.
Dodds:
“To ask whether Euripides ‘believed in’ this Aphrodite is a
meaningless as to ask whether he ‘believed’ in sex. It is not
otherwise with Dionysus. As the “moral” of the Hippolytus is
that sex is a thing about which you cannot afford to make mistakes,
so the ‘moral’ of the Bacchae is
that we ignore at our peril the demand of the human spirit for
Dionysiac experience. For those who do not close their minds against
it such experience can be a deep source of spiritual power
and eujdaimoniva.
But those who repress the demand in themselves or refuse their
satisfaction to others transform it by their act into a power of
disintegration and destruction, a blind natural force that sweeps
away the innocent with the guilty. When that has happened, it is too
late to reason or to plead: in man’ s justice there is room for
pity, but there is none in the justice of Nature (…) If this or
something like it is the thought underlying the play, it follows that
the flat - footed question posed by the nineteenth - century critics
- was Euripides ‘for’ Dionysus or ‘against’ him? - admits no
answer in those therms. In himself, Dionysus is beyond good and evil;
for us, as Teiresias says (314 - 318), he is what we make of him (…)
His favourite method is to take a one - sided point of view, a noble
half - truth, to exhibit its nobility, and then to exhibit the
disaster to which it leads its blind adherents because it is after
all only part of the truth[14]..
It is thus that he shows us in the Hippolytus the
beauty and the narrow insufficiency of the ascetic ideal, in
the Heracles the
splendour of bodily strength and courage and its toppling
over into megalomania an ruin; it is thus that in his revenge plays -
Medea,
Hecuba, Electra –the
spectator’ s sympathy is first enlisted for the avenger and then
made to extend to the avenger’s victims. The Bacchae is
constructed on the same principle: the poet has neither belittled the
joyful release of vitality which Dionysiac experience brings nor
softened the animal horror of ‘black’ maenadism; deliberatly he
leads his audience through the whole gamut of emotions, from sympathy
with the persecuted god, trough the excitement of the palace miracles
and the gruesome tragi - comedy of the toilet scene, to share in the
end the revulsion of Cadmus against this inhuman jiustice. It is a
mistake to ask what he is trying to ‘prove’: his concern in this
as in all his major plays is not to prove anything but to enlarge our
sensibility - which is, as Dr. Johnson said, the proper concern of a
poet” [15],
chiedere se Euripide ‘credeva in’ questa Afrodite
è una domanda senza senso, come chiedere se egli ‘credeva nel’
sesso. Non è diverso con Dioniso. Come la ‘morale’
dell’Ippolito è
che il sesso è una cosa sulla quale non ci si può permettere di
fare errori, così la ‘morale’ delle Baccanti è
che noi ignoriamo a nostro pericolo l’esigenza dello spirito umano
di esperienza dionisiaca[16].
Per quelli che non le oppongono una barriera mentale, tale esperienza
può essere una sorgente profonda di potenza spirituale e di
felicità. Ma quelli che reprimono l’esigenza in se stessi o ne
rifiutano l’appagamento in altri, la trasformano con il loro atto
in una potenza che disintegra e distrugge, una forza cieca e naturale
che spazza via l’innocente con il colpevole. Quando questo è
accaduto, è troppo tardi per ragionare o perorare: nella giustizia
dell’uomo c’è spazio per la pietà, ma non ce n’è nella
giustizia di Natura [17](…)
Se
questo pensiero, o uno del genere, è quello che si trova alla base
del dramma, ne consegue che la questione di lana caprina - Euripide
stava ‘per’ Dioniso o era ‘contro’ di lui? - non ammette
risposta in questi termini. In sé Dioniso è al di là del bene e
del male; per noi, come dice Tiresia (314 - 318[18]),
egli è quello che noi facciamo di lui (…) Il metodo
favorito di Euripide è prendere un punto di vista unilaterale, una
nobile mezza - verità, mettere in mostra la sua nobiltà, poi
mettere in mostra il disastro al quale essa conduce i suoi ciechi
seguaci - poiché è dopo tutto solo una parte della verità. E’
così che egli ci mostra nell’Ippolito la
bellezza e la stretta insufficienza dell’ideale ascetico,
nell’Eracle lo
splendore della forza corporea e del coraggio e il suo inciampare
nella megalomania e rovina; ed è così che nei suoi drammi della
vendetta - Medea,
Ecuba, Elettra
- la simpatia dello spettatore è prima associata al vendicatore,
poi fatta passare alle vittime del vendicatore. Le Baccanti sono
costruite sullo stesso principio: il poeta non ha né sminuito la
gioiosa liberazione di vitalità che l’esperienza dionisiaca
comporta, né attenuato l’orrore bestiale del menadismo ‘nero’;
deliberatamente egli conduce il suo pubblico attraverso tutta la
gamma di emozioni, dalla simpatia con il dio perseguitato, attraverso
l’agitazione dei miracoli del palazzo e la spaventosa tragicommedia
della scena del travestimento, per condividere alla fine la reazione
di Cadmo contro la non umana giustizia. E’ un errore chiedersi che
cosa egli stia tentando di ‘provare’: il suo interesse in questo
come in tutte le sue tragedie maggiori non è provare qualcosa ma
allargare la nostra sensibilità - che è, come ha detto il Dottor
Johnson, l’interesse proprio del poeta.
