L’esclusa, romanzo del 1901
Marta Ajala è una bella giovane donna cacciata dal marito Rocco
Pentagora per presunto adulterio. Il padre di Rocco, Antonio aveva cacciato la
sua anni prima: fece con una mano le corna e le agitò in aria. Disse al figlio:
“vedi queste? Per noi, stemma di famiglia!”
Anche il padre di Antonio, nonno di Rocco, aveva avuto lo stesso ornamento.
Il mestiere delle mogli è quello di ingannare i loro mariti.
tra un
disordinato profluvio di messaggi d'amore" (p. 279).
Fa coppia con questi L'eterno marito (1871), Pavel Pavlovič, di Dostoevskij:"Un
individuo simile nasce e si sviluppa unicamente per ammogliarsi e, una volta
ammogliato, per trasformarsi unicamente in un'appendice della moglie, anche
quando egli abbia una personalità sua, ben determinata. La proprietà essenziale
di un simile marito è quel certo ornamento. Egli non può non essere cornuto,
così come il sole non può non risplendere, però non soltanto non ne sa mai
nulla, ma non potrà mai saperlo per le leggi medesime della natura (…) E a un
tratto, in modo del tutto inatteso, Pavel Pavlovic si fece con due dita le
corna sulla fronte calva, e ghignò piano, a lungo. Rimase così, con le corna e
ghignando, per mezzo minuto almeno, guardando Vel' čaninov[1] negli occhi in una specie di
ebbrezza della più perfida insolenza"[2].
Rusticus est nimium, anche Pavel,
come il rozzo marito sbeffeggiato da Ovidio
“Rusticus
est nimium quem laedit adultera coniunx,/et notos mores non satis Urbis
habet,/in qua Martigenae non sunt sine crimine nati,/Romulus Iliades Iliadesque
Remus" ( Amores, III, 4, 37 - 41), è davvero rozzo quello
che una moglie adultera offende, e non conosce bene i costumi di Roma nella
quale i figli di Marte non sono nati senza colpa, Romolo figlio di Ilia e il
figlio di Ilia Remo.
Insomma il
marito che, tradito, si adonta, è un ignorante integrale
Il padre di Marta, Francesco Ajala, si chiude in camera dalla vergogna e
muore presto di un colpo. La madre e la sorella Maria invece la aiutano. Del
resto Marta è innocente: è solo stata sorpresa dal marito mentre leggeva una
lettera di un corteggiatore che lei aveva respinto. Agli occhi della gente era
comunque una donna perduta. Il suo spasimante Gregorio Alvignani viene eletto
deputato
La fabbrica del padre va in malora e le tre donne si trovano in miseria.
Marta non si sentiva in colpa: “aveva la coscienza sicura lei, che non sarebbe
mai venuta meno ai suoi doveri di moglie, non perché stimasse degno di tale
rispetto il marito, ma perché non degno di lei stimava il tradirlo, e che mai
nessuna lusinga sarebbe valsa a strapparle una anche una minima concessione” p.
58.
Dentro il cranio, il cervello le si era ormai ridotto come una spugna
arida, da cui non poteva più spremere un pensiero che la confortasse, che le
desse un momento di requie.
Suo marito Rocco era uno dell’armento[3], lieto e pago di appartenervi
Marta rimpiangeva il tempo dei suoi studi e le dispiaceva non averli
seguitati.
Durante una selvaggia festa religiosa la folla aizzata da Antonio Pentagora
dà quasi l’assalto alla casa delle tre donne. C’era poi la miseria che batteva
alle porte delle tre desolate.
Antonio diceva che la sorte si era divertita a bollare i Pentagora con il
marchio dei cervi. Noialtri di corna negoziamo (cfr. l’orrore della derisione
nella Medea, nell’Aiace etc.)
Marta riprende a studiare per diventare maestra. Voleva risorgere dall’onta
vile e ingiusta e sollevare la madre dalla miseria.
Era bella assai e guardava con aria di sfida la gente che la considerava
una sfrontata. Le stesse compagne di scuola la evitavano. Tornò a scuola per
gli esami che superò brillantemente ed ebbe una supplenza, ma aveva contro le
allieve e le famiglie. Però non cedeva (cfr. l’eroe: Achille cedere
nescius [4]).
