con gli amici più cari a Debrecen in bicicletta da Bologna Luglio 2011 |
Il picnic crepuscolare. Elena alla finestra del collegio di Debrecen. La finestra senza Elena quaranta anni dopo, quaranta tutti interi.
Il giorno seguente cercai distrazione dalla dolce, materna Sarjantola parlando e giocando con gli amici e i conoscenti che in quel luogo e in quel tempo erano già, e ancora, molti; insomma feci un tentativo di togliere significati speciali a quella donna che era bella, fine e buona quanto si vuole, ma era pure incinta di un altro uomo.
Magari era stata ingravidata tra il sonno e la veglia, in un letto freddo, in un amplesso senza passione né attenzione, pensavo.
Comunque l’immagine di lei, eternamente viva (cfr. Sofocle, Edipo re, v. 482) , mi volteggiava sempre davanti e mi assillava.
Mi venne in mente La donna del lago di Rossini: “Grata a me fia la morte/s’Elena mia non è”
Le parole sono di Andrea Leone Tottola. Il melodramma (1819) è una conversione operistica del poema romantico The Lady of the lake di Walter Scott (1810). L’ho rivisto ieri sera (11 agosto 2016) al ROF (Rossini opera festival di Pesaro).
Non potevo essere più forte di Zeus che ha potere sul cosmo, eppure è schiavo di Afrodite. Del resto la mia intenzione in quella circostanza non era lo scatenato libertinaggio del dio che è stato il primo dongiovanni della storia. Il mio amore era Uranio, figlio di Afrodite Celeste, non quello plebeo, figlio di una Venere volgare.
La tenacia del sentimento e del proposito voleva dire che Elena, anche solo se la pensavo, mi insegnava più cose e più importanti di quante ne potevo imparare dal resto dell’ambiente di studio e di eros, dove, in seguito a quattro estati di varie esperienze, avrei potuto passare un quinto mese piacevole con una ragazza gradevole, lieta e disinvolta, come avevo fatto l’anno precedente, o anche vivere un amore mensile allegro con una femmina umana già conosciuta bene o con una carina ancora intentata, una donna che significasse qualcosa, ma non mi obbligasse a pensarla continuamente e spietatamente al pari di Elena, intensa e piena di simboli come un’opera d’arte, e pure problematica da ogni punto di vista.
Non volevo soffrire troppo - (Elevnh~ e[nek j hjukovmoio, Esiodo, Opere e Giorni, 165) , per Elena dalla bella chioma, eppure non riuscivo a staccare il mio pensiero da lei, e ne dedussi che lasciar trascorrere invano quel mese importante, ossia ricco di rapporti con il passato e con il futuro, come lucidamente lo prevedevo, passarlo con una donna qualsiasi, anzi con qualsiasi altra donna, non era destino per me e non mi conveniva; allora dovevo impegnare tutte le mie forze in un rapporto pur faticoso e travagliato con quella perché mi guidasse a conoscere nuovi e reconditi aspetti dell’anima mia.
Non potevo eliminare Elena che non doveva eliminare me.
Faccio un gioco di parole tra il verbo eliminare e il nome Elena. L’ho imparato dalle Troiane di Euripide, tragedia che portai alla maturità, nel 1963. In questo dramma Ecuba suggerisce a Menelao di ammazzare Elena (J Elevnh) “mhv s j e{lh/ povqw/, v. 891) , perché non ti prenda con il desiderio. Anche io, come Callimaco “non canto nulla che non sia testimoniato” pur quando racconto fatti miei. Questi devono avere interesse e assumere valore per tutti.
Ci sono difficoltà e ascese impervie che non dobbiamo evitare poiché ci salvano da cadute retrograde in precipizi scoscesi.
Nel pomeriggio venne a cercarmi Katalin. Mi invitò a una cena in un giardino situato nella zona universitaria. Con noi ci sarebbero stati altri giovani ungheresi; io potevo portare Claudio che piaceva a una sua amica, una montagna di donna con i fianchi enormi cinti di drappi coloriti, un “porcone, un maiale doppio.
Cfr. Doppelt Schwein, Goethe, Faust I, La taverna di Auerbach a Lipsia.”, la definì impietosamente il compagno, già destinato alla galera futura, come la vide. Subito dopo però aggiunse: “questa ingrassa campando a lardo e burro, tuttavia grugnisce di voglia anche erotica: potrei levargliela facendo la cosa più degenerata della mia vita”. Parole sconce, prive di carità e foriere di mali futuri.
Comunque avremmo arrostito della carne e, probabilmente seduti, o distesi, sull’erba del prato ameno, avremmo dato spinta e incentivo all’estasi orgiastica bevendo il miglior vino rosso della terra magiara, l’Egribikavér, ossia il “sangue di toro di Eger”.
Dopo cena, siccome il marito di Katalin era andato, per affari suoi, sul lago Balaton, cioè agli antipodi della peraltro piccola terra magiara, io e la bella sposa lasciva avremmo potuto fare l’amore quasi tranquillamente.
Avremmo potuto grattarci a vicenda dovunque la carne ci prudeva e ci spingeva a farlo.
Il programma mi lusingava e, per dirla tutta, mi stuzzicava. Il destino mi offriva il destro concreta di sfuggire a un amore pieno di problemi quanto una tragedia greca. “Molte sono le cose inquietanti, e nulla è più inquietante di Elena”, pensai
Avevo in mente lo squillo iniziale del I stasimo dell’Antigone: "polla; ta; deina; koujde; n ajn - qrwvpou deinovteron pevlei" (vv. 332 - 333).
Katalin non era una cima, ma, te lo rammento lettore, era una vera bellezza. La donna più bella tra quante, del resto non tante, non ho conosciuto del tutto mentre avrei potuto. Libertino a metà. Troppi scrupoli.
Con questo stato d’animo, mi recai al picnic sul prato. Era il tramonto di una sera estiva, “piena di voli”
Cfr. Pascoli, Paulo Uccello, 16 - 17. e propizia all’oblio della finlandese pregnante: una di quelle sere di luglio nelle quali si gode la potenza dell’estate matura, scemata ancora di poco rispetto al culmine di giugno, eppure in misura percettibile dalla posizione del sole occidente già retrocesso dal nord, e visibile nei colori meno vivaci; comunque si preannunciava una di quelle notti ancora brevi e calde, dall’aria liscia, calma e odorosa dove è piacevole indugiare a oltranza, anche fino all’aurora, per non perdere, con lungo e sconsolato rimpianto, nell’autunno piovoso, un dono di Dio raro, bello e fugace come la gioventù, come l’amore, come la stessa vita. Garrivano tutt’intorno le rondini, le rane remote del laghetto cantavano alla boscaglia. Le azzurre cetonie ronzavano ancora lampeggiando nell’aria. Alle carezze del vento caldo, ondeggiava adagio il mare verde della grande foresta spessa e viva.
Si respirava con gioia la dolce e piena tranquillità della bella stagione suscitata dall’aurea Afrodite che ama il sorriso. Quanto a fare l’amore con Katalin, avrei deciso più tardi. Avevo intenzione di mangiare e bere non troppo, studiando la situazione, e considerando bene se mi conveniva, e piaceva davvero lasciare cadere il sentimento forte, inquietante appunto, e molto difficile da concretizzare, per l’artistica, pierfrancescana donna del parto, in cambio di un’orgia non dionisiaca, né apollinea, insomma non santa, con una ragazza tanto giovane e bella, quanto disordinata, stonata e confusa. Veramente la sera prima avevo promesso a Elena che sarei andato a cercarla, ma questo, casomai, potevo farlo più tardi, anche molto più tardi. Erano appena le otto. “C’è tempo per mangiare, bere, osservare e decidere”, pensai. “Tutto il tempo”.
Ma quando ebbi assaggiato un poco di carne arrostita e bevuto un bicchiere di sangue di toro, sentivo angoscia per quanto dicevano quei giovani consumisti magiari, seriamente occupati a parlare di vestiti, di motori, di scarpe. Lo facevano in modo tale da offendere la mia sensibilità estetica ed etica, mentre il fumo della carne arrostita dal cupo fulgore del fuoco contaminava la dolce aria notturna con volute dense e acri che prendevano a schiaffi il cielo e nascondevano tutte le stelle. “Eschilo sostiene che Giustizia brilla nelle case dal povero fumo”
Divka de; lavmpei me; n ejn - duskavpnoiς dwvmasin, Agamennone, 773 - 774., pensai, “ma questo, prima che povero è un fumo brutto e irritante” Lì, nonostante la bellezza di Katalin, non c’era cosmo, ma guazzabuglio e caotica stupidità. La quintessenza della deformità c’era in quel prato di ottenebrati dall’ignoranza.