Murray: Euripide
è un indagatore e rappresenta tanto il razionalismo quanto
l’irrazionalismo:“Euripides
was both a reasoner and a poet. The two sides of his nature
sometimes clashed and sometimes blended”[19],
Euripide fu sia un ragionatore, sia un poeta. I due lati della
sua natura talvolta si scontrarono e talora si armonizzarono.
Con
Euripide si trasformano o tramontano gli dèi tradizionali come
abbiamo visto; al loro posto si alza nel cielo la Tuvch ambigua
e cangiante: l'infausta tuvch è
subentrata ai fausti dèi. Ecuba la considera una dei
tiranni di un'umanità rimasta senza fedi né valori, una specie di
creature materialiste, sanguinarie, idolatre:" oujk
e[sti qnhtw'n o{sti" e[st' ejleuvqero"
- h] crhmavtwn ga;r dou'lov" ejstin h] tuvch""( Ecuba,
vv. 864 - 865), non c'è tra i mortali chi sia libero: infatti
siamo schiavi delle ricchezze oppure della sorte.
L'uomo
cerca di vivere secondo ragione, ma i suoi tentativi vengono
frustrati dalla tuvch.
La sua salvezza e la sua libertà stanno nel considerarla con calma
ironica. Nello Ione che prelude più di ogni altro
dramma di Euripide alla commedia di Menandro, il riconoscimento del
figlio da parte della madre avviene per casi fortuiti, per mezzo di
questa tuvch spogliata
da connotazioni teologiche.
Questa
fortuna non è costantemente maligna, bensì capricciosa e
mutevole: Ione che
è stato sul punto di uccidere la madre esclama:"O Fortuna che
cambi mille volte le sorti dei mortali: li getti nella sventura, poi
doni loro il successo..."(vv. 1512 - 1513) [20].
Nelle Troiane,
Atena passa con disinvoltura dall’amore all’odio. Nel III
stasimo il coro contrappone il sui ripetuto mevlei
mevlei moi (v. 1077) all’indifferenza, al capriccioso
“me ne frego” degli dèi.
Ecuba
sa che invocarli è inutile: “kai;
tiv tou;~ qeou;~ kalw`;
- kai; pri;n ga;r oujk h[kousan ajnakalouvmenoi”
(vv. 1280 - 1281), perché invoco gli dèi? Anche prima infatti non
mi ascoltarono, sebbene invocati.
Cfr.
Fabrizio De Andrè: Il testamento di Tito.
Pohlenz nel
suo trattato su L'uomo
greco [21] mette
in evidenza l'umanesimo del drammaturgo: l'uomo euripideo, pur
esposto all'arbitrio della tyche,
può trovare in se stesso la capacità di rivendicare un proprio
destino. "L'uomo tuttavia non divenne mai per Euripide lo
zimbello della Tyche.
Eracle,
l'eroe che riuscì a far ritorno persino dall'Ade, precipita dal
colmo del successo nel baratro più profondo: in un accesso di pazzia
uccide la moglie e i figli. Tornato in sé, scorge, come Aiace, una
sola possibilità: darsi la morte. Ma le parole d'un amico fedele lo
convincono che questa non sarebbe azione degna d'un eroe, ma una vile
ritirata: "voglio sopportare la vita"[22] egli
dice: non compirà più imprese sovrumane, ma si costruirà, in un
limitato orizzonte, una nuova vita. La tragedia dell'uomo è questa,
d'essere materialmente esposto al cieco dominio della Tyche; ma nel
suo petto, anche per Euripide, egli ha una capacità di resistenza
che lo rende padrone del suo destino e gli consente di non
disperare".