La gente chiacchierava : diceva che aveva avuto il posto in seguito a
raccomandazione dell’amante, il che magari era vero, data la nostra piaga
italica e italiota, da sempre: cfr. le XII tavole del 450[5]
“Protezioni ci voglion!” le dice l’amica Anna. Rocco è ancora
innamorato. Marta pensa che voglia schiacciarla nel fango come una ranocchia.
Tutto il paese era per l’ingiustizia e per la condanna. Finché le tolgono il
posto e lo danno a un’altra, la nipote del consigliere Breganze, sebbene
l’ispettore sapesse che Marta le era incomparabilmente superiore
Anche le altre maestre oneste e brutte e zitellone se la recarono subito a
dospetto. Un breve saluto, la mattina, con le labbra strette e via. “Un’onta
per l’istituto!” dicevano 101
Ai maschi invece piaceva e il direttore ne riconosceva il valore, ma
l’ispettore andò a dirgli che l’ingegno e la volontà non bastano, “bisogna pure
guardare, guardare nella vita privata, la quale, signor mio, influiisce, ha il
suo peso, e non poco su la considerazione in cui le allieve debbono tenere la
propria maestra”.
Cfr. Il preside Zanini (Carmignano di Brenta, 1969) e l’ispettore Portolano
(Bologna 1988)
Marta era avvilita dall’impotenza di lottare contro l’ingiustizia patente
di tutti. Eppure rimaneva superiore a tanta volgarità e al giogo livellatore
delle leggi e al palmo di fango, rete protettrice dei nani, ostacolo e pastoia
a ogni ascensione verso l’idealità.
Cfr. le leggi come le ragnatele.
Nella Vita di Solone di Plutarco troviamo una critica
delle leggi scritte da parte di Anacarsi che fu ospite e amico del legislatore
Ateniese. Lo Scita dunque derideva l’opera di Solone che pensava di frenare
l’iniquità dei cittadini con parole scritte le quali, diceva, non differiscono
affatto dalle ragnatele (mhde;n tw`n ajracnivwn diafevrein, 5, 4), ma come quelle trattengono le prede deboli e piccole, mentre
saranno spezzate dai potenti e dai ricchi (uJpo; de; dunatw`n kai; plousivwn
diarraghvsesqai).
Le cose poi andarono secondo le previsioni di Anacarsi il quale disse
anche, dopo avere assistito all’assemblea degli Ateniesi, di essere stupito del
fatto che presso i Greci parlassero i sapienti ma decidessero gli ignoranti (o{ti levgousi
me;n oiJ sofoi; par j { Ellhsi, krivnousi d j oiJ ajmaqei`~ (5, 6).
Le leggi dunque colpiscono solo i deboli
Nietzsche: “Le leggi contro i ladri e gli assassini sono fatte a favore
delle persone colte e ricche”[6].
Una lettera le annunciava un trasferimento. Alvignani l’aveva di fatto
raccomandata. Si reca a Palermo con la madre e la sorella
Nella nuova scuola è accolta bene. Si ridesta in lei il lucido e gaio senso
della vita che aveva da bambina. Aveva vinto e vivere le piaceva. Andando a
scuola le idee sgorgavano spontanee e quasi le zampillavano le parole che
avrebbe detto, i sorrisi con cui le avrebbe accompagnate. Sentiva uno
stringente bisogno di essere amata dalle allieve. Le restavano lo studio, la
scuola, le alunne e niente altro. Era sempre più bella ma non se ne curava. I
colleghi la corteggiavano ma lei si sentiva superiore. 127
Marta riceve una lettera dall’amica Anna la quale scrive che Rocco vuole
scoprire cosa faccia la moglie a Palermo, per poi ricorrere ai tribunali onde
ottenere la separazione.
In effetti Marta lo vede uscendo da scuola dove i colleghi la
corteggiano facendola rabbrividire.
Marta sente di nuovo il pericolo degli oltraggi e delle calunnie.
