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Lunedì 6 maggio dalle 18, 30 presenterò Pirandello e il suo Umorismo nella
biblioteca Scandellara di Bologna. Ne anticipo qui alcune parti.
“In Aristofane non abbiamo
veramente il contrasto, ma soltanto l’opposizione. Egli non è mai tenuto tra il
sì e il no[1]
egli non vede che le ragioni sue, ed è per il no testardamente, contro ogni
novità, cioè contro la retorica, che crea demagoghi, contro la musica nuova,
che, cangiando i modi antichi e consacrati, rimuove le basi dell’educazione, e
dello Stato, contro la tragedia di Euripide che snerva i caratteri e corrompe i
costumi, contro la filosofia di Socrate, che non può produrre che spiriti
indocili e atei, ecc.
(…) la burla
è satira iperbolica, spietata. Aristofane ha uno scopo morale, e il suo non è
mai dunque il mondo della fantasia pura. Nessuno studio della verisimiglianza:
egli non se ne cura perché si riferisce di continuo a cose e persone vere (…) e
non crea una realtà fantastica come, ad esempio, lo Swift (…) Umorista non è Aristofane ma Socrate…Socrate ha il
sentimento del contrario; Aristofane ha un sentimento solo, unilaterale.
Aristofane dunque, se mai, può essere considerato umorista soltanto se noi
intendiamo l’umorismo nell’altro senso molto più largo, e per noi improprio, in
cui siano compresi la burla, la baja, la facezia, la satira, la caricatura,
tutto il comico insomma nelle sue varie espressioni”[2].
L’umorismo
e la retorica
La retorica
imponeva imitazione e dava regole. La poesia in tal modo è copia, non creazione
L’umorismo scompone, disordina, discorda. Mentre secondo la retorica l’arte deve essere
accordo logicamente ordinato, composizione esteriore.
L’umorismo
ha bisogno del più vivace, libero, spontaneo e immediato movimento della
lingua. L’umorismo crea la lingua non la imita. La lingua mummificata dalla retorica non crea umorismo né altro.
Gli
scrittori originali sono pochi siccome il maggior numero è fatto di imitatores
servum pecus (cfr. Orazio Epistole, I, 19, 199).
La retorica
disconosce quella attività creatrice che è la fantasia
L’umorismo è il sentimento del contrario
Primo esempio
:"Vedo
una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale
orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti
giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario
di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere...Il comico è appunto un avvertimento del
contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce
che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come
un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s'
inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a
trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non
posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel
primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario, mi ha fatto passare a questo
sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il
comico e l'umoristico".
Gli altri 2
esempi: Marmeladov di Delitto e castigo e Sant’Ambrogio di
Giusti
Il secondo esempio è
questo tratto da Dostoevskij: “Signore, signore! oh! Signore, forse, come gli
altri, voi stimate ridicolo tutto questo; forse vi annojo
raccontandovi questi stupidi e miserabili particolari della mia vita domestica;
ma per me non è ridicolo, perché io sento tutto
ciò…” - Così grida Marmeladoff nell’osteria, in Delitto e Castigo[3] del
Dostoevskij, a Raskolnikoff tra le risate degli avventori ubriachi. E questo
grido è appunto la protesta dolorosa ed esasperata d’un personaggio umoristico
contro chi, di fronte a lui, si ferma a un primo avvertimento superficiale e
non riesce a vederne altro che la comicità”[4].
Il terzo esempio deriva
da S. Ambrogio di Giusti: “Un poeta, il Giusti, entra un
giorno nella chiesa di S. Ambrogio a Milano, e vi trova un pieno di soldati…Il
suo primo sentimento è d’odio: quei soldatacci ispidi e duri son lì a
ricordargli la patria schiava. Ma ecco levarsi nel tempio il suono dell’organo:
poi quel cantico tedesco lento lento,
D’un suono
grave, flebile, solenne[5]
Che è
preghiera e pure lamento. Ebbene, questo suono determina a un tratto una
disposizione insolita nel poeta, avvezzo a usare il flagello della satira
politica e civile: determina in lui la disposizione propriamente umoristica:
cioè lo dispone a quella particolare riflessione che, spassionandosi dal primo
sentimento, dell’odio suscitato dalla vista di quei soldati, genera appunto il
sentimento del contrario. Il poeta ha sentito nell’inno
La dolcezza
amara/Dei canti uditi da fanciullo: il core/Che da voce domestica gl’impara,/Ce
li ripete i giorni del dolore./Un pensier mesto della madre cara,/Un desiderio
di pace e d’amore,/Uno sgomento di lontano esilio[6].
E riflette
che quei soldati, strappati ai loro tetti da un re pauroso,
A dura vita,
a dura disciplina,/Muti, derisi, solitari stanno, /Strumenti ciechi d’occhiuta
rapina,/che lor non tocca e che forse non sanno[7]
Ed ecco il
contrario dell’odio di prima:
Povera
gente! Lontana da’ suoi,/In un paese qui che le vuol male[8].
