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lunedì 20 maggio 2019

Molti eventi in modo insperato compiono gli dei

Scuola di Raffaello, Dei dell'Olimpo
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Non si può dare fiducia agli assicuratori

La conclusione del Coro dell’Elena di Euripide è uguale a quella di Alcesti , v. 1159; Andromaca, v. 1284; Elena, v. 1688; Baccanti, v. 1388.

Coro
Molteplici sono gli aspetti del soprannaturale " pollai; morfai; tw'n daimonivwn
e molti eventi in modo insperato (ajevlptw~) compiono gli dèi;
e i fatti aspettati non vennero portati a compimento,
mentre per quelli inaspettati un dio trovò la via.
Così è andata a finire questa azione (Elena, 1688 - 1692). 

Nella Medea è differente solo il primo verso dei cinque: pollw`n tamiva~ Zeu;~ ejn JOluvmpou (v. 1415), di molti casi è dispensatore Zeus sull’Olimpo.
Questo finale è topico.
Anche l'Ippolito si conclude con la constatazione, da parte della Corifea che su Trezene è caduto un dolore comune inaspettatamente ajevlptw~ (v. 1463), un dolore che provocherà un fluire continuo di lacrime.
Appendice
Imprevedibilità degli eventi e felicità
L'affermazione dell'imprevedibilità della vita umana in effetti costituisce uno dei tovpoi della letteratura. Si tratta di un motivo sapienziale arcaico già presente in Archiloco (fr. 58D.):"toi'" qeoi'" tiqei'n a{panta...pollavki" d j ajnatrevpousi kai; mavl j eu\ bebhkovta"/uJptivou" klivnous j ", bisogna attribuire ogni cosa agli dei...spesso rovesciano e stendono supini anche quelli ben saldi.


L’ alternarsi di successi e insuccessi, benessere e malessere, costituisce il ritmo evidenziato da Archiloco:" animo, animo sconvolto da affanni senza rimedio/sorgi e difenditi dai malevoli, contrapponendo/il petto di fronte, piantandoti vicino agli agguati dei nemici/con sicurezza: e quando vinci non gloriartene davanti a tutti,/e, vinto, non gemere buttandoti a terra in casa./ Ma nelle gioie gioisci e nei dolori affliggiti/non troppo: riconosci quale ritmo governa gli uomini" (fr.128 West).

Ne troviamo un'eco nei Malavoglia di Verga: "Lasciò detto il povero nonno, il riso e i guai vanno a vicenda" (p. 146).

Il topos non manca nella cultura orientale: "Ma proprio come nel classico taoista del Tao Te Ching, quando la fortuna di un uomo tocca il fondo finalmente le cose cominciano a cambiare"[1].


Anche Sofocle denuncia questa insicurezza: nei suoi drammi si trova più volte l'immagine dell' altalena fatale:" nell'Esodo dell'Antigone il messo sentenzia:"tuvch ga;r ojrqoi' kai; tuvch katarrevpei - to;n eujtucou'nta to;n te dustucou'nt j ajeiv (vv.1157 - 1158), la sorte infatti raddrizza e la sorte butta giù/ il fortunato e il disgraziato via via.
 Nell'Edipo re il coro chiede ad Apollo:"intorno a te ho sacro timore: che cosa, o di nuovo/o con il volgere delle stagioni ("peritellomevnai" w{rai"") un'altra volta/effettuerai per me?"(vv. 155 - 157). In questo scorrere rapido dei giorni, nel girare vorticoso delle stagioni, avvengono mutamenti continui e alcune cose si ripetono, ma altre accadono inopinatamente.
Gli ultimi versi del dramma contengono questa sentenza : sicché, uno che sia nato mortale, non ritenga felice nessuno,/considerando quell'ultimo giorno a vedersi, prima che/abbia passato il termine della vita senza avere sofferto nulla di doloroso ("pri;n aj;n /tevrma tou' bivou peravsh/ mhde;n ajlgeino;n paqwvn", Edipo re, vv.1528 - 1530).
L'imprevedibilità del futuro è denunciata anche da Deianira all'inizio delle Trachinie (vv. 1 - 3) :" esiste un antico detto ("Lovgo" me;n e[st j ajrcai'o"") diffuso tra gli uomini: che non puoi conoscere la vita di un uomo prima che uno sia defunto, né se per lui sia stata buona o cattiva".
Più avanti la Nutrice afferma addirittura che è sconsiderato (mavtaiovv" ejstin), v. 945 chi conta su due giorni o anche più: infatti non c'è il domani se prima uno non ha passato l'oggi.
 Queste parole ribadiscono gli insegnamenti delfici del conoscere, anche attraverso se stessi, la natura umana, i suoi limiti e pure le sue connessioni con il cosmo, per rifuggire ogni eccesso, ogni rottura dell'equilibrio e dell'armonia.
In ogni caso, è la conclusione delle Trachinie:"koujde;n touvtwn o{ ti mh; Zeu" "(1278), nulla di questo che non sia Zeus.