A un tratto mi alzai per allontanarmi da quella teppa, segno oltretutto del fallimento educativo di un regime che avevo creduto molto migliore del nostro. Io già allora auspicavo una società di donne e uomini uguali, dove non ci fossero odiose sperequazioni. Una comunità di persone buone e contente. L’uguaglianza è legge di natura, è legge cosmica cui si sottopone perfino la luce:
" l'oscura palpebra della notte e la luce del sole infallibile, percorrono uguale il ciclo annuo”, dice Giocasta
Cfr. Euripide, Fenicie, 543 - 544. ammonendo il figlio Eteocle che ha fatto l’elogio della tirannide, un’ingiustizia fortunata (Euripide, Fenicie, 549) secondo la madre.
“Questi non sono comunisti - pensai - sono consumisti volgari.
Se il comunismo non è capace di educare i giovani, non potrà durare a lungo. La storia, anzi la cronaca per ora ha dato torto al comunismo, ma io non do ragione alla cronaca e ce la metterò tutta per educare quanti mi ascolteranno, all’onestà, alla giustizia e all’eguaglianza senza la quale non possono esserci né libertà né giustizia”.
Mi venne in mente Platone: “nella società in cui non sia presente né ricchezza né povertà, direi che i costumi potrebbero essere nobilissimi: infatti né la violenza, né l’ingiustizia, né gelosie né invidie possono nascervi. Erano buoni
Il personaggio “l’Ateniese” parla degli uomini sopravvissuti al diluvio. in grazia di questa vita e di quella che si dice semplicità” (Platone, Leggi, 679b - c).
Uno di quei poveretti mi domandò quanti cavalli avesse la mia “bella macchina nera”. Non lo sapevo, proprio non lo sapevo, e non mi interessava saperlo. Contro la volgarità e la stoltezza, l’unico argomento è il silenzio. Grazie alla coscienza che stavo prendendo dalla finnica mia, la rozzezza mi appariva più rozza, la stoltezza più stolta.
Pensai del resto che i poveri saranno sempre fregati finché ammireranno e cercheranno di scimmiottare i reputati ricchi.
La pubblicità gioca su questa misera mimèsi dei miserabili.
Di bere altro vino, pur buono, in mezzo a quella greggia stremata, di fare l’amore con Katalin, pur bella e disponibile assai, in quanto la poveretta, errando, vedeva in me un giovin signore dell’agognato mondo capitalistico, non mi andava. Il desiderio mio unico e fisso era lei: Elena.
“C’è un mondo diverso, altrove”, mi dissi.
Ero pieno dello spirito santo di Elena, anche se alcuni presenti vedendomi tanto distratto potevano pensare che fossi pieno di vino come l’amico Danilo. Invece si stava compiendo il giorno della mia Pentecoste
Cfr. Nuovo Testamento, Atti degli Apostoli, 2: Et cum compleretur dies Pentecostes repleti sunt omnes Spiritu Sancto… alii autem irridentes dicebant: “Musto pleni sunt isti”.
Lo spirito santo di Elena era sceso nell’anima mia.
Sentivo con dolore la mancanza e l’atroce bisogno di quella mirabile donna finlandese, delle parole, dello stile, dell’aspetto di lei. Mi scusai con Katalin, poco cortesemente, anzi un poco crudelmente, ma del tutto sinceramente: non potevo rimanere, poiché mi mancava una persona che a sua volta aveva bisogno di me. Parlavo senza imbarazzo, siccome dicevo parole sentite profondamente. “Senti Katalin - dissi con aria compunta - tu sei splendida, sei la Venere di Debrecen, e probabilmente un giorno rimpiangerò di non avere fatto l’amore con te. Adesso però sono innamorato di un’altra e devo, e voglio andare da lei. Non posso fare diversamente”. Ci rimase male parecchio, ma non cercò di trattenermi. Balbettò alcune parole insignificanti, che non ricordo. La memoria è un affresco scrostato delle parti meno belle. O di quelle migliori, secondo il carattere.
Gli altri crapuloni, sparsi nel prato del fumo che oscurava le stelle, nemmeno si accorsero che me ne andavo, sicchè io, alzata appena la mano per un saluto collettivo e generico, mi lanciai di corsa verso la radura del laghetto illuminato dalla luna scoperta.
Non avevo scordato la mia parte, come succede a un attore stupido (Cfr. Shakespeare, Coriolano, V, 3) .
Soffrivo la mancanza di una relazione amorosa profonda, mi sentivo come viene descritto Eros, figlio di Penia
Povertà., nel Simposio di Platone: un mendicante dell’amore e della bellezza.
Passai, sempre di corsa, sopra il ponticello di legno che risuonò non cupamente al battito svelto dei miei agili piedi, attraversai d’impeto il piazzale con la fontana dagli zampilli variopinti, come la mia vita, pensai,
vedendo l’acqua che fiammeggiava policroma per i raggi dei riflettori.
La luce che mi sentivo dentro però veniva da Elena.
In poco tempo arrivai sul prato antistante il collegio dove la mia compagna, speravo, mi stava aspettando. Se non era già andata via. Speravo, temevo, pregavo.
“La terra è in mezzo alle stelle che danzano gioiosamente guidate da Dio, e sulla terra, qui a Debrecen, ci sei tu, e forse mi pensi, e mi aspetti, e sei innamorata di me”.
Infatti, infatti Elena c’era: era stata provvida la rinuncia a ubriacarmi di vino, a digrignare i denti e ingozzare tanta carne degli spiedini di porco, ottima l’abnegazione dimostrata nel non rimanere a lisciare, a sfregare, la carne ben tornita di Katalin, anche se il premio doveva rimanere soltanto quello: avere visto Elena che mi aspettava in camera sua affacciata alla finestra aperta sul prato umido di rugiada che luccicava di luna. Innumerevole sorriso dei roridi steli (cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, pontivwn te kumavtwn - ajnhvriqmon gevlasma (vv. 89 - 90) innumerevole sorriso/delle onde marine) .
Vedere la sua figura mi riempì di alta letizia. “Dio, accetto l’augurio”, pensai.
“Ciao”, dissi, come giunsi anelo sul rettangolo di erba illuminata oltre che dalla casta diva celeste, pur dalla luce della finestra che incorniciava Elena. La donna, “sì lieta come bella”
Dante, Paradiso I, 28. aveva un’espressione di contentezza, forse proprio perché mi aveva visto arrivare. Traluceva dagli occhi dolcemente ridenti la gioia dell’attesa appagata. Elena aveva un’anima più buona e meno contorta della mia. Anche per questo l’amavo.
“Ciao, sono venuto qua di corsa per te”. Ripresi fiato quasi subito, siccome quell’estate correvo sistematicamente, ossia tutti i giorni, anche due volte al giorno, cinquemila metri allo stadio. In meno di diciotto minuti e 27 secondi. Pure Atleta a metà. Comunque dovevo essere in forma perfetta per l’amore che mi spettava e aspettava.
Con Elena non siamo rimasti a metà: abbiamo fatto il massimo che si poteva.
Dovevo avere un aspetto quintessenziale, artisticamente stilizzato.
Ci ero vicino. Sentivo che padroneggiavo il mio corpo, lo dirigevo dove e come volevo, quasi senza fatica. Non ero appesantito da carne che non fosse la mia. Avevo voluto una figura priva di ridondanze, effigies ingenii mei, un’immagine del mio carattere che cercavo di scolpire nel nella roccia del Bene e del Bello.
Fatta una breve pausa, ricominciai: “Scusa, ho dovuto riprendere fiato. Poco fa mi trovavo dall’altra parte del bosco con gente che non mi piaceva, persone poco belle, poco fini, e ho sentito la mancanza, il bisogno della tua nobile semplicità” (cfr. la nobile semplicità e la quieta grandezza (edle Einfalt und stille Gröbe) delle statue greche in Pensieri sull’imitazione dell’arte greca di J. Winckelmann).
Elena riversò su di me la luce scintillante del volto.
Attraverso l’aria serena brillava il barbaglio del suo sorriso armonizzato con lo splendore del cielo.
Disse le parole che speravo: “Anche tu mi sei mancato. Nel pomeriggio ho provato a parlare con altri, ma non ho sentito niente di interessante.