Non
è sempre pessimistica la visione del mondo dei personaggi euripidei:
nelle Supplici, Teseo
esprime un ottimismo sostanziale:"disse una volta un
tale[23] che
il male/tra gli uomini prevale sul bene;/ebbene io ho un'opinione
contraria a questi,/il bene per gli uomini prevale sul male;/se non
fosse così non vivremmo nella luce./Approvo chi tra gli dèi diede
un ordine/alla vita da confusa e bestiale ,/prima di tutto
infondendoci l'intelligenza (ejnqei;"
suvnesin[24]),
poi/dandoci la lingua come messaggera della parola…"(vv. 196 -
204). "Tale protesta contro il pessimismo scaturisce proprio dal
cuore del poeta, perché non è minimamente richiesta dal contesto
della tragedia. Le Supplici furono
in verità scritte da Euripide in uno stato d'animo di particolare
letizia, al tempo della pace di Nicia"[25].
Pohlenz
sottolinea anche il sentimento della natura espresso dal poeta:
quando Atene oramai aveva assunto la fisionomia di una grande città
con viuzze strette e polverose, Euripide colse l'affinità tra la
purezza dell'anima e l'incontaminatezza della terra selvaggia. L'uomo
e la vita terrena sono uniti da una sorta di simpatia. Lo
vediamo soprattutto nelle Baccanti e
nello Ione "il
quale conversa con gli uccelli petulanti che deve scacciare via dal
limitare del santuario, quasi fossero dei suoi simili"[26].
Nell’Oreste,
“Elettra prega la dea della Notte di voler cullare con le morbide
ali il fratello malato, concigliandogli un sonno ristoratore[27];
e in molti altri passi, specialmente nelle parti liriche delle
tragedie dell'ultimo periodo, Euripide ci presenta la sacra Notte, le
stelle, i monti e i fiumi, gli animali e le piante come esseri uniti
all'uomo da una sorte di partecipazione e di compassione a cui
l'uomo, nella sua solitudine, può aprirsi"[28].
Uno
dei motivi principali dell'opera di Euripide secondo Pohlenz è
l'analisi psicologica:"Egli non fu precisamente il
razionalistico ‘poeta dell'illuminismo greco’. Fu il
poeta che meglio di ogni altro seppe ascoltare i moti più segreti
del cuore umano e avvertì in tutta la gravità i conflitti che ne
scaturivano. Il desiderio di vendetta di Medea emerge dalle
insondabili profondità della sua anima, e appena arriva alla soglia
della coscienza ha inizio nell'intimo del personaggio una dura,
inesorabile lotta, in cui la ragione e l'amore materno soccombono
alla passionalità del qumov" "[29].
Dodds vede
in Euripide addirittura “il principale rappresentante
dell’irrazionalismo del V secolo : “Euripides
remains for us the chief representative of fifth - century
irrationalism; and herein, quite apart from his greatness as a
dramatist, lies his importance for the history of Greek
thought”[30], e
in questo, del tutto a parte dalla sua grandezza come drammaturgo,
sta la sua importanza per il pensiero greco.
Un
saggio indiano, Shree Rajneesh, commentando Eraclito (in L'armonia
nascosta) ricorda che"la vita non è logica. E' logos, ma
non è logica.". Il filosofo di Efeso il quale, come il signore
di cui c'è l'oracolo a Delfi"ou[te
levgei ou[te kruvptei ajlla; shmaivnei",
non dice né nasconde ma significa (fr.120 Diano), ha indagato se
stesso (fr.126 Diano), al pari di Edipo, e ha scorto un'armonia
nascosta più forte di quella che vedono tutti:"aJrmonivh
ajfanh;" fanerh'" kreivsswn"(fr.27
Diano).
Sofocle
è essenzialmente poeta apollineo.
Il
poeta di Colono rappresenta personaggi i quali, nel bene e nel male,
giungono là dove la sola logica non può arrivare. La loro grande
passione può essere definita dalla massima delfica"Conosci te
stesso". Essi intraprendono una ricerca che li porta fino
all'inconscio e oltre; le loro parole vanno molto al di là della
logica.
Sofocle
apre i sotterranei dell’anima molto tempo prima di Freud. Le
tragedie dell’apollineo Sofocle tendono a smontare la logica
meschina
Sul versante
dionisiaco della cultura greca tragica, quello dionisiaco, c'è
innanzitutto il Bacco di Euripide che guida un esercito di Menadi
contro l'unilateralità della logica.
Le
donne di Tebe invasate dal bel dio figlio di Zeus e di Semele cantano
che il sapere non è sapienza:"to;
sofo;n d j ouj sofiva"(v.395).