Pindaro afferma che Tantalo era l'uomo più amato dagli dèi che lo onoravano frequentando la sua mensa; egli però non seppe smaltire la grande felicità:" se mai i protettori dell'Olimpo onorarono un uomo/mortale, era Tantalo questo; però/ di fatto non seppe/digerire la grande felicità, e con la sazietà attirò/un accecamento pieno di prepotenza, e su di lui/il padre sospese un macigno pesante,/che egli desidera sempre stornare dal capo/ed erra lontano dalla gioia. (Olimpica I, vv. 54 - 61).
 "E' il culmine della felicità quando gli dèi si assidono alla nostra tavola e portano i loro doni - ma da quel momento non è possibile che tramontare. "I venti che soffiano sulle cime incessantemente mutano. La felicità non dura a lungo ai mortali, quand'essa viene nella sua pienezza" (Pindaro, Pitiche, III, 104 - 106)"[2].

Poiché la vita umana è imprevedibile, non si può chiamare felice né fortunato chi non l'ha ancora compiuta tutta: è una constatazione della mutevolezza e imprevedibilità della tuvch, una forza soprannaturale che durante l'età ellenistica acquisterà ogni credito e sostituirà tutti gli dèi dell'Olimpo e degli Inferi.
 “Cosa sa l’uomo della vita? Niente di reale. Viviamo tra figure stereotipate, simili a cartoline illustrate”[3].

Aristofane nella Lisistrata echeggia questo locus in chiave parodica: “ h\ povll j a[elpt j e[nestin ejn tw'/ makrw'/ bivw/ " (v. 256) davvero in una lunga vita ci sono molte cose impreviste. Infatti le donne "odiose a Euripide e a tutti gli dèi", come le definisce il corifèo (v. 283) hanno occupato l'Acropoli e intendono fare lo sciopero del sesso per impedire la continuazione della guerra. La parola d'ordine lanciata dalla loro "capa" Lisistrata è :"ajfekteva toivnun ejstivn hJmi'n tou' pevou""(v. 124), bisogna astenersi dal bischero. 
Nelle Rane il personaggio Euripide recita i primi due versi della sua Antigone che non ci è arrivata:" Edipo dapprima era un uomo felice" (v. 1182)..."ma poi divenne viceversa il più infelice dei mortali" (v. 1187). Ogni giorno infatti è assolutamente diverso dal precedente. Soprattutto per chi ricerca. “ Edipo è l’uomo della ricerca, colui che interroga, indaga. Da quando ha lasciato Corinto per partire all’avventura, è anche un uomo per cui l’avventura della riflessione, dell’indagine è sempre una strada da tentare. Edipo non si ferma”[4].