Luoghi comuni, stupide banalità, il rovescio dell’intelligenza. Io mi trovo bene, mi sento a mio agio con te, Gianni. Tu hai qualche cosa di speciale, di geniale, per lo meno di congeniale a me. Scusa un momento, mi cambio e vengo. Cosa vuoi che mi metta? ”
Le vedevo soltanto una maglia bianca a righe azzurre.
“Vestiti di bianco, tesoro, di bianco e sportiva, se puoi”.
Mi riferivo a un suo vestito senza maniche, di spugna, che le arrivava un palmo sopra le ginocchia rotonde e le stava magnificamente. Era come la proiezione di un aspetto della sua persona morbida, delicata, accogliente. Io, per godermi in pieno l’aria calda della notte dolcissima, e pure, a dirla tutta, per sfoggiare la linea recuperata con fatiche, disciplina e successi davvero olimpici dopo l’ orrido ingrassamento dei tre mesi in caserma, ero uscito in calzoncini succinti e maglietta di cotone, molto attillata. Elena si ritirò dalla finestra. Frattanto levai gli occhi al cielo con gratitudine. Era la prima volta, arrivato a ventisei anni otto mesi e qualche giorno, che una donna di cui ero innamorato mi contraccambiava e forse, probabilmente, sarebbe venuta a letto con me. Quella notte, ero sicuro, l’avrei almeno baciata. Avrei assaporato la sua lingua materna, nutrice e santa.
Avrei poi raggiunto lo scopo finale con un discorso articolato in un preludio pieno di pathos suadente, una parte centrale argomentativa, e un’efficace esortazione persuasiva. Una morbida trama inserita in un ordito molto robusto.
Excursus su questo secolo
Nell’estate del 2011, sempre in luglio, quarant’anni dopo quella sera di gioia, una delle più belle e felici di mia vita mortale, sono tornato a Debrecen in bicicletta, da Bologna, con Fulvio e con altri due amici più giovani, due quarantenni ex alunni, Maddalena e Alessandro, due novizi dell’Ungheria.
Ci siamo tornati, Fulvio e io, protesi alla giovinezza lontana come verso il sole al tramonto, quando cade nel mare con puro fulgore. Ho affrontato la grande fatica di mettermi al passo con la giovinezza e ho pure rischiato la pelle saltando dalla bicicletta in un fosso per schivare un’automobile che mi veniva addosso quando costeggiavamo il Balaton. E dopo otto giorni sono arrivato a Debrecen, pedalatore tenace e annoso, quasi sessantasettenne.
Non me la sono sentita di tornare in quel bosco incantato sopra un aereo o in treno, funebri convogli di canuta vecchiaia. Nemmeno in quell’aggeggio per paralitici o neghittosi che è l’automobile.
Vecchio sono vecchio, ma faccio di tutto per conservare le forze di allora. Mantengo pure i capelli ancora neri, e non certo con un pennello. Merito anche di Elena, della mamma etrusca e ancor più di sua sorella Giulia che è morta relativamente presto, a 82 anni, ma senza un capello bianco. La mamma mi ha raccomandato di portarle un cero di ringraziamento sulla tomba dei Martelli, a Sansepolcro. Lo rifarò. Ci tornerò in bicicletta, pedalatore romito, per dare al rito un valore più grande, un significato veramente olimpico. Niente potrà fermarmi sul cammino della pietà.
Né forature di bicicletta, né i denti da vampiro dei cani randagi resi feroci dalla catena e dalla stupidità dei padroni. Nemmeno orsi inferociti, né cinghiali fulminei (cfr. Stazio, Tebaide, II, 123 - 124). Non potrà godere la strega Erichto strappando pezzi del mio cadavere alle loro fauci cruente (cfr. Lucano, Pharsalia, VI, 552 - 553).
Non avrò bisogno di chiamare in aiuto Ecate ctonia che, indossati aspetti atroci, minacciando con la più orrenda delle sue facce schifose (cfr. Seneca, Medea, 751), pessima induta vultus, fronte non una minax. atterrisce anche i cani (cfr. Teocrito, le Incantatrici, 12) dal cupo latrato.
Conservo dentro di me la forza con cui la mamma mi ha portato in grembo e mi ha allevato. La nonna Margherita Scattolari veniva dalla terra di Montegridolfo: “inde genus durum sumus experiensque laborum” (Ovidio, Metamorfosi I, 414), perciò siamo una razza dura e capace di tollerare le fatiche.
Me ne ha lasciati 18 ettari che un costruttore voleva comprare per edificarci appartamenti. Non gliel’ho venduta. Per amore e per rispetto degli avi Scattolari.
Il nonno Carlo Martelli da parte sua vinceva tutte le gare ciclistiche cui partecipava. L’ho letto nella Nazione di Firenze di un giorno del 1899. Da lui ho ereditato, oltre il talento ciclistico, l’amore per le donne e per il sole. Il lascito più bello è questo del nonno mio.
Onorerò la mamma, i nonni, le zie per tutto quello che mi hanno dato.
Poi salirò in bicicletta alla Verna, sull’aspro monte tra Tevere e Arno (cfr. Dante, Paradiso, XI, 106 - 107) “nel crudo sasso intra Tevere e Arno - da Cristo prese l’ultimo sigillo, - che le sue membra due anni portarno”, per pregare accanto al letto dell’onesto Francesco.
Non est in toto orbe sanctior mons, in tutto il mondo non c’è un monte più santo, si legge in un portale del santuario.
Una notte dell’estate recente, quella del ritorno a Debrecen in bicicletta, andati a letto gli amici, sono tornato sotto la finestra dell’apparizione fatidica, una finestra oramai sconsacrata e deserta, onde mesto riluceva il raggio della luna (cfr. Leopardi: “quella finestra, /ond’eri usata favellarmi, ed onde/mesto riluce delle stelle il raggio/è deserta”, Le ricordanze (vv. 141 - 144), dea dai tre nomi
Luna, Diana, Ecate. Quest’ultima è la signora delle streghe (quelle del Macbeth di Shakespeare, per esempio) e la maestra delle maghe (Medea per esempio) , e dalle tre forme. Ho ricordato i sentimenti forti, pieni di gioia di quella sera remota e ho sentito la necessità di raccontarla, di renderla eterna, se il giudizio finale che è quello dell’arte, sarà positivo.
Le cose, come le persone, hanno una loro volontà. Questa pagina mi ha chiesto di essere scritta: lo ha voluto. Elena si avvia a diventare la mia posterità. Helena di Yväskylä farà concorrenza a Elena di Troia.
Ora noi due, i giovani amanti di quell’estate lontana, siamo due vecchi al tramonto e ci avviamo verso quella lunga, eterna notte d’inverno del tutto imprevista allora, in quel tempo del tutto felice. Infatti non le citai Catullo, il poeta dei soli che possono cadere nel buio e tornare, mentre noi, una volta spenta la nostra breve luce, dobbiamo dormire una notte eterna. Non misi questa citazione tra le tante altre. Mi sembrava fuori luogo e sinistramente ominosa.
Nel 2011 il bosco sacro di quel tempo remoto non era più tutto pieno di dèi, il ponticello sul lago della foresta anche lei sconsacrata aveva il legno infradiciato, gli edifici simbolici erano stati abbattuti o profanati, come il ristorante della mia prima cena nel luglio del 1966 (cfr. L’arrivo a Debrecen, presente nel blog) l’ottocentesco Hungaria, trasformato in un orrendo McDonald.
Metamorfosi abominevole.
Elena forse è già stata disfatta dal suo precipitoso destino di donna mortale, e si è trasformata in qualche altra cosa dell’universo, in quanto tutto scorre e ogni immagine si forma fluttuando
Ovidio nel XV libro delle Metamorfosi dà voce a Pitagora il quale vieta di sacrificare creature viventi agli dèi, e insegna che l'anima non muore ma trasmigra in altri corpi e altre regioni: "Cuncta fluunt, omnisque vagans formatur imago" (v. 178).
Io sono un vecchio, una testa non ancora del tutto intronata (cfr. T. S. Eliot, Gerontion) , “ I am an old man, A dull head amog windy spaces". (vv. 15 - 16), io sono un vecchio, una testa intronata tra spazi ventosi., ma già isolata in uno spazio sempre più arido, scuro e deserto, eppure la strana, preziosa luce di quei giorni remoti continua a risplendere dentro di me, e con questa luce che forse brilla ancora nel mio racconto, voglio illuminare altre vite, prima che si spenga, presto o tardi di sicuro, ma forse non per sempre, la mia.