Si sentiva anche imprtunata dal collega Falcone, un mostro che la
corteggiava. Pensò di denunciarlo alla direttrice. Falcone aveva nascosto l’
ombrello di Marta per poterle offrire un passaggio sotto la pioggia. Marta
dormì e si svegliò decisa a scagliarsi contro qualunque ostacolo che volesse
sopraffare la sua vita. Dopo la pioggia il verde degli alberi si era ravvivato
quasi festivamente.
Il Falcone abitava in una casa vecchia e vasta con la madre e la zia,
decrepite e stolide entrambe. Le due sorelle si odiavano e si domandavano a
vicenda: “perché non muori?’”. L’una sperava di sposarsi, morta l’altra. Le due
dissennate venivano derise dalle vicine che imporporavano loro le gote
squallide, cascanti, con uva turca. E dicevano: così sembri una ragazzina di 14
anni!
La madre diceva al figlio che la mamma era l’altra siccome lei aveva 28
anni e non era maritata. Lo stesso diceva la zia
Questo ambiente aveva forse contribuito oltre la coscienza della propria
bruttezza all’orrendo concetto che Falcone aveva della vita e della natura.
Falcone non concepiva l’infelicità che proviene dai dubbi o dal sapere: “due
sole vere infelicità aveva la vita: la bruttezza e la vecchiaja soggette al
disprezzo e allo scherno della bellezza e della gioventù” 140
Excursus Vecchiaia - Giovinezza
Il fr. 1 D.
di Mimnermo
considera
la vita umana indegna di essere protratta quando "giovanezza, ahi
giovanezza è spenta", e i giorni non hanno più l'unica giustificazione che
li rendeva desiderabili: quella erotica o amorosa che dire si voglia.
"Quale
vita, quale piacere, senza l'aurea Afrodite?
Vorrei
essere morto, una volta che non mi importi più di questi beni,
l'amore
furtivo e i dolci doni e il letto:
che sono i
soli fiori fugaci di giovinezza
per gli
uomini e per le donne; poi quando sia giunta penosa
la vecchiaia che rende l'uomo turpe e insieme cattivo,
sempre cattivi affanni lo consumano nell'animo,
e non prova piacere neppure alla vista dei raggi del sole,
ma è odioso ai ragazzi, spregevole per le donne;
così tremenda rese la vecchiaia un dio".
Passiamo a
un altro frammento di Mimnermo: il 2 D.:
"Come
le foglie[7] che
genera la fiorita stagione
di
primavera, quando crescono in fretta ai raggi del sole, noi, simili a quelle,
per il tempo di un cubito, godiamo dei fiori
di
giovinezza, senza conoscere dagli dèi né il male
né il bene.
Destini neri ci stanno accanto
uno che ha
il termine della vecchiaia tremenda,
l'altro di
morte: un attimo dura il frutto
di giovinezza, per quanto sulla terra si diffonde un raggio di sole.
Ma quando questo termine di tempo sia trapassato,
subito essere morto è meglio della vita:
infatti molti mali sopraggiungono nell'animo: talora la casa va in rovina
e ci sono le vicende dolorose della povertà:
a un altro poi mancano figli, di cui soprattutto
sentendo il desiderio va sotto terra nell'Ade;
un altro ha una malattia che gli consuma il cuore: non c'è nessuno
degli uomini, cui Zeus non dia molti mali".
Sentiamo un altro biasimo della vecchiaia (fr. 5 D). Sembra che facesse
parte della Nannò :
“A Titono , Zeus diede da sopportare,
male immortale,
la vecchiaia, che è anche più raccapricciante della morte tremenda.
" Ma di breve durata è come un sogno
la giovinezza preziosa; e la tremenda e deforme
vecchiaia subito sul capo è sospesa,
odiosa insieme e spregiata, che rende l'uomo irriconoscibile,
e danneggia gli occhi e la mente versandosi attorno."
La
conclusione di Mimnermo è che è auspicabile morire a sessant’anni:
“Vorrei
che senza malattie e preoccupazioni tremende
il destino
di morte mi cogliesse a sessant’anni” (fr. 11 Gentili - Prato).