Il baccantismo cui il tragediografo ateniese ha dato voce poetica nel
più denso dei suoi drammi, può essere inteso come una
reazione, anche fisiologica , tanto all'oppressione delle
donne, alla repressione del loro istinto, quanto a un uso
spropositato della presunta razionalità, ossia della logica meschina
con la quale i burocrati"scemi" vogliono ridurre in formule
e rendere grigia la vita varia e variopinta del mondo. La baccante è
lieta come puledra che, insieme con la madre al pascolo, muove a
salti l'agile piede "hJdomevna
d j a[ra, pw'lo" o{pw" a{ma matevri - forbavdi, kw'lon
a[gei tacuvpoun skirthvmati" (vv.166
- 167); mentre Penteo, il capo che si crede razionale, è scemo e
dice cose sceme:"mw'ra
ga;r mw'ro" levgei"(v.369).
Non è un ossimoro vivente come Bruto o Amleto; è
un mw`ro~ integrale.
Una
reazione del genere è avvenuta in tempi recenti:
precisamente nel movimento del 1976 - 77, dove c'era una forte
componente femminista animata anche dalla volontà di
rivalutare la fantasia, l'istinto, in particolare quello delle donne,
contro gli angusti schemi della burocrazia del "compromesso
storico". Poi però, proprio come nelle Baccanti di
Euripide, la fantasia è stata ricacciata indietro dalle stragi,
quindi l'istinto è decaduto nella subrazionalità e nell'ignoranza
imposta dalla televisione attraverso il "genocidio culturale"
denunciato, invano, da Pasolini. Un genocidio che si è ritorto
contro i manovratori che l'hanno voluto, aprendo la strada a padroni
nuovi, forse ancora più rozzi di quelli. Così
nell'antica Atene la libertà anarchica delle Baccanti è
decaduta nel disimpegno politico e nella chiusura dentro la sfera
privata, nell'egoismo e nella "calva assennatezza" della
commedia di Menandro.
Questa
inclinazione per la psicologia non elimina l'interesse
politico : non è vero quello che dice Aristofane che Euripide
disgregò l'amor di patria degli antichi maratonomachi; anzi tutta la
sua attività poetica si svolse in funzione della comunità, e in
particolare il tragediografo si schierò in favore della democrazia
cavalleresca di tipo Pericleo, soprattutto con gli Eraclidi e
con le Supplici che
sono inni ad Atene. "Euripide era legato alla propria patria da
un amore appassionato. Nella prima fase della guerra peloponnesiaca
adoperò la propria arte per sostenere la giusta causa d'Atene e per
esaltare lo spirito e le realizzazioni del popolo ateniese, e anche
dopo la spedizione siciliana, proprio perché disapprovava la
politica della città, considerò suo dovere prendere posizione,
molto più decisamente di Sofocle, di fronte ai problemi dell'ora.
Ciò gli riusciva tanto più facile in quanto il mito aveva ormai per
lui uno scarso significato e perciò lo poteva liberamente investire
con i problemi del presente. Anche per lui i fondamentali problemi
dell'uomo erano al centro dell'interesse. Ma mentre Eschilo aveva
proclamato la sua fede incrollabile in Zeus uno e onnipotente e nel
suo giusto ordine universale, e mentre Sofocle, per ammonire gli
uomini di guardarsi dalle nuove correnti di pensiero, non si stancava
di dimostrare la nullità dell'uomo e la sua dipendenza dalla
divinità, e in tutti i problemi della vita affermava come istanza
suprema le leggi eterne e non scritte e le massime di Apollo,
Euripide, figlio della nuova età, cercò la soluzione di tutti i
problemi umani esclusivamente nell'uomo stesso"[31].
[1] "
F. Nietzsche, La nascita della tragedia, capitolo 8
[2] J.
Ortega y Gasset, Idea del teatro, p. 86.
[3] F.
Nietzsche, La nascita della tragedia, capitolo 4.
[4] Faust,
II, 3. Davanti al palazzo di Menelao. Trad. Franco Fortini.
[5] Monte
della Lidia da dove vengono le seguaci di Dioniso
[6] I
tiasi erano gruppi di Menadi organizzate per il culto.
[7] I
tirsi sono rami di pino appuntiti che congiungono violenza e
santità: possono infliggere ferite e operare miracoli benefici.
[8] Il
feto di Dioniso, dopo che la madre Semele morì fulminata dal fuoco
folgorante di Zeus (v. 3), fu portato a maturazione dentro una
coscia del Cronide.
[9] Sono
pelli di cerbiatto di cui si coprivano le Menadi
[10] Le
Menadi facevano a pezzi degli animali (sparagmov" ,
cfr. v. 735) e ne mangiavano la carne cruda (wjmofagiva).