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Le dichiarazioni d’amore. La mia mossa scacchistica, non nobile. La notte
passata giocando giovanilmente. I fescennini obbrobriosi.
Aspettavo che uscisse dal suo collegio, il numero 1. E pregavo. Invocare
gli dèi, anche se possono non ascoltarci, ha sempre una qualche bellezza (1).
Talvolta è persino utile quando si incappa in una sorte distorta.
Si corre il rischio di non ricevere udienza, ma il rischio è bello, afferma
Socrate nel Fedone (2), e non a torto.
“Dio fai che Elena mi ami. S’io meritai di te assai o poco (3),
ricompensami.
Meriterò ancora mentre ch’io vivo”.
Devo ribattezzarmi dentro di lei. O addirittura rinascere, entrare nel
corpo di lei e uscirne rigenerato. Finora ho sofferto senza diventare cattivo.
Ho preso botte e non ho picchiato, sono stato ingannato e non ho detto bugie,
sono stato umiliato e non ho mai offeso nessuno. Ora è giunto il momento di
raccogliere i frutti. Do ut des: ipse amari opto (4).
A Pesaro, nel liceo Terenzio Mamiani, passavo i compiti di greco e latino
ai somari, dalla quarta ginnasio all’esame di maturità, con rischi non piccoli,
eppure, siccome aborrivo i putridi luoghi comuni degli ignoranti di quella
cittadina sepolcrale, la moribunda sedes Pisauri (5),
di quel borgo selvaggio (6), dicevano che mi davo delle arie insopportabili; in
casa le donne mi trattavano come se fossi stato inameno, probabilmente per
tenermi al guinzaglio il più a lungo possibile.
Potevo diventare uno dei tanti animali rabbiosi e bavosi, invecchiati male
alla catena.
A un certo punto mi sentivo così monco e contraffatto che quando udivo
urlare un uomo, strillare una donna, latrare un cane (7), perfino grugnire un
porco pensavo che ce l’avessero con me.
“Diran che son fallito, fallito nell’amore”, cantavo nelle notti estive, al
chiaro di luna, prima di addormentarmi.
A Bologna dove arrivai nel 1963, sprovveduto, disorientato e spaesato,
dovevo chiedere spesso informazioni, chiarimenti, e mi sono sentito addirittura
dare del “busone” da alcuni studenti felsinei, imbecilli in vena di battute
volgari e del tutto inappropriate alla mia persona (8) .
Nei primi mesi, Bologna per me non aveva tracce né voci. Ci vivevo da
straniero e da estraneo. Inquilinus civis urbis Bononiae, un meteco
tra gli ultimi, quando papa Giovanni era morto da poco, papa Francesco era
ancora troppo lontano, e gli ultimi non erano già di moda.
In quel periodo le mie pene non avevano misura né numero e il male
gareggiava con il male e sciagura su sciagura si posava e colpi su colpi sempre
più frequenti. Sono sceso agli inferi come Enea, ho evocato i morti come
Odisseo, sacrificando e versando però nella fossa il mio stesso sangue non quello
di arieti e pecore nere (9).
Ho cominciato a stare meglio proprio qui a Debrecen, nell’estate del 1966.
Dio mi aiutò. Fulvio anche mi aiutò già allora.
Nel ’68 sono fiorito con non poco ritardo. Ora siamo nel ’71: non sono più
un ragazzino.
Sicché, Dio benedetto, ti ringrazio di avermi reso giustizia, già quasi del
tutto, attraverso questa splendidissima femmina umana, di avermi fatto
diventare decente, anzi piacente di aspetto, di avermi insomma miracolato.
Mi sto insinuando nel favore di me stesso e mi ci conserverò a lungo.
Domani, se, appena sveglio, non troverò uno specchio dove possa vedermi
tutto intero, ammirerò la mia ombra ben fatta camminando nel sole” (10).
Questo pensavo.
Il mio narcisismo gioioso usava espressioni già testimoniate. Me lo avevano
insegnato Eschilo e Callimaco (11) prima, poi Terenzio, T. S. Eliot (12) e
tanti altri ottimi autori.
“Con l’amore di questa donna sto recuperando l’amor proprio, e pure quello
dei miei parenti che non mi hanno compreso, né io avevo compreso loro”.
Intanto Elena stava uscendo dal collegio con il suo vestito bianco,
leggero, morbido, e attillato tanto da metterle in superbo risalto il seno,
grande, pieno di palpiti, colmo di calda vita, ricco di nutrimento spirituale
per l’anima mia.
Al di sotto, la veste le fasciava la vita sottile, i fianchi rotondi,
mentre le lasciava scoperte dal ginocchio in giù le gambe diritte, tornite, le
caviglie sottili, i piedi piccoli su sandali leggeri. Sfiorava appena la terra.
OiJ me; n povde~ ajstravgaloiv teu, pensai.
La tunica corta e senza maniche lasciava vedere le candide braccia
liscissime, scolpite con grazia prassitelica, mentre le copriva le spalle
armoniose e, sopra le mammelle opulente, di forza fidiaca, le orlava il lungo
collo sottile, sostegno della piccola testa dai folti capelli corvini che
incastonavano il volto minuto, ovale, dai lineamenti fini e dolci ma pieni di
luce e fortemente espressivi. Era contenta di me e contenta di sé.
“Lingua mortal non dice/ quel ch’io sentiva in seno” (14).
Ci incamminammo verso la radura con il piccolo lago, raccontando a turno la
nostra giornata, passata nell’attesa e nella speranza di incontrarci da qualche
parte. Ci ascoltavamo a vicenda, ci guardavamo con occhi che traboccavano
simpatia, ammirazione e amore.
Elena mi raccontava della sua terra, delle solitudini boschive dove lei
camminava ascoltando le voci di una natura ancora pulita. Mi descriveva con
entusiasmo, ma senza enfasi, gli aspetti più belli della Finlandia: i tanti
laghi orlati di alberi dove si specchia il sole che nelle estati riempie di
luce calda il giorno e fa rosseggiare le notti; mi parlava dei colli iperborei
della Lapponia dove si può sciare fino a maggio inoltrato sulla neve che
scintilla e sfavilla nella luce già tenace, solo brevemente interrotta dalla
rapida, breve oscurità della stagione più bella. E mi parlava della città dei
suoi studi, Yväskylä, circondata da boschi, dove in autunno le foglie delle
betulle fanno esplodere tutti i colori.
“Io non so come si possa non essere felici nella stagione bella”, disse.
“Io sono felice anche in novembre - replicai. Quando vedo spuntare il
grano, sento la resurrezione. Forse perché sono nato in quel mese e benedico il
tempo della mia nascita. Sempre, ma soprattutto quando incontro una donna come
te”.
Quella donna benedetta amava la natura e la vita: era della mia razza,
della gens cui appartengo per scelta, della stirpe che
nonostante le difficoltà e le tante tribolazioni vissute, ho sempre considerato
la mia.
Mi raccontava anche del suo compagno cui voleva bene come a un fratello,
dell’università dove aveva studiato letteratura e storia con serio impegno, del
lavoro che faceva con passione poiché amava gli studenti e loro la
contraccambiavano vedendola impegnata a educarli. Parlava con semplicità, quella
semplicità bella che è complessità risolta, quella prudens
simplicitas (15 , la semplicità accorta, competente e precisa che è
anche signorilità. Non c’era nessuna affettazione in lei, nessuna posa, nessuna
ricerca della mia approvazione.
Voleva farsi conoscere com’era, in trasparenza. “Ottima è Elena - pensai -
ottima e schietta come l’acqua di Pindaro” (16).
Voleva farmi entrare nella sua vita. Io la ascoltavo con tutto l’interesse
di chi vuole diventare partecipe della storia raccontata, della vita di chi la
racconta, e non la interrompevo se non per rivolgerle qualche domanda e
approfondire la conoscenza. Quando venne il mio turno di farmi conoscere e
riconoscere, attraverso le parole, le parlai della nostra terra varia e ricca
di bellezza antica eppure sempre viva e recente, del mio lavoro che mi piaceva,
siccome provavo interesse per l’educazione, per i miei allievi e per le
lettere.
Nell’educazione, o paideia, o bildung che dire
si voglia, credevo già allora, sebbene avessi ancora pochi strumenti per
impartirla: in quel tempo non pensavo che nessuna forza educativa sia in grado
di modificare la nostra sostanza, di cambiare la quidditas di
ciascuno, quello che essenzialmente è. Più avanti nel tempo, i critici del
metodo mio avrebbero detto che miglioravo sì i migliori, ma, nello stesso
tempo, peggioravo i peggiori. Infatti provocavo l’epifania del carattere di
ciascuno studente, per farlo diventare quello che è.