Euripide Eracle 638
sgg. Il secondo stasimo contiene un biasimo della
vecchiaia che grava sul capo dei vecchi compagni d'armi di Anfitrione come un
carico più pesante delle rupi dell'Etna ("to; de;
gh'ra" a[cqo" - baruvteron Ai[tna" skopevlwn - ejpi; krati;
kei'tai" (vv. 638 - 640).
La giovinezza è preferibile alla ricchezza, ed è bellissima tanto nella
prosperità quanto nella povertà: “kallivsta me;n ejn o[lbw/, - kallivsta
d j ejn peniva/”, Euripide, Eracle, vv. 647 - 648.
Se gli dèi avessero intelligenza e sapienza (xuvnesi" -
kai; sofiva) riguardo agli uomini donerebbero
una doppia giovinezza (divdumon h{ban) come segno
evidente di virtù a quanti la posseggono, ed essi, una volta morti, di nuovo
nella luce del sole (eij" aujga" pavlin aJlivou), percorrerebbero una seconda corsa, mentre la gente ignobile avrebbe una
sola possibilità di vita (Euripide, Eracle, vv.661 - 669).
Nel Miles gloriosus di Plauto si trova un locus similis : "itidem
divos dispertisse vitam humanam aequom fuit:/ qui lepide ingeniatus esset,
vitam ei longiquam darent,/ qui inprobi essent et scelesti, is adimerent animam
cito" (vv. 730 - 732), parimenti sarebbe giusto che gli dèi
distribuissero la vita umana: a colui che avesse un carattere amabile,
dovrebbero dare una vita lunga, a quelli che fossero cattivi e scellerati,
portargliela via presto.
Marziale afferma
che l’uomo buono che è senza senza rimorsi accresce lo spazio della sua vita
godendo anche del proprio passato: “ampliat aetatis spatium sibi vir bonus:
hoc est/vivere bis, vita posse priore frui” (X 23, 7 - 8).
Callimaco vorrebbe
spogliarsi delle vecchiaia che gli pesa addosso quanto l’isola tricuspide sul
maledetto Encelado (Aitia fr. 1, vv. 35 - 36).
Il terzo stasimo dell’ Edipo a Colono di Sofocle annuncia la sapienza
silenica maledice la vecchiaia:"Non essere nati (mh; fu'nai) supera/ tutte le condizioni, poi, una volta apparsi,/ tornare al più
presto là/ donde si venne,/ è certo il secondo bene./ Poiché quando uno ha
oltrepassato la gioventù/ che porta follie leggere (kouvfa"
ajfrosuvna" fevron), /quale travagliosa disfatta resta fuori?/ Quale
degli affanni non c'è?/Invidia, discordie, contesa battaglie,/ e uccisioni; e
sopraggiunge estrema/ l'esecrata vecchiaia impotente (ajkrate;") ,/ asociale (ajprosovmilon), priva di
amici (a[filon) /dove convivono tutti i mali dei mali"(vv.1224
- 1238). non essere nati è la condizione che supera tutte e una volta nati
Di questa maledizione della vecchiaia, possiamo
trovare echi nella letteratura classica: un frammento[8] di Menandro dice:" o{n oiJ qeoi;
filou'sin ajpoqnhvskei nevo"”, colui che gli dei amano, muore giovane".
Virgilio la
chiama "tristisque senectus "(Eneide , VI, 275)
mettendola in faucibus Orci (v.273), sulla bocca dell'Orco in
compagnia di pianti, rimorsi vendicatori, pallidi morbi, e diverse altre
presenze inamene.
Leopardi è un
dichiarato nemico della vecchiaia: in Le Ricordanze del 1829
scrive:"E qual mortale ignaro/di sventura esser può, se a lui già
scorsa/quella vaga stagion, se il suo buon tempo,/se giovanezza, ahi
giovanezza, è spenta?"(vv.132 - 135). Quindi premette il verso di
Menandro, come epigrafe, ad Amore e morte del 1832.
In Il
tramonto della luna , del 1836, il poeta di Recanati poco prima di
morire compone l'anatema definitivo dell'"età provetta":
"estremo/di tutti i mali, ritrovàr gli eterni/la vecchiezza, ove
fosse/incolume il desio, la speme estinta,/secche le fonti del piacer, le
pene/maggiori sempre, e non più dato il bene"(vv.45 - 50).