Un altro aspetto del loro invasamento era l' ojreibasiva,
la corsa su per i monti. Negli affreschi di riti orgiastici e nella
rappresentazione dettagliata dei turbamenti dell'anima femminile si
potrebbe ravvisare il compiacimento che la decadenza mette nella
descrizione dell'abnorme e del patologico.
[11] Tamburelli
inventati dai Cureti per coprire con il loro strepito i vagiti di
Zeus e salvarlo dalla voracità del padre Crono. Quindi tali
strumenti vennero dati a Rea e ai Satiri.
[12] Tranne
la seconda antistrofe (vv. 120 - 134) più erudita ed eziologica che
poetica.
[13] Cfr.
la scheda di approfondimento “L’eccesso come disvalore. La
ricerca dello straordinario” successiva al v. 127 della Medea.
[15] E.
R. Dodds, Euripides Bacchae, pp. xlv - xlvii.
[16] La
componente istintiva, prima repressa, poi scatenata verso la
distruzione, mai applicata all'incremento della vita, porta Gustav
Aschenbach alla morte, preannunciata da una fantasia
onirica memore dei riti orgiastici delle Baccanti:"
Al ritmo dei timpani si squassava il suo cuore, il cervello
vorticava; ira accecamento, stordimento voluttuoso invadevano la sua
anima, smaniosa di accordarsi al tripudio del dio. Ed ecco, enorme,
ligneo, scoprirsi e innalzarsi l'osceno simbolo; a quella vista tra
sfrenati clamori, tutti gridarono la formula rituale e con la
schiuma alle labbra si precipitarono in un'orgia pazzesca. Ridenti,
singhiozzanti, si eccitavano a vicenda con gesti sconci e carezze
lubriche, e si cacciavano l'un l'altro i pungoli nelle carni,
leccando il sangue che colava sulle membra". T. Mann, La
morte a Venezia (del 1913) p. 139. Ndr.
[17]"
La natura è aristocratica, più aristocratica di qualsiasi società
feudale basata sulle caste" Schopenhauer, Parerga
e paralipomena (del 1851), Tomo I, p. 275.
[18] Non
sarà Dioniso a costringere le donne a essere/caste nei confronti di
Cipride, ma nel temperamento/(sta sempre l'essere casto in tutte le
occasioni sempre)/a questo bisogna pensare: e infatti anche nei
baccanali/quella che è casta non si guasterà (Baccanti, 314
318) ndr.
[19] G.
Murray, Euripides and his age, p. 197. questo libro si
trova 8° si trovava) tradotto in italiano: Euripide e i
suoi tempi, Laterza, bari, 1932.
[20] Alla
fortuna Machiavelli dovrà riconoscere potere su metà
dell'agire umano: "la fortuna…dimostra la sua potenzia dove
non è ordinata virtù a resisterle" (Il principe XXV).
Essa fornisce ai grandi della storia dotati di virtù l'occasione
per manifestarla:"Bisognava che Ciro trovassi e' Persi
malcontenti dello imperio de' Medi, e li Medi molli et effemminati
per la lunga pace. Non posseva Teseo dimonstrare la sua virtù, se
non trovava li Ateniensi dispersi" ( Il principe VI).
.
Del resto Cesare Borgia nel quale pure c'erano "tanta ferocia e
tanta virtù" non poté reggere al rovescio, per cui, al
momento della morte del padre Alessandro, era anche lui "malato
a morte", sicché non riuscì a evitare la "mala elezione"
del cardinale Giuliano della Rovere suo nemico il quale
divenne "Iulio pontefice". "Errò adunque
el duca in questa elezione, e fu cagione dell'ultima ruina sua"
( Il principe VII).
[21] Der
Hellenische Mensch, 1947.
[22] "ejgkarterhvsw
bivon", affronterò la vita v. 1351.
"A
quanto sembra fu principalmente Prodico di Ceo a sostenere
l'opinione che nel mondo e nella vita umana predomina il male", M.
Pohlenz, L'uomo greco, p. 165.
[24] Abbiamo
visto che nell'Oreste, scritta in un anno meno
fausto (408) è proprio l'intelligenza che rende malato
il protagonista (v. 396)
[25] M.
Pohlenz, L'uomo greco, p. 166.
[26] Ione,
154 ss, L'uomo greco, p. 546.
[27] Oreste,
174 ss.
[28] M.
Pohlenz, L'uomo greco, p. 546
[29]M.
Pohlenz, L'uomo greco, p. 624.
La morte viene dall'alto
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