La mia piena coscienza di educatore all’epoca non era pienamente formata.
Intanto però procedevo nel mio tentativo di affascinare la finnica bella e
fine, di raffinata semplicità.
L’amore mi rendeva eloquente (17).
Aggiunsi che insegnavo le frasi belle degli scrittori bravi. Questo forse
non era un atto di sapere strutturale, ma serviva a raffinare il senso estetico
degli alunni, del resto non sempre il sapere è sapienza; quindi facevo
conoscere le idee di autori anche discordanti tra loro, in modo da stimolare il
pensiero critico dei miei ragazzi attraverso una logica aperta al contrasto,
invogliandoli comunque a scegliere il bello invece del brutto, il bene invece
del male, il coraggio invece della viltà, e così via.
Il bene, l’ordine del mondo, la vittoria del cosmo sul caos lo vedevo anche
in alcune immagini artistiche, particolarmente nel frontone occidentale del
tempio di Zeus a Olimpia, e nei quadri di Piero della Francesca che conoscevo
fin da bambino poiché il nonno materno, la mamma e le zie, nati e cresciuti a
Borgo Sansepolcro, il paese nativo del pittore rinascimentale, me ne parlavano
spesso e mi portarono a vederlo e ad ammirarlo molto per tempo.
Nei quadri di Piero avevo visto immagini del bello non artefatto e del bene
non sdilinquito. Anche lei, Elena, rappresentava ai miei occhi il bello con
semplicità e il bene senza fiacchezza.
“Che cosa è il bene per te?” mi domandò a bruciapelo. Andava sempre
in medias res. Elena mi ha insegnato un metodo, il suo.
1 Cfr. Euripide, Troiane, 470: “o[mw~ d’ ecei ti sch`ma kiklhvskein qeouv~”.
2 Kalo; ~ ga; r oJ kivnduno~ (114 d)
3 Cfr. Dante, Inferno, XXVI, 80 - 81
4 Cfr. Catullo, 76,
25 Ipse valere opto, io voglio avere salute.
5 Catullo 81, 3., quel mortorio di Pesaro. Definizione che vale ancora per
i mesi autunnali e invernali.
6 Cfr. Leopardi, Le
ricordanze, 30.
7 Cfr. Shakesperare, Riccardo III, I, 1.
8 Un paio di decenni più
tardi altri, meno imbecilli, mi avrebbero appiccicato l’etichetta del
donnaiolo, non del tutto a sproposito a dire il vero.
9 Cfr. Odissea, X, 527.
10 Di nuovo
Shakespeare, Riccardo III (III, 1). E’ riuscito ad attirare
Lady Anne della quale ha ucciso il marito e il suocero.
11 Callimaco (305 ca - 240ca a. C.) afferma: "ajmavrturon oujde; n ajeivdw" (Fr. 612) Pfeiffer., non
canto nulla che non sia testimoniato.
12 In una famosa
recensione Ulysse, Order and Myth, "The Dial", nov. 1923.
all'Ulisse di Joyce Del 1922., T S. Eliot definiva il metodo
mitico, in opposizione a quello narrativo, come il modo di controllare, di dare
una forma e un significato all'immenso panorama di futilità e anarchia che è la
storia contemporanea. "Instead of narrative method, we may now use the
mythical method ", invece del metodo narrativo possiamo ora
avvalerci del metodo mitico. Alla fine di The Waste Land Eliot
afferma: "These fragments I have shored against my ruins" (v.
430), con questi frammenti ho puntellato le mie rovine.
13 Teocrito, X, 36. I tuoi piedi sono astragali, cioè piccoli e ben
fatti.
14 Leopardi, A
Silvia, 26 - 27.
15 Cfr. Marziale, X, 47, 7.
16 a[riston me; n u{dwr, Olimpica I, 1.
17 Nel magister Ovidio la cupido è
un elemento della ragione: il maestro del lusus erotico
consiglia al corteggiatore di potenziare la facondia con la forza del
desiderio: è il "rem tene verba sequentur "di Catone
trasferito in campo amoroso: "fac tantum cupias, sponte disertus eris "
(Ars amatoria, I, 608), pensa solo a desiderarla, e sarai facondo senza
sforzo. Tereo che arde di passione per la cognata Filomela è reso eloquente
dallo stesso ardore amoroso: "Facundum faciebat amor " (Metamorfosi,
VI, 469).
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Risposi che fa parte del bene tutto quanto favorisce la vita. Il male,
viceversa è ciò che la danneggia.
Volevo insegnare ai ragazzini anche il coraggio di confutare i luoghi
comuni privi di fondamento razionale e reale. Cercavo di capire, di imparare,
di fare tante cose, ma la meta più alta, il bersaglio sublime della mia ricerca
era lei, Helena, la finnica bruna bruna che un demone buono mi aveva fatto
incontrare inopinata, misteriosa e meravigliosa, là, nel grande bosco in mezzo alla
vasta pianura ungherese. Volevo scoprire il significato dell’enigma incarnato
da lei.
La bella donna aveva sul volto un sorriso calmo, di soddisfazione profonda.
Quella sera di luglio, nella foresta di Debrecen, a un tratto Helena disse
che stava imparando ad amarmi. Stavo per impazzire di gioia eppure, invece di
baciarle le mani benedicendola, ebbro e frenetico di gratitudine, ricorsi a
un’astuzia indegna dell’uomo che mi proponevo di sviluppare in me stesso, una
mossa scacchistica di cui avevo sperimentato l’efficacia in passato.
“Un’altra volta!” dirai tu, lettore. Ti rispondo che fino a quando non
facevo calcoli, per nessuna ragione, prendevo fregature e bastonature da tutte
le parti. Vero è che Elena non meritava artifici.
Ma di arte non ero capace, e calcolai che mi conveniva dissimulare la
felicità che poteva stordirmi e spingermi a tentare un affondo che magari lei
si aspettava, ma dal quale voleva forse ancora sottrarsi gettandomi nella
disperazione.
Rapidamente decisi che avrei sferrato l’attacco (1) finale in un momento in
cui la bella donna fosse ancora più intenerita e priva oramai di ogni remora o
scrupolo ritardante. Decisi di essere io quello che procrastinava, l’accorto cunctator della
lotta amorosa. Per l’affondo risolutivo sarebbe arrivato un momento migliore.
Dopo un paio di frasi generiche, quasi insulse, dissi che oramai si era
fatto tardi, che il giorno dopo c’era lezione e, dunque, si doveva tornare in
collegio. Quindi mi alzai, quasi di scatto, dalla panchina dove ci eravamo
seduti. In realtà non era tardi: era, sì e no, mezzanotte, l’aria era calda, il
cielo sereno, e comunque durante il mese “debrezino” di studio - vacanza, ma
più vacanza che studio, non era abitudine mia né dei miei amici andare a letto
prima delle due. Allora non provavo la fame urgente dello studiare per
imparare, una fame che mi toglierò molto più tardi, quando sarò arrivato alla
nausea dell’erudizione che non è sapienza, del to; sofovn, il sapere neutro che non sa
di vita e non crea la vita come invece fa la sapienza, sofiva, che è femminile (2) .
Voglio dire che ho imparato più dalle mie amanti, Helena in primis, che dai
libri i quali pure mi hanno istruito e formato non poco. Le parole e le idèe me
le hanno insegnate gli autori, ma la vita l’ho appresa e l’ho presa dalle
donne, le donne mie benedette che Dio le rimeriti.
Rientrato in collegio, rimasi alzato a scherzare giovanilmente con Claudio,
tornato soddisfatto dalla festa nel giardino dei crapuloni, e con Alfredo,
contorto e lascivo, reduce dall’avere “puntato”, invano, non so quante Russe.
Andava mendicando un poco di sesso: “Qui a Debrecen - diceva - dovrebbero
darci vittu (3) e alloggio, ma io finora ho avuto solo
l’alloggio e muoio di fame”. E Fulvio, il caro amico di Parma commentava: “Eh,
che voglia di brugna!”
Talora ritardavamo il primo sonno fino al biancheggiare del cielo con
l’alba che a Debrecen in luglio si fa vedere verso le tre.
Spesso la gioventù non conosce la giusta misura.
A volte i miei contubernali facevano irruzione nelle docce delle femmine
russe che, molestate, strillavano a squarciagola, o ululavano, tutte nude.