Il poeta è
costretto a fuggire dalla chiesa perché
Qui, se non
fuggo, abbraccio un caporale, /Colla su’ brava mazza di nocciolo/Duro e
piantato lì come un piolo”[9].
Questo è il
terzo esempio di avvertimento del contrario passato a sentimento del contrario.
Sentiamo
anche T. Mann sull’argomento:
“Indifferenza e ignoranza della vita intima degli altri esseri umani finiscono
per creare un rapporto affatto falso con la realtà, una specie di
abbigliamento. Dai tempi di Adamo ed Eva, da quando uno divenne due, chiunque per vivere ha dovuto mettersi nei
panni altrui, per conoscere veramente se stesso ha dovuto guardarsi
con gli occhi di un estraneo. L’immaginazione e l’arte di indovinare i
sentimenti degli altri, cioè l’empatia, il con - sentire con gli altri, è non
solo lodevole ma, in quanto infrange le barriere dell’io, è anche un mezzo
indispensabile di autopreservazione”[10].
Cfr. la
terapia del rovesciamento e mettersi nei piedi dei ragazzi di Leopardi
“Gli
scolari partiranno dalla scuola dell’uomo il più dotto, senz’aver nulla
partecipato alla sua dottrina, eccetto il caso (raro) ch’egli abbia quella
forza d’immaginazione, e quel giudizio che lo fa astrarre interamente dal suo
proprio stato, per mettersi ne’ piedi de’ suoi discepoli, il che si chiama
comunicativa. Ed è generalmente riconosciuto che la principal dote di un buon
maestro e la più utile,non è l’eccellenza in quella dottrina, ma l’eccellenza
nel saperla comunicare”[11].
Il
sentimento del contrario è dunque una forma di compassione, in senso
etimologico e nasce da una speciale attività della riflessione.
Vediamo il
don Chisciotte: noi vorremmo ridere di quanto c’è di comico nella
rappresentazione di questo povero alienato, vorremmo ridere, ma un senso di
commiserazione turba il riso, un senso di pena e pure di ammirazione: questo
povero hidalgo è ridicolo ma pure eroico. Il riso diviene amaro. Una rappresentazione veramente umoristica
suscita perplessità. Gli scritti umoristici contengono molte digressioni
generati dalla riflessione. Ogni vero umorista non è soltanto poeta, è anche
critico
La riflessione scompone l’immagine creata dal primo sentimento e ne fa
sorgere un’altra creata dal sentimento contrario. Come ho mostrato nel Sant’Ambrogio di Giusti, la
riflessione inserendosi come un vischio nel primo sentimento del poeta, un
sentimento di odio verso quei soldatacci, genera a poco a poco un sentimento
contrario (p. 186)
A
proposito di un fraintendimento di Benedetto Croce: “o io non so scrivere, o
Croce non sa leggere
Indulgenza,
compatimento, pietà, sono un sentimento del contrario di quel primo sentimento
di sdegno davanti a certe situazioni. Se non è così allora c’è l’ironia. Don
Abbondio e don Chisciotte suscitano compatimento o perfino simpatia dopo la
riflessione.
Manzoni incarna
il suo ideale nel cardinale Federigo Borromeo. Ma la riflessione gli dice che
quello è un ideale astratto ed egli ascolta dentro di sé anche la voce delle
debolezze umane
Nel XXV
capitolo il Cardinale fa una predica di eroismo al prete vile il quale si
trovava tra quegli argomenti come un pulcino tra gli artigli del falco che lo
tengono sollevato in una regione sconosciuta, paragone che si rifà a Esiodo (Opere
e giorni. 202 - 212)
Del resto
don Rodrigo pur di spuntare l’impegno era capace di tutto e c’era la lega dei
birboni. Il pauroso è comico quando teme pericoli immaginari, ma se i pericoli
sono reali non è più soltanto comico. Don Abbondio certo non è un eroe, non ha
coraggio e il coraggio uno non se lo può dare, e noi lo compatiamo. Dunque don
Abbondio è umoristico. Manzoni del resto lo commisera e compatisce solo dopo
averne fatto strazio. Quella pietà in fondo è spietata e l’indulgenza non è
così bonaria come sembra.
Per la
pietas spietata cfr. Enea di Virgilio (ndr)
Don Abbondio
nel quale si è incarnato il sentimento del contrario è figura più viva del
cardinale.
Ciascuno di
noi elabora una costruzione ideale e illusoria di se stesso. Il comico ne ride,
il satirico se ne sdegna, l’umorista smonta questa costruzione ideale, e non
per riderne, magari per compatirla.
I rapporti
sociali della convenienza sacrificano la moralità.
L’umorista
capisce che i rapporti umani sono dettati dal calcolo della convenienza. Più si
è deboli più si sente il bisogno di ingannare. La simulazione è uno strumento
di lotta.