Concetti analoghi si trovano in diversi drammi euripidèi.
Nel terzo Stasimo delle Baccanti le Menadi cantano " to; de; kat j h\mar o{tw/ bivoto" - eujdaivmwn, makarivzw" (vv. 910 - 911), considero beato l'uomo la cui vita è felice giorno per giorno.
 Nell'Ippolito il coro sentenzia:" oujk oi\d j o{pw" ei[poim j a]n eujtucei'n tina - qnhtw'n: ta; ga;r dh; prw't j ajnevstraptai pavlin"(vv. 981 - 982), non so come potrei dire che alcuno dei mortali è fortunato: infatti le posizioni più alte vengono rovesciate.
Nell'Ecuba la vecchia regina, dopo il sacrificio - assassinio della figlia Polissena constata la vanità della ricchezza e del potere, quindi conclude:"kei'no" ojlbiwvtato" , - o}tw// kat j h\mar tugcavnei mhde;n kakovn"(vv. 627 - 628), il più fortunato è quello cui giorno per giorno non tocca nessun male.
Negli Eraclidi il Messaggero che porta la notizia della sconfitta di Euristeo conclude il suo racconto con questa sentenza derivata dall’insegnamento della sorte del persecutore abbattuto: “to;n eujtucei'n dokou'nta mh; zhlou'n pri;n a]n - qanovnt j i[dh/ ti~: wJ~ ejfhvmeroi tuvcai” (vv. 865 - 866), non si deve invidiare quello che sembra avere successo, prima di averlo visto morto; poiché le fortune cambiano ogni giorno.
 Nelle Troiane la vedova di Priamo insegna:"nessuno dei felici considerate che sia fortunato, prima che sia morto"(vv. 509 - 510).
 In un'altra cara tragedia di Euripide, l'Andromaca , leggiamo:"Crh; d j ou[pot j eijpei'n oujdevn j o[lbion brotw'n - pri;n a]n qanovnto" th;n teleutaivan i[dh/" - o}pw" peravsa" hJmevran h}xei kavtw"(vv.100 - 102), non bisogna dire mai felice uno dei mortali/prima che tu abbia visto l'ultimo giorno/ del defunto, come, avendolo passato, andrà laggiù.

 Nell'Eracle il Coro constata che in un attimo il dio ha rovesciato un uomo fortunato, e in un attimo i figli dell’eroe spireranno per mano del padre:"tacu; to;n eujtuch' metevbalen daivmwn - tacu; de; pro;" patro;" tevkn j ejkpneuvsetai " (vv. 884 - 885).
Nel primo stasimo dell’Oreste il coro di donne argive sentenzia: oJ mevga~ o[lbo~ ouj movnimo~ ejn brotoi'~ (v. 340), la grande prosperità non è stabile per i mortali. Nel terzo stasimo le coreute compiangono le stirpi mortali e le invitano a considerare wJ~ par j ejlpivda~ - moi'ra baivnei (vv. 976 - 977), come il destino procede contro le aspettative. Il dolore tocca ora all’uno ora all’altro in un lungo periodo e ogni vita di mortali è imponderabile (979 - 981). 

Nel Thyestes di Seneca il terzo coro di vecchi micenei approva la conciliazione offerta da Atreo, non conoscendo le vere intenzioni del tiranno, e ammonisce i regnanti sulla mutevolezza della sorte:"Nulla sors longa est: dolor ac voluptas/invicem cedunt; brevior voluptas./Ima permutat levis hora summis" (vv. 596 - 598), nessuna sorte dura a lungo: il dolore e il piacere si alternano; più breve è il piacere. Un'ora veloce cambia gli abissi con le cime.

La non prevedibilità della felicità o infelicità della vita fa parte non solo della sapienza tragica, ma anche di quella erodotea: il Solone dello storiografo di Alicarnasso dichiara a Creso che, essendo la vita umana fatta mediamente di 26250 giorni, nessuno di questi porta una situazione uguale all'altro, pertanto l'uomo è del tutto in balìa degli eventi ("pa'n ejsti a[nqrwpo" sumforhv" (1, 32, 4). Quindi, sebbene il saggio ateniese abbia visto che il re di Lidia è ricco e potente, non può dire se sia felicissimo prima di avere avuto la notizia che ha finito bene la vita. Tucidide viceversa ha la pretesa di assicurarci, dandoci regole per i fatti che si ripresenterebbero sempre nello stesso modo.