Allora gli scavezzacolli fuggivano, poi, finita la mattana, venivano a
raccontare. Io non partecipavo a quei ioci inconditi, buffonate e
porcate obbrobriose, anzi li disapprovavo a parole, e alle donne mie dicevo che
sentivo disgusto profondo e vergogna di tali compagni di camera e della loro
giocondità oscena; aggiungevo quasi compunto che i miei scherzi, quando mi va
di farli, sono molto seri, ma in verità ne ascoltavo assai divertito il
racconto da quei lazzaroni e magari chiedevo di conoscerne tutti i dettagli
peggiori. E in cuor mio auspicavo che simili scherzi continuassero, anche per
riderne e sentirmi superiore ai gaglioffi che li mettevano in atto.
Come il Faust di Goethe, ero già troppo vecchio per partecipare a quei
giochi insolenti, ed ero troppo giovane per non amare.
Aspettando l’amore, posavo a pensatore di giorno e sghignazzavo sulle
porcate notturne.
Istrione e gesuita.
A volte, finiti gli scherzi da prete e il loro resoconto, ai primi albori,
partivamo dal collegio per andare a Hortobágy, sul ponte di nove arcate, a
vedere il sole sorgere sopra la grande pianura deserta e priva di alberi.
Eravamo in una decina: una carnevalesca processione di satiri ebbri e
sileni panciuti talora accompagnati da menadi più o meno frenetiche.
Quella sera non andammo sulla puszta ma, tra una risata e
l’altra, facemmo comunque le tre. Avevo giocato o “mistificato”, come si diceva
all’epoca, con l’angelo mio dicendole diverse ore prima che avevo premura di
andare a dormire.
Non avevo la forza di essere me stesso fino in fondo, di diventare quello
che sono, accettando il mio vero volto, in quanto non ero ancora convinto che
nessuna maschera avrebbe potuto renderlo più bello. Finiti i lazzi più o meno
osceni con Claudio e Alfredo, fescennini obbrobriosi non privi di battute
pesanti sulle donne presenti in quell’oasi felice di amore e di studio, meno
studio che amore, andai a sedermi sul grande tavolo della stanza compresa tra
le due camere a quattro letti, e scrissi che volevo fare l’amore con Helena
impiegando tutte le forze dell’anima mia. Un’anima dissociata evidentemente.
Nel salutarmi mestamente lei mi aveva detto che i suoi dolori di ventre si
erano acuiti: perciò il giorno dopo sarebbe andate alla clinica delle donne
“pregnanti e malate”. Tale scritta campeggiava sul frontone dell’edificio
compreso nel complesso ospedaliero.
Allora, commosso e un poco pentito del mio calcolare, le avevo detto:
“Conta su di me per qualsiasi cosa tesoro: in qualunque momento tu abbia
bisogno di aiuto, io ci sarò”.
In quel momento mi era apparsa piccola, indifesa, bisognosa, e avevo
sentito per lei una sollecitudine autentica, piena, disinteressata. Mi ero
ricordato di essere un uomo, non un buffone né un saltimbanco dell’amore (4) .
Quella femmina umana che si fidava di me, era mia figlia, e questo
completava il sentimento d’amore che la figura materna già mi aveva ispirato.
Prima di andare a dormire, scrissi queste parole: “Helena mi piace come mai
prima nessuna. Mi piace non meno di mia madre. Mi piace più parlare con lei che
fare casino con Claudio e Alfredo. Mi piace perché è una mamma affettuosa e
intelligente, è una sorella splendida, è una figlia adorata. Domani faremo
l’amore, ne sono sicuro”. Poi andai a letto, senza pensare a Procuste e
completamente dimentico dei bizzarri malviventi nel mio collegio. L’aurora già
tingeva di rosa tutto l’oriente.
(1) Eros, Amore, è spesso associato a Eris, la Contesa.
(2) Cfr. "to; sofo; n d j ouj sofiva" (Euripide, Baccanti,
v. 395) , il sapere non è sapienza.
(3) Parola finlandese che significa “fica”.
(4) Cfr. "Non mihi mille placent, non sum desultor amoris"
(Ovidio, Amores I, 3, 15) a me non ne piacciono mille, non
sono un saltimbaco dell'amore.
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Il bosco sconsacrato. La fuga verso l’ospedale
La mattina del 26 luglio del 1971, un lunedì, mi svegliai contento perché
ero innamorato della Sarjantola e le avevo insegnato ad amarmi. “Ottimo
risultato pedagogico, e pure erotico”, pensavo, speravo, ne ero quasi sicuro.
“Il più importante successo della mia vita. Darà nuova forza alla mia identità.
L’amore farà spuntare le ali. A me e a lei: “quid agi oporteat
bonis successibus instruendi erimus”1.
Volevo vederla, ma non
avevamo preso un accordo preciso.
Alle 11, 30 dopo le lezioni,
invece di andare a correre, sedetti sul prato in mezzo ai nostri collegi,
sperando che Elena si affacciasse presto alla finestra di camera sua, come la
sera prima, oppure, apparsa dalla parte dell’Università, la parte orientale,
quella da dove ore prima era spuntato il sole, venisse vicino a me. Era un giorno
di estate piena, ancora trionfante: la grande luce faceva brillare e rallegrava
le pareti degli edifici, colorava le cose, la pelle e i capelli delle persone,
la scorza e le foglie degli alberi, rendeva luminose perfino le ombre sul
prato, dense e raccolte a quell’ora.
Il mondo era la
rappresentazione della mia gioia nell’attesa della creatura che amavo e quasi
sicuramente mi amava.
A mezzogiorno già passato
però, la bella donna biancovestita non si era ancora fatta vedere. Eppure da
quell’osservatorio cruciale in quanto posto all’incrocio dei nostri cammini, e
dei nostri destini, avevo potuto osservare tutte le uscite, le entrate, i
movimenti delle persone.
Mi domandavo: “l’ho forse
offesa riaccompagnandola anzi tempo in collegio dove oltretutto ero andato a
prenderla tardi?
Oppure la bella donna, invero
non proprio assurdamente, ha pensato che il nostro amore è assurdo perché lei
aspetta un figlio dal suo fidanzato e noi due, per giunta, abitiamo distanti
duemila e cinquecento chilometri l’uno dall’altro?
Oppure il caldo di questa
giornata, meraviglioso per me, ma forse eccessivo per tale creatura cresciuta
tra i boschi e i laghi iperborei l’ha fatta fuggire e tornare nell’ultima Thule
da dove era partita una settimana fa, improvvida dell’incontro pericoloso? E io
che la voglio prendere, sono ingenuo come un fanciullo che insegue un uccello
che vola2, o cerca di afferrare con le
mani un pesce che sguscia?” Questa ipotesi mi parve orrenda.
Agli amici e conoscenti, che andavano e venivano, a ognuno della brigata
mia e a certuni di altre combriccole, domandavo se Elena si fosse vista, ma
Fulvio, scusandosi, disse di no, Stefania non ci aveva fatto caso, Claudio, Alfredo,
Bruno, Tristano neanche. Danilo giurò, sulla bottiglia di palinka che teneva in
mano, di non averla vista, quindi aggiunse: “il liquore che sto per bere non è
di questo mondo: è Dio in persona”
La garrula fama, la chiacchiera curiosa e linguacciuta non dava
notizia di lei.
Il Cynicus parmensis anzi proferì parole di malaugurio:
“Chi, la cancerogena? No, non l’ho vista”. Quindi il predestinato alla galera
aggiunse: “Tanto non guzza! Piantala con questo tu vizio sordido e assurdo da
asceta!”.
L’accento era emiliano, ma tutt’altro che bonacciona la voce di quel
profetismo da iena, il gesto irridente e minaccioso. “Lo spirito diabolico che
sempre nega, prima o poi la pagherà – pensai - se non oggi domani o domani
l’altro. Al più tardi, nel giorno del Giudizio: “Iudex ergo cum sedebit -
quidquid latet apparebit - nil inultum remanebit”3.
Il tono malignamente ominosa
di quel sinistro messaggero di un brutto destino questa volta mi turbò. Aveva
cercato di trascinare nel suo abisso, con un ghigno, un miracolo, una corona
della creazione, una creatura che ravvivava la stessa vita.
“Di bocche senza freno, di
follia senza misura, il termine è sventura”4, gli ricordai mentre al
dolore si aggiungeva dolore.
A mezzogiorno e mezzo mi invase il terrore che la misteriosa creatura fosse
morta, che i suoi occhi dalle vivaci pupille veggenti si stessero già
disfacendo in polvere, oppure, nauseata dal caldo e da me, fosse tornata in
Finlandia nel luogo da dove si era allontanata quando, benedetta, si incinse di
un altro uomo, un finnico molto più grande, più grosso e più facoltoso di me.