L’umorista
si diverte a smascherare le simulazioni. Il mentire a se stessi è un effetto
del mentire sociale
L’umorista
smaschera tutte le vanità individuali e sociali come fa Thackeray in Vanity
fair[12]
Pascal scrisse:
non c’è uomo che differisca da un altro più che da se stesso nella successione
del tempo. In ognuno di noi c’è una lotta di anime diverse. A volte la bestia
istintiva acquattata in ciascuno sferra un calcio all’anima morale del
galantuomo. Talora prevale la parte emotiva su quella razionale e ci sconvolge
Cfr. la
Medea di Euripide: "Kai; manqavnw me;n oi\\\a dra'n mevllw kakav, - qumo;" de;
kreivsswn tw'n ejmw'n bouleumavtwn, - o{sper megivstwn ai[tio" kakw'n
brotoi'""( Medea,
vv. 1078 - 1080), capisco quale abominio sto per compiere, ma più forte dei
miei ragionamenti è la passione, che è causa dei mali più grandi per i
mortali", dirà la furente nel quinto episodio dopo avere preso la
decisione folle di uccidere i figli.
La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo di fissare in forme
stabili, in concetti, in princìpi, dentro argini fittizi che talora crollano miseramente
La
fissazione in forme immutabili può rappresentare una sventura. Anche le
fattezze del corpo. A volte ci vediamo vivere mentre facciamo dei gesti
In certi
momenti l’anima si spoglia da tutte le finzioni abituali e vediamo noi stessi
nella vita. Allora tutto può apparirci privo di senso e quella realtà diversa
ci appare orrida. Capiamo che le forme fissate sono solo un inganno per vivere
e che sotto c’è altro cui non possiamo affacciarci se non a costo di morire o
impazzire. Abbiamo ricevuto un aspetto che ciascuno si racconcia come può: è la
maschera esteriore. L’uomo è
sempre mascherato, senza volerlo, senza saperlo. Il cane è naturale,
l’uomo non può fare a meno di atteggiarsi, anche davanti a se stesso.
Epitteto:
siamo qui a recitare la parte di un dramma del quale non siamo i registi
L’aiuta in
questo una certa macchinetta che i signori filosofi chiamano logica. Questa
inaridisce il cuore rendendolo un pezzo di sughero.
La logica
tende a fissare quello che è mobile, mirabile e fluido a dare un valore
assoluto a ciò che è relativo.
La vita è
logos ma non è logica (ndr).
Il poeta
epico o drammatico compone[13] un
carattere, mentre l’umorista scompone il carattere nei suoi
elementi e si diverte a rappresentare il personaggio nelle sue incongruenza.
L’umorista non rappresenta eroi.
Egli vede il
mondo, se non nudo in camicia, in camicia il re[14].
Davanti a un
cadavere tutto composto in pompa l’umorista è capace di sentirne il rumore del
ventre e di esclamare digestio post mortem! [15].
I soldatacci
austriaci della poesia del Giusti sono veduti infine dal poeta come tanti
poveri uomini in camicia. Le uniformi compongono nell’animo
del poeta una rappresentazione della patria schiava; la riflessione scompone
questa rappresentazione, spoglia quei soldati e vede in essi una torma di
poveretti addogliati e derisi. Il vestiario compone e nasconde: due cose che
l’umorismo non può soffrire. La vita nuda e la natura sono senza ordine almeno
apparente. L’oro in natura è frammisto alla terra. Gli scrittori in genere non
ne tengono conto e presentano l’oro in zecchini nuovi, mentre l’umorista sa che
la materialità della vita è varia e complessa, è imprevedibile, e sa che nelle
anime ci sono degli abissi. L’umorista vede i particolari anche volgari e triviali,
i contrasti, le contraddizioni e l’opera umoristica contiene lo scomposto, lo
slegato, il capriccioso, in opposizione al composto e all’ordinato dell’opera
d’arte in genere. Il “se” riferito al naso di Cleopatra[16]
- tutta la faccia della terra sarebbe cambiata - si può inserire come un cuneo
in tutte le vicende e può produrre disgregazioni, scomposizioni e così via.
L’artista
ordinario bada solo al corpo, l’umorista bada al corpo e all’ombra e talora più
all’ombra che al corpo e nota tutti gli scherzi di quell’ombra, come essa ora
si allunghi ora si intozzi, quasi a fare le smorfie al corpo che intanto non se
ne cura.
[9] Luigi Pirandello, L’umorismo (1908),
p. 175. Dedicato alla buon’anima di Mattia Pascal, bibliotecario
[12] La fiera della vanità è un
romanzo dell'autore inglese William Makepeace Thackeray, apparso prima in 20
puntate mensili tra il 1847 e il 1848
[13] Omero e pure Euripide
compongono e pure scompongono i caratteri. Si può pensare ad Achille e a Medea
o anche a Ifigenia (in Aulide). Pirandello qui si sbaglia.
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