 Mazzarino mette in rilievo un quesito ricorrente nell'opera di Erodoto :" l’unità dell’opera erodotea è dominata, appunto, da alcuni motivi centrali; motivi che commuovevano ed esaltavano la pubblica opinione di tutti i Greci. E con questa trama andranno spiegate le corrispondenze di più ampio respiro, che attraversano l’opera: il colloquio tra Creso e Solone nel lovgo~ lidio, al quale fanno eco le parole di Artabano a Serse (VII 46, 3 - 4)[5]. Dall’attuale primo libro, dunque, al settimo si richiama questa domanda essenziale per il pensiero di Erodoto: “Son felici il ricco e il monarca? Perché il vivere può preferirsi al morire?”. A questa domanda rispondono i discorsi tra Creso e Solone, tra Serse e Artabano...anche Anassagora si sforzava di rispondere alla stessa domanda...secondo Anassagora il dotto soprattutto era felice"[6].

Nelle Storie di Polibio, Annibale prima della battaglia di Zama (202 a. C.) parla a Scipione cercando un accordo: io ho sperimentato come la tuvch sia mutevole, gli dice, e faccia pendere la bilancia alternatamente da una parte o dall’altra kaqavper eij nhpivoi~ paisi; crwmevnh (15, 6, 8), come se trattasse con dei bambini infanti.

Su questa linea anche Platone che nel Gorgia (470e) fa dire a Socrate di non sapere se il gran re dei Persiani sia felice poiché non sa come stia quanto a paideia e a giustizia:"ouj ga;r oi\da paideiva" o{pw" e[cei kai; dikaiosuvnh" ; quindi, a Polo che lo incalza, chiedendogli se la felicità consista in questo, risponde che l'uomo e la donna sono felici quando sono belli e buoni, quando sono ingiusti e malvagi invece sono infelici.
Nelle Leggi (VII, 802a) più in generale Platone afferma che "non è cosa sicura onorare i viventi con inni e canti prima che ciascuno abbia percorso fino in fondo tutta la vita e vi abbia posto una bella fine". 

Vediamo ancora la formulazione del tovpo" data da Ovidio:"Iam stabant Thebae, poteras iam, Cadme, videri/exilio felix: soceri tibi Marsque Venusque[7]…sed scilicet ultima semper /expectanda dies hominis, dicique beatus/ante obitum nemo supremaque funera debet" (Metamorfosi , III, 135 - 137), già era costruita Tebe, e tu Cadmo potevi sembrare felice nell'esilio: avevi come suoceri Venere e Marte…ma certo bisogna sempre aspettare l'ultimo giorno dell'uomo e nessuno può dirsi beato prima dell'ultima funebre pompa!

Essere felici secondo Strabone è un atto di pietas.
Strabone[8] nella sua Geografia[9] afferma che gli uomini imitano benissimo gli dèi quando fanno del bene, ma, si potrebbe dire anche meglio, quando sono felici (" a[meinon d j a[n levgoi ti", o{tan eujdaimonw'si", Geografia, X, 3, 9).

 Infernale e colpevole allora può essere considerata l'infelicità:" E' una vergogna essere infelici. E' una vergogna non poter mostrare a nessuno la propria vita, dover nascondere e dissimulare qualcosa"[10].

La malattia e la salute
Anche le malattie talora vengono considerate segno di colpa. Quando il principe Andrej Bolkonskij domanda al padre :"Come va la vostra salute?", il vecchio risponde:"Mio caro, solo gli stupidi e i viziosi si ammalano. Tu però mi conosci: dalla mattina alla sera sono occupato, sobrio, e quindi sano"[11].

T. Mann La montagna incantata
 “La malattia porta con sé minorazioni sensorie, deficienze, narcosi provvidenziali, misure di adattamento e di alleggerimento spirituali e morali della natura, che il sano ingenuamente dimentica di mettere in conto. L’esempio migliore era tutta quella marmaglia di malati di petto con la loro leggerezza, la loro stupidaggine, il loro leggero libertinaggio, e la mancanza di buona volontà per raggiungere la salute”[12]. La teoria della inumanità della malattia convince Hans Castorp, la cui anima viene contesa dall’umanista Settembrini che l’ha esposta, e dal suo rivale Naphta: “Giovanni Castorp trovò la cosa bellissima , interessante, e disse al signor Settembrini che la sua teoria plastica lo aveva completamente conquistato. Poiché, si dicesse pure quello che si voleva - e qualcosa si poteva pur dire; per esempio: che la malattia era uno stato vitale accentuato, ed aveva quindi in sé qualcosa di festivo, di solenne - si dicesse dunque pure quello che si voleva, fatto sta che la malattia significava una superaccentuazione dell’elemento corporeo; essa additava, per così dire, all’uomo il suo corpo e lo riconduceva, lo respingeva ad esso, pregiudicando la dignità umana fino al suo annientamento, appunto perché abbassava l’uomo fino a diventare soltanto corpo. La malattia era dunque inumana”.
Il gesuita naturalmente ribatte e confuta questa teoria: “Naphta replicò dicendo che la malattia era invece altamente umana; poiché essere uomo significa essere malato”[13]