Temevo qualche metamorfosi negativa.
Infatti l’angoscia cominciò a deformare tutte le cose che divennero le
immagini della mia pena: visioni simili a larve di sogni opprimenti.
Nella mia mente incantata le immagini strane subivano una dilatazione semantica:
attribuivo loro significati stravolti, eccessivi, mostruosi.
Lo stesso caldo che ho sempre adorato mi stava arrostendo nella graticola
tremenda di Venere5 e sollevava un fumo nauseante che sapeva di carne bruciata. Cupi
vapori arroventavano l’aria.
Vedevo invecchiare
rapidamente tutto, come se ogni istante, passando, facesse precipitare nella
morte scoscesa i giorni di quell’estate già lieta, interi anni della brevissima
vita dell’uomo e una serie grande di secoli: l’erba senza colore, infestata da
serpi velenose, si dissecava e piegava sospinta e inaridita da un fiato
maligno, i fiori diventavano ombrosi come quelli dell’Ade, le foglie
ingiallivano e si accartocciavano, i mattoni dei nostri collegi si
sbriciolavano, gli alberi si seccavano, si contorcevano, le loro viscere nodose
partorivano ratti raccapriccianti, stagni mefitici esalavano miasmi immondi,
gli amici contaminati diventavano orrendi e penosi: vedevo facce e teste
svigorite, vane immagini del mondo dei morti, senza sguardo, senza capelli:
quasi teschi mozzi strappati da streghe a denti di belve6. Danilo chino sulla
bottiglia caduta e spezzata, perduto il solito colorito rubizzo, riempiva il
prato e il bosco di gemiti da funerale.
Vidi anche una figura offuscata che mi veniva avanti con le membra a pezzi.
Forse era lei. O ero io stesso, tornato deforme.
Potevo fare la fine del martire sulla croce dell’amore non contraccambiato.
Una preghiera nera formulata da spiriti maligni aveva chiesto e ottenuto il
ritorno del Caos dove volteggiano i mostri.
Perfino il sole, il primo fra tutti gli dèi, la luce più bella apparsa sul
grande bosco di Debrecen, perdeva i suoi raggi vitali, e si scoloriva, spandeva
un lume fioco e afflitto, fino a sparire annientato da una densa caligine umida
e afosa.
Senza Elena il sole non era più il sole. L’ombra non stava più dentro se
stessa: dilagava dappertutto e offuscava la bellezza del prato, del bosco,
perfino quella delle ragazze fiorenti, il meglio del meglio nell’intero
cosmo.
Sentivo il verso, altre volte gradito, delle tortore come il lamentoso
singhiozzo ripetuto, ossessivo, di un uomo morente e non rassegnato a lasciare
la vita. A poco a poco il cielo spariva.
Oscene cornacchie profetizzavano l’avverarsi di qualche remoto sfacelo, mai
visto prima dalla terra e dal cielo, ripetendo continuamente il loro
lamentevole kár kár 7.
Impareremo dai buoni successi che cosa si debba fare.
2 Nel primo stasimo dell'Agamennone (vv. 387 e sgg.)
leggiamo, e impariamo: "Non rimane celata la colpa, ma diviene evidente,
abbagliata da luce terribile. Il colpevole è come moneta falsa che, sfregata,
appare quale pezzo di ferro nero; è come un fanciullo che insegue un uccello
che vola".
3 Quando il Giudice sarà
seduto, tutto quanto è nascosto apparirà, niente rimarrà invendicato. Sono
versi del Dies irae di Tommaso da Celano (XIII secolo)
4 Cfr. Euripide, Baccanti, 386 - 387: “ajcalivnwn stomavtwn - ajnovmou t j afrosuvna~ - to; tevlo~ dustuciva”.
5 Cfr. Properzio: Correptus
saevo Veneris torrebar aeno, /vinctus eram versas in mea terga manus. / "
(III, 24, 13 - 14) , afferrato venivo arrostito nella caldaia tremenda di
Venere, ero stato legato con le mani girate dietro la schiena.
7 Kár in
ungherese significa “peccato”. Imre Madách nel poema La tragedia
dell’uomo (Az ember tragediája, 1826) ha scritto che il campo
della disfatta magiara di Mohács da parte del sultano ottomano Solimano I
(1526) era sorvolato da corvi che ripetevano questo verso.
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In quella non sacra oscurità ronzavano zanzare assetate, ubique, sifoni
abietti, che miravano a riempirsi di sangue. Scorpioni raccapriccianti
riempivano il mio scalzo cammino drizzando minacciosi le chele letali.
Il lucus della gioia radiosa e della speranza si era
mutato in un bosco sconsacrato, divenuto il luogo nebbioso dello sconforto e
della disperazione. L’orrida selva fremeva presagi esiziali. Dai suoi stagni di
acqua marcita, coperta di schiuma schifosa, provenivano aliti fetidi e
soffocanti.
Lugubri gufi facevano lunghi, paurosi lamenti da quegli alberi strani.
Upupe immonde con luttuoso singulto annunciavano la fine dell’amore che
avrebbe potenziato la mia vita per sempre. Civette obese e ripugnanti
lanciavano annunci interminati di un’apocalisse vicina.
Altri suoni malaugurosi venivano da orribili sistri rosi dalla ruggine,
agitati da mani sinistre. L’inferno doveva essere rimasto vuoto poiché tutti i
suoi demoni avevano riempito il grande bosco di Debrecen.
Provai ad alzare il viso al cielo scomparso, ma brutte forme di sogno
volteggiavano opache davanti ai miei occhi atterriti.
Il mondo, colpito da infezione diffusa, si presentava sconciato e degradato
in uno squallore abominevole, trasformato in un guazzabuglio che negava l’amore
e la vita.
Il cosmo mi chiudeva le porte. Si aprivano quelle infernali del caos cieco
che se mi avesse sottratto Elena avrebbe compiuto il suo capolavoro. Da
quella ianua inferni traspariva l’antimondo tetro e sinistro
della morte.
Vedevo l’interno della mia tomba con il mio cadavere già decomposto.
Gli occhi erano buchi neri, le ossa rami secchi e fratturati: la mia
persona, ben tenuta con cura durante gli ultimi anni di mia vita mortale, non
si era mutata in nulla di prezioso e raro.
Stavo per mettermi a piangere, lì nel prato della sventura, ma pensai che
era ingiusto, sbagliato.
Allora decisi che non dovevo restare seduto su quell’erba sciagurata a
soffrire, che dovevo allontanarmi da quel luogo del tutto inameno: dovevo
cercare e ritrovare la bella donna, la sola creatura capace di illuminare la
vita del mondo, renderle tutti i colori, e avvalorare la mia.
Sentivo la necessità di contrapporre a quell’infernale, incorporeo corteo
che mi opprimeva, il volto santo e il corpo immacolato, reale di Elena.
Era necessario che andassi a cercarla per confutare la deformità che mi
aveva assalito, o per confermarla. Lo avrebbe deciso lei. Dovevo ritrovare e
riaprire la ianua caeli, la porta del cielo e della realtà. Elena
poteva restaurare la mia mente disfatta, rilegare il mio animo morso e rimorso
dai tormenti come un libro mangiato dalle tarme.
Era arrivato il momento della rivolta: di dire “no!” al quel rimuginare
doloroso, maniacale. Ne avrai le scatole piene anche tu, caro lettore.
Sollevai la testa dal gorgo degli affanni, mi alzai di scatto dal prato
dell’accecamento e scappai via senza nemmeno salutare i compagni vestiti di
nebbia: prima corsi verso il collegio numero uno fino alla porta di camera sua
dove bussai ripetutamente con mani frenetiche, invano; poi, invece di fermarmi
a intonare un paraklausivquron8, mi diedi a correre in direzione delle cliniche universitarie, che
comprendevano il reparto delle “donne pregnanti e malate”, com’era scritto
sopra l’ingresso dell’istituto già visitato e osservato con cura durante un
prolungato intervallo tra le lezioni di lingua ungherese che mi importavano
molto meno di quella femmina finnica, non per lascivia e dissolutezza, ma
poiché sapevo che l’idioma magiaro avrebbe avuto un’importanza minore
dell’amore di lei riguardo alla mia crescita umana e alle scelte del demone
mio, scelto a sua volta da me. Un’elezione che non potevo tradire.