Chiudo questa enumeratio
chaotica con Anacreonte (VI
secolo a. C.)
Molto noto è
il fr.5 D.:
"Con una palla purpurea di nuovo
colpendomi Eros dalla chioma d'oro
mi invita a giocare (sumpaivzein prokalei'tai)
con una ragazzina dal sandalo variopinto
nhvni poikilosambavlw/
ma quella, è infatti di Lesbo
ben costruita, disprezza katamevmfetai
la mia chioma, ché è bianca th;n me;n ejmh;n kovmhn - leukh;
gavr
mentre sta a bocca aperta davanti a un'altra".
Strofe
tetrastiche di tre gliconei e un ferecrateo.
In un altro
frammento Anacreonte sorride, sia pure con tra le lacrime, della propria
decadenza fisica, consapevole che essa è umana, è il 44 D.:"Son canute già le nostre
tempie e il capo è bianco,
la giovinezza piena di grazia carivessa d j oujkevt j h{bh
pavra
non c'è più , e vecchi sono i denti,
né rimane più molto
tempo della vita dolce; (glukerou' d j oujkevti pollo;~ - biovtou crovno~
levleiptai)
per questo singhiozzo ajnastaluvzw
spesso qamav temendo il Tartaro;
infatti è terribile il fondo
dell'Ade, e dolorosa è la discesa
in quel buco: poiché è stabilito
per chi è sceso che non risalga più".
Passiamo al fr. 88 D. nel quale Snell (La cultura
greca e le origini del pensiero europeo ", p.105) trova "il
pensiero consolante dell'avvicendarsi della fortuna espresso..senza profondità
né compiutezza, ma con spirito e in tono un pò frivolo, in una poesia dedicata
a una fanciulla tracia":
" Puledra tracia, perché mai
guardandomi con occhi obliqui
mi sfuggi senza pietà, e pensi che io non
sappia fare nulla di buono?
sappi dunque che io potrei bene metterti il
morso,
e tenendo le briglie, ti farei girare
attorno alle mete della pista.
Ora invece pascoli nei prati e giochi
saltando leggera: infatti non hai sopra di te un montatore capace ed esperto di
cavalle" (dexio;n ga;r iJppopeivrhn oujk e[cei~ ejpembavthn[9]). Tetrametri trocaici
L'arguzia
e la piacevolezza di questi versi stanno nelle allusioni erotiche. “Anacreonte
proclama il proprio desiderio di “cavalcare” la ragazza e l’ultima parola
contiene un doppio senso paragonabile a quello dei termini aristofaneschi kelhtivzein[10], kevlh~[11], iJppikov~[12]”[13].
Fine
excursus
La madre e
la zia di Falcone continuavano a vivere per essere di trastullo alle vicine. E
lui perché era nato? Era zoppo e la madre gli diceva: mettiti i piedi giusti!
Credeva che li tenesse così per capriccio, o per farla ridere.
Il
disgraziato saliva a Montecuccio, il più alto della conca d’oro e lanciava uno
sputo in direzione della città gridando: “io verme, a te formicajo!”
Marta aveva
ricevuto un’altra lettera che lesse e strappò. Si chiedeva perché doveva essere
morta proprio lei che faceva vivere. Le aveva scritto Gregorio Alvignani che
era venuto a Palermo. Aveva unito alla lettera un biglietto d’invito a una
conferenza che doveva tenere all’Università
“Venga,
s’accompagni con la direttrice del collegio! Vedrà di che luce s’accenderanno le mie parole, sapendo che lei sarà lì
ad ascoltarle! p.144
Scriveva
anche che sarebbe andato a trovarla in collegio
“Vivere,
vivere! Diceva la lettera dell’Alvignani. Gli era scoppiato dal cuore quel
grido fra le tante cure inutili, gli intrighi, le tristi arti della finzione e
della falsità in quel pandemonio della Capitale. Vivere! Vivere. E sono
fuggito”.
Quella
lettera era un inno alla vita
Anche Marta
desiderava vivere.