 Laboriosità e pietas si addicono molto alla salute. In effetti la Salus per i latini era una divinità, di antica origine italica. Plauto la menziona più volte (Captivi 529; Poenulus 128).
Le assicurazioni
In conclusione: la pretesa odierna di assicurarsi dalle sventure è fasulla e non rende la vita più sicura né più sana né felice.
"Ognuno deve essere pienamente consapevole che la propria vita è un'avventura anche quando la crede chiusa in una sicurezza da burocrate: ogni destino umano comporta un'irriducibile incertezza anche nella certezza assoluta, che è quella della sua morte, poiché ne si ignora la data. Ognuno deve essere pienamente consapevole di partecipare all'avventura dell'umanità, che è, ormai con una velocità accelerata, proiettata verso l'ignoto"[14].
La formula del poeta greco Euripide, antica di venticinque secoli, è più attuale che mai: “L’atteso non si compie, all’inatteso si apre la via”. L’abbandono delle concezioni deterministe della storia umana, che credevano di poter predire il nostro futuro, l’esame dei grandi eventi del nostro secolo che furono tutti inattesi, il carattere ormai ignoto dell’avventura umana devono incitarci a predisporre la mente ad aspettarsi l’inatteso per affrontarlo (…) Non abbiamo ancora incorporato il messaggio di Euripide: attendersi l’inatteso. La fine del XX secolo è stata tuttavia propizia, per comprendere l’irrimediabile incertezza della storia umana. I secoli precedenti hanno sempre creduto in un futuro o ripetitivo o progressivo. Il XX secolo ha scoperto la perdita del futuro, cioè la sua imprevedibilità. Questa presa di coscienza deve essere accompagnata da un’altra, retroattiva e correlativa: quella secondo cui la storia umana è stata e rimane un’avventura ignota”[15].

Nel Romanzo di Alessandro (composto in età ellenistica, fra il 300 e il 150 a. C.), l’eroe macedone dice a Nicolao, re degli Acarnani, superbo per la ricchezza e la fortuna: “mh; ou{tw~ gauriw', Nikovlae basileu', wJ~ iJkano;n e[cwn peri; th'~ au[rion nevcuron zwh'~: hJ tuvch oujc e{sthken ejf j eJno;~ tovpou, rJoph; de; metabavllei kai; tou;~ ajlazovna~ aujcenivzei(I, 18, 7), non essere così orgoglioso, re Nicolao, come se avessi una garanzia sulla vita di domani: la sorte non sta ferma in un solo luogo, il piatto della bilancia cambia posizione e prende alla gola i gradassi. 

Leopardi: “Bisogna vivere eijkh̃/, témereà l’hasard, alla ventura” (30 giugno 1822)”[16].

 Ho insistito su questo tovpo" dandone parecchie testimonianze poiché adesso i più cercano disperatamente, e risibilmente, di assicurarsi su tutto, da tutto. La grande angoscia dei giorni di stragi e poi di guerre terroristiche deriva in massima parte dallo squarcio che si è aperto orrendamente nella stupida illusione della programmabilità e prevedibilità della nostra vita dal primo momento all'ultimo.

I giuramenti d’amore non sono credibili
Il rimprovero della perfidia è comunque parte costante del lamento o della rabbia delle donne abbandonate nella letteratura antica, con un'eco precisa nell'Orlando furioso quando Ariosto[17] dà voce alla disperazione di Olimpia abbandonata da Bireno:" donne, alcuna di voi mai più non sia,/ch'a parole d'amante abbia a dar fede./L'amante, per aver quel che desia,/senza guardar che Dio tutto ode e vede,/aviluppa promesse e giuramenti,/che tutti spargon poi per l'aria i venti". (X, 5).