La clinica non era lontana
dal nostro collegio e si poteva raggiungere facilmente pure a piedi, ma vi
lavoravano medici strani: era insomma un ambiente dove la bella donna, forse
già in quel momento, sottostava a una visita imbarazzante, per giunta senza
potersi spiegare con il ginecologo asiatico o africano, che magari era bravo e
gentile, ma, se non sapeva parlare inglese né finlandese, le avrebbe fatto
domande incomprensibili, mentre le palpeggiava il bianchissimo ventre con mani
nere oppure olivastre.
“Certo”, pensavo, “se i
dottori neri, o gialli, o bianchi, parlano solo ungherese o altre lingue da lei
sconosciute, Elena avrà bisogno di aiuto”.
Rimuginando, correvo lungo i
binari del tram resi scivolosi da una pioggerella viscida.
Ne ero innamorato; del resto
le avevo promesso che l’avrei accompagnata in ospedale per aiutarla, perciò
l’avrei fatto anche se mi fosse stata indifferente o nemica.
Che cosa speravo realmente?
Che fosse incinta davvero, che abortisse, che venisse in Italia con me?
Non lo so. Col tempo, tanto
tempo, ho capito che la sua funzione “storica” nei miei confronti era nutrirmi
lo spirito per il tempo veloce e prezioso di un mese scarso, e accrescere la
mia autostima con le qualità non comuni di cui l’avevano dotata benignamente
gli dèi. Perché me ne facesse dono. Benigni anche con me.
Correvo e mi ponevo domande:
“Elena deve donarmi il corpo e l’anima sua. E io come la contraccambio? ” Mi
davo anche delle risposte: “Intanto oggi l’aiuto a spiegarsi con il ginecologo senegalese
o vietnamita, e le faccio sentire la mia solidarietà, poi magari la renderò
immortale raccontando questa storia nobile e bella di aiuto reciproco. Ci
metterò la verità e la bellezza necessarie l’arte”.
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Arrivato
nella piazza dell’ospedale universitario, Orvostudományegyetem, era
già imbarazzante la scritta sul frontone della facciata principale, vidi Elena
io stesso, con gli occhi miei[1], mentre con il suo incedere elegante si avvicinava al grande cancello
d’ingresso: la candida veste e l’incarnato bianchissimo risplendevano al sole
che, annunciato poco prima da Iride, la grande sciarpa multicolore del cielo, e
sviluppatosi completamente dalla caligine opaca, dalle nuvole oscene, con la
sua luce piena, eroica, restituiva i colori alle persone e alle cose. A me
mostrava il bene massimo: la donna mia che camminando faceva danzare i suoi
raggi mentre la illuminavano tutta.
La sua
carne bianchissima vibrava di luce, la potenziava magicamente, la moltiplicava.
Il cielo
mi appariva di limpidezza translucida. Nelle aiuole ardevano fiori d’oro.
Frusciavano liete le fronde del bosco, uccelli sinistri non strillavano più.
I capelli
corvini le screziavano la pelle e il vestito con pennellate di nero luminoso,
come l’ombra meridiana degli alberi variegava il verde vivo dell’erba di
chiazze dense, scure, brillanti.
I binari
del tram riverberavano i dardi luminosi del sole.
Tutto
sfolgorava di bellezza e di gioia, tutto imprimeva un moto allegro e vivace al
mio sangue che pulsava rinato nelle vene del corpo e della mente resuscitata.
Lucidi torrenti scorrevano fuori e dentro di me.
Tutto era
più vivo, più bello, più ricco di significato.
Il sole,
amico della bellezza, donava gocce d’oro, e aveva fatto fuggire nelle caverne
le orrende creature della notte. La felicità aveva restituito alla madre terra
le sue trecce verdi, le sue mammelle ubertose, a me la forza, la bellezza e la
grazia di rinascita voluta da Dio. Ogni deformità era sparita.
La natura
si riapriva, pullulava di vita.
Raggiunsi
l’amabile amata e le chiesi se potevo aiutarla.
Il petto
le sfavillava e fluttuava ad ogni passo, immillando i sorrisi del sole.
Rispose
direttamente e con nobile semplicità “sì, certo”, non senza un lieve sorriso di
gratitudine, poi spiegò che si era mossa da sola perché dopo le ore di scuola
non mi aveva visto arrivare, ma sperava che l’avrei raggiunta presto, siccome
continuava a pensare che il mio aiuto le sarebbe stato prezioso. Elena rendeva
lucida e profumata l’aria del mezzogiorno estivo con i suoi sospiri. Dopo gli
da lontano, ora ne gioiva, da vicino, l’olfatto.
Le dissi
che l’avevo aspettata sul prato che separa e unisce i collegi, poi l’avevo
cercata con una certa apprensione, ed ero felice di averla trovata e di potere
aiutarla. Avevo un’aria da uomo pio, protettivo, quasi paterno.
Le dissi
che non poteva avere alcun morbo in quanto la malattia è cancro della bellezza
e la sua risplendeva con pieno fulgore.
Così
entrammo insieme, prima nel giardino del complesso ospedaliero, poi nella
“Clinica delle donne pregnanti e malate” dove un medico nero ci disse in
ungherese che la signora aspettava un bambino.
Disse
anche “ambulantia” che significa “ambulatorio”, ma Elena credette che
significasse “autoambulanza” a mi supplicò di portarla con l’automobile mia.
Glielo assicurai, con un tono di mondana leggerezza, senza chiarire l’equivoco
perché mi sembrava inutile, e pure, a dire il vero, e la cosa non mi fa onore,
per aumentare l’importanza del soccorso mio. Residui di calcolo poco nobile, da
affarista.
Comunque
la nostra intesa non decrebbe, anzi aumentò.
Mentre
uscivamo, osservai una statua situata vicino all’ingresso. Non so quale
luminare della medicina di Debrecen rappresentasse, ma la interpretai come
un’immagine del dio Priapo, un dio davvero grande e importante[2], che ammiccava lascivo. Accipio omen gli dissi con aria
da maschio vicino al trionfo, protetto da tanto nume. Sentivo che Cloto aveva
impiegato fili forti per tessere la trama della mia vita.
[1] Cfr Satyricon, 48, 8 "nam Sybillam quidem Cumis ego ipse oculis meis
vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent: "Sivbulla
tiv qevlei"; "
respondebat illa: " jApoqanei'n qevlw". Infatti la Sibilla di sicuro
a Cuma l'ho vista io stesso con i miei occhi sospesa in un'ampolla, e dicendole
i fanciulli: 'Sibilla, cosa vuoi? ' rispondeva lei. 'morire voglio'.
[2] E’ il dio dell’erezione, per chi ancora non lo sapesse e invece di
pregarlo dalla mattina alla sera, prende il viagra, vergognosamente. L’ira
santa di Priapo colpisce questi farabutti snervati
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L’amore,
la lettera di addio. La partenza di Helena e la morte della mamma. La
gratitudine a entrambe tali donne benedette
Due
giorni più tardi, mercoledì 28 luglio 1971, dopo avere parlato a lungo, dopo
avere provato sempre più forte il desiderio reciproco e avere sentito la nostra
empatia fino alla trasfusione delle anime l’una nell’altra, alle dieci di sera
facemmo l’amore tra lenzuola lecite, nel mio letto della camera numero 4
lasciata a nostra disposizione, non senza qualche brusio, dai tre compagni con
i quali la dividevo.
Quello fu
il giorno della mia seconda data di nascita. Fu la volta che ritrovai il
sorriso delle cose che vedevo da bambino.
Avvenne
in me una renovatio mentis che mi rese più gradito a me
stesso, più contento di me, più buono con gli altri. Fu allora che delle gioie
mie vidi l’inizio.
Avevo
superato stranamente e meravigliosamente la prova di piacere a una donna bella,
fine e inizialmente proibita.
I miei
piani, dapprima rozzamente abbozzati, poi raffinati e rifiniti non senza
abilità, e probabilmente con l’aiuto del mio demone buono, furono comunque
portati alla piena realizzazione da quel destino o quella provvidenza che
compie tutto quanto avviene su questa terra, dalla caduta di un passero, come
dice Amleto1, alla gioia di un uomo e una
donna in quell’estate lontana. La nostra felicità fu di assai “breve intervallo
superata da quella divina”2. Gli dèi stessi
santificarono un amore quale ci fu tra noi, Elena e io.
Del resto
sarebbe stato più facile proibire al mare di ubbidire alla luna che impedire a
me di amare quella donna mirabile e a lei di contraccambiarmi.