Alvignani
era stremato dal lavoro. Del resto era già sul secondo versante della vita
(“l’altro declivio” - onde nessun risale - )
Si era
messo a discendere e temeva di precipitare, sentiva il bisogno di aggrapparsi a
qualche cosa. In politica aveva avuto fortuna e successo ma era solo.
In treno
gridava a se stesso: vivere! Vivere!
A Palermo
voleva vedere Maria ma ci andava cauto. Pensava: dal primo incontro dipenderà
tutto 149. All’Università poteva parlare di un soggetto a sua scelta. Aveva con
sé pochi libri ma accettò. Aveva portato degli appunti su le Trasformazioni
future dell’idea morale e se ne sarebbe giovato. Il titolo
sarebbe stato Arte e coscienza d’oggi.
Era sicuro
del successo, degli applausi di un numeroso uditorio e voleva che ci fosse
Marta. Meditò sulla conferenza poiché avrebbe parlato, senza leggere. Ebbe il
previsto trionfo oratorio però Marta non c’era. Dimenticò di rispondere agli
applausi dell’immenso uditorio 150.
Andò per
incontrarla all’uscita dalla scuola. Erano entrambi turbati. Gregorio non si
aspettava di ritrovarla in tanto rigoglio di bellezza confusa e tremante. Lui
parlava con parole ardenti e affollate. Diceva tra l’altro che aveva sempre
pensato a lei. Marta non riusciva a non seguire quell’uomo ardito, elegante.
Lui era preso e vinto dall’irresistibile fascino amoroso e parlava sentendo che
le sue parole avevano la forza della persuasione.
L’ Ecuba di
Euripide si chiede perché noi mortali ci affatichiamo sugli altri apprendimenti
e ci sforziamo –ta[lla maqhvmata mocqou'men kai; mateuvomen - su tutto come se fosse dovuto,
mentre non ci adoperiamo per niente di più a fondo per imparare la persuasione
anche pagando –oujde;n ti ma'llon ej" tevlo" spoudavzomen - mistou;"
didovnte" manqavnein (816 -
817), affinché se uno talora volesse sarebbe possibile persuadere e nello
stesso tempo ottenere –peivqein tuvfcavnein q’ a[ma (Ecuba, 818 - 819).
Non c'è altro
tempio della Persuasione che la parola, dice Euripide, personaggio delle Rane di Aristofane autocitandosi: "oujk e[sti
Peiqou'" iJero;n a[llo
plh;n lovgo" "[14].
L’aria si
era come infiammata intorno ai loro corpi, s’era fatta avvolgente e vietava
ogni percezione della vita circostante 152. Pareva che anche la terra fervesse
sotto i loro piedi. La fece salire in casa sua dove un vertiginoso smarrimento
la colse: era perduta! Era piombata nel suo fondo dove tutti, tutti l’avevano
spinta quasi a furia di urtoni alle terga.
La
coscienza, che permette o impedisce, è spesso l’opinione della gente
interiorizzata. L’Alvignani le disse che la coscienza gli permetteva di amarla.
Ma sentiva che lei non lo amava: si era aggrappata a lui come un naufrago si
aggrappa a un altro. Lui era pronto del resto a portarla a Roma con la madre e
la sorella. Da due mesi procedeva la loro relazione aduggiata, intristita
dall’ombra della colpa che la coscienza di lei continuamente vi projettava.
163. Gregorio le diceva: “tocca a te decidere, sono pronto a tutto”. Intanto
arriva notizia che Rocco è gravemente ammalato di tifo e rischia la vita.
Il professor
Bandino, un inquilino della grande casa dei Pentagora, va a trovare Gregorio e
gli dice che bisognava riconciliare Marta con Rocco: il marito la rivuole.
Gregorio replica che la donna è stata infamata e ha sofferto troppo. Quando
Bandino va via, Marta salta fuori inopinatamente dalla camera da letto .
Schiaffeggia Gregorio e gli dice Vile, vile! Gli rinfaccia che si è stancato e
vuole spingerla tra le braccia del marito, Lui nega. Lei rivela di essere
incinta oltretutto. Dice “non mi resta che morire!”
Alvignani le
dice che lei non ha mai amato nessuno,
Tu ragioni,
tu puoi ragionare replica Marta.