I giuramenti d'amore non sono credibili; l'inaffidabilità però riguarda non soltanto gli uomini ma anche le donne.
Lo afferma Sofocle in un frammento (811 Pearson):" o{rkon d j ejgw; gunaiko;" eij" u{dwr gravfw", giuramento di donna io lo scrivo sull'acqua.
Impossibile qui non ricordare il secondo distico dell'epigramma 70 di Catullo:" dicit; sed mulier cupido quod dicit amanti/in vento et rapida scribere oportet aqua""(70, 3 - 4), promette, ma quello che promette la donna all'amante irretito dalla passione, bisogna scriverlo nel vento e nell'acqua che porta via tutto.
Nemmeno gli amori omosessuali si salvano dalla perfidia: Encolpio poco dopo l'amore meraviglioso con Gitone, fatto di trasfusione delle anime attraverso le labbra[18], viene lasciato dall'adolescente adescato da Ascilto e, tastato il letto che non conteneva più la sua gioia, dubita della fede degli amanti:"si qua est amantibus fides" (Satyricon , 79, 10).
 Se tali solenni promesse penetrano da qualche parte, certo non vanno dentro gli orecchi degli immortali, sostiene Callimaco[19] in un epigramma:" w[mosen ajlla; levgousin ajlhqeva, tou;" ejn e[rwti - o{rkou" mh; duvnein ou[at j ej" ajqanavtwn" (A. P. V 6), ha giurato ma dicono il vero: che i giuramenti d' amore non entrano negli orecchi degli immortali.
Nel Simposio di Platone Pausania durante il suo discorso sostiene che gli amanti godono di maggiore libertà rispetto ai comuni mortali: a loro gli dèi concedono addirittura di trasgredire i giuramenti:"ajfrodivsion ga;r o{rkon ou[ fasin ei\nai", 183 b , dicono infatti (i più) che non esiste giuramento d'amore.


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[1] Qiu Xiaolung, Quando il rosso è nero, p 63.
[2] M. Cacciari, L'arcipelago, p. 53.
[3] Sándor Márai, La sorella, p. 39.
[4] J. P. Vernant, L’Universo, gli dèi, gli uomini, p. 167.
[5] E’ un momento di “sapienza silenica”: Serse, invadendo la Grecia, vide l'Ellesponto coperto dalle navi e dapprima si disse beato (oJ Xevrxh" eJwuto;n ejmakavrise, VII, 45), ma subito dopo scoppiò a piangere (meta; de; tou'to ejdavkruse) al pensiero di quanto è breve la vita umana. Allora Artabano, lo zio paterno, lo consolò dicendogli che, essendo la vita travagliata, la morte è il rifugio preferibile per l'uomo ("ouJvtw" oJ me;n qavnato" mocqhrh'" ejouvsh" th'" zovh", katafugh; aiJretwtavth tw'/ ajnqrwvpw/ gevgone", VII, 46, 4) ndr.
[6] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico I, pp. 178 e 179.
[7] In quanto aveva sposato la loro figliola Armonia.
[8] 63 a. C. - 23 d. C. 
[9] Redatta nei primi anni del regno di Tiberio
[10] H. Hesse, Rosshalde (del 1914), p. 78.
[11] L. Tolstoj, Guerra e pace, p. 146.
[12] T. Mann, La montagna incantata, II, p. 119. E’ l’umanista Settembrini che parla.
[13] T. Mann, La montagna incantata, II, p. 134.
[14] E. Morin, La testa ben fatta,, p. 64.
[15] E Morin, I sette saperi, p. 14 e p. 81.
[16] Leopardi, Zibaldone, 2529
[17] 1474 - 1533.
[18] :"qualis nox fuit illa, di deaeque,/quam mollis torus. haesimus calentes/et transfudimus hinc et hinc labellis/errantes animas. valete, curae/mortales. ego sic perire coepi " (Satyricon, 79, 8), che notte fu quella, dei e dee, che morbido letto. ci stringemmo ardenti e ci trasfondemmo con le labbra a vicenda le anime deliranti. addio, affanni mortali. così io cominciai a morire.
[19] 305 ca - 240 ca a. C.

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