Quando la
bella donna esce le va incontro Falcone pazzo di gelosia. Marta grida: “vuole
mettermi alla disperazione?
E Falcone:
“non si disperi…Sono io il disperato! Mi perdoni, abbia pietà di me…merito
compassione, non disprezzo…Non sono io il mostro, il mondo è un mostro, mostro
pazzo che ha fatto lei tanto bella e me così..Mi lasci gridar vendetta”. 175
Falcone
impazzisce e finisce in manicomio
Marta non
vuole tornare con Rocco dopo l’adulterio: se io fossi una cosa… ma io penso, io
so che sono stata con te e non posso, dice l’adultera all’amante 184
Pensa di
uccidersi dopo avere raccomandato la sorella a Rocco perché la sposi. Medita di
buttarsi sotto il treno (cfr. Anna Karenina). Oppure gettarsi in
mare da un dirupo.
Ci fu
un temporale: il tuono scoppiò squarciando l’aria con un formidabile rimbombo.
Cfr. il segno del tuono nell’ Edipo
a Colono , nel Tannhäuser di Wagner e in La
montagna incantata di T. Mann
Nell’Edipo
a Colono di Sofocle ktuvphse Zeuvς (1604) Zeus produsse un frastuono,
poi si sentì una voce divina che chiamò Edipo e disse: “tiv mevllomen
cwrei'n; che cosa
aspettiamo a muoverci? E’ un pezzo che indugi. Poi Edipo se ne andò e sparì in
un abisso benevolo e senza dolore (1662)
Nel Tannhäuser il
protagonista che si trova sul Venusberg dice nella seconda
scena del primo atto: il tempo che trascorro qui/non saprei misurarlo/ giorni,
mesi, per me non esistono più/poiché non vedo più il sole/né i benevoli astri
del cielo” e alla fine della seconda scena si sente un fragore spaventoso ,
dopo di che nella terza scena T si trova improvvisamente in einem
schönen Tale, in una bella valle.
Al
compimento del settimo anno di permanenza di Hans nel sanatorio si udì un rombo
( La montagna incantata, p. 1058)
La padrona
di casa porta la notizia che Fana Pentagora, altra sua affittuaria, sta
morendo. E’ la madre di Rocco, l’altra adultera. Marta va a trovarla e la
chiama mamma. Poi scrive un telegramma a Rocco perché corra a trovare la madre
morente
Marta pensa che
quella morte prefiguri la propria.
Arriva
Rocco. Marta frenava a stento per pudore le lacrime, mentre Juè, la padrona di
casa, ostentava smorfiosamente il suo pianto.
La moribonda
congiunse le mani di Marta e Rocco. Marta chiede a Rocco di impegnarsi ad
aiutare la madre e la sorella. Gli confessa l’adulterio: “sono perduta!”
Aggiunge che lui e tutti gli altri l’hanno ridotta al punto di accettare ogni
cosa da Alvignani, che solo da lui veniva una parola di conforto tra le
amarezze e le ingiustizie. Potevo tacere e invece ti ho detto tutto! Siimi
grato almeno di questo e aiuta la mia famiglia!
Marta pensa
: “gli ho detto tutto, ma non del figlio. Ma il figlio è mio, mio soltanto,
com’era mio soltanto quell’altro che mi morì per lui.. .Ah, se io l’avessi
avuto!”
Sta
per andarsene ma Rocco la ferma: non mi lasciare solo!
Intanto la
madre è morta, Ti voglio! Ti voglio gridò lui esasperato, accecato dalla
passione Dimentico tutto! e tu pure dimentica! Non mi vuoi più bene?
Marta: non è
questo, ma non è più possibile!
Rocco:
perché, lo ami ancora?
Marta; no
Rocco, no! Non l’ho mai amato, ti giuro, mai! Mai!
I due si
abbracciarono.
Vincendo il
ribrezzo che il corpo pur tanto desiderato della moglie gli incuteva, egli se
la strinse forte al petto di nuovo e, con gli occhi fissi sul cadavere,
balbettò, preso da paura: “guarda…guarda mia madre…Perdono, perdono…Rimani qui.
Vegliamola insieme”.
Monte Cavo,
1893
L’edizione
definitiva è quella Bemporad, Firenze, 1927
In quella
Treves, Milano, 1908 c’è una lettera di dedica a Luigi Capuana
Vediamola:
A lungo la
mia Esclusa si vide costretta a rimanere tale dalle case
editrici e dal pubblico. Finché non apparve su “La tribuna” di Roma: primo
romanzo italiano nelle appendici di questo giornale.
Non so come
l’abbiano preso i pazienti e viziati lettori delle appendici giornalistiche:
non mancano scene drammatiche ma il dramma si svolge più nell’intimo dei
personaggi. Dubito che una lettura forzatamente saltuaria abbia avvertito la
parte più originale del lavoro nascosta sotto la rappresentazione oggettiva dei
casi e delle persone: insomma nel
fondo essenzialmente umoristico del romanzo.
Credo che
alluda alla compassione ndr
Qui ogni
volontà è esclusa. I personaggi si illudono di agire volontariamente, mentre
una legge odiosa li guida o li trascina, occulta e inesorabile. Una donna
innocente viene infamata e scacciata dalla società finché deve commettere la
colpa della quale era stata ingiustamente accusata. La natura senza ordine
almeno apparente irta di contraddizioni è lontananissima, spesso, dalle opere
d’arte che presentano una vita troppo concentrata da una parte e semplificata
dall’altra. La vita contraddice spesso quelle semplificazioni ideali e
artificiose
La vita agisce con occasioni imprevedute,
imprevedibili, ganci improvvisi che arraffano le anime in un momento fugace.
Bologna 4 maggio 1919
[4]Orazio, Odi , I, 6,
5 - 6:" gravem /Pelidae stomachum cedere nescii ",
la funesta ira di Achille incapace di cedere. Della definizione oraziana si ricorda Leopardi nel Bruto Minore :"
Guerra mortale, eterna, o fato indegno,/teco il prode guerreggia,/ di cedere inesperto"(vv. 38 - 40).
[5] Il vizio tipicamente italico
della raccomandazione secondo me risale al rapporto patrono cliente codificato
già nelle leggi delle XII tavole del 451 - 450 con queste parole: “Patronus si
clienti fraudem fecerit, sacer esto " VIII, 2, sia
maledetto il patrono se ha commesso una frode contro il cliente.
Tito Livio sotto Augusto che voleva ripristinare gli antiqui mores celebra
l’ antico codice definendolo fons omnis publici privatique iuris ( Ab
urbe condita libri III, 34, 6), fonte di ogni diritto pubblico e privato. La maggior parte delle leggi restano
lettera morta ma questa culla e fonte del clientelismo è rimasta viva “Il
rapporto clientelare si configura come un’organizzazione mafiosa che garantisce
l’omertà, e il successo dei disonesti”. (L. Perelli, La corruzione
politica nell’antica Roma, p. 31).
La
prima Bucolica di Virgilio rappresenta al meglio il sentimento
legato alla raccomandazione, una pratica tanto presente in Italia da essere
emblematica del costume degli Italiani, un proprium et peculiare
vitium [5] della nostra gente
"Tidide
magnanimo, perché mi domandi la stirpe?
quale è la
stirpe delle foglie, tale è anche quella degli uomini.
Le foglie
alcune ne sparge il vento a terra, altre la selva
fiorente
genera quando arriva il tempo di primavera;
così le
stirpi degli uomini: una nasce, un'altra finisce".
[14] Rane,v. 1391. Euripide,
in gara con Eschilo, cita e pone sulla bilancia questo verso della sua Antigone ,
per noi quasi tutta perduta (fr. 170). Il peso maggiore però è del verso di
Eschilo (fr. 279) al centro del quale si trova Qavnato~ (Rane, v. 1392). Dioniso,
che fa da giudice, infatti dice che la morte è baruvtaton
kakovn (1394),
il guaio più pesante; Peiqw; de; kou`fovn ejsti kai; nou`n oujk e[cwn (v. 1396), la Persuasione
invece è leggera e senza pensiero. In effetti c’è anche molto di istintivo
nella capacità di persuadere.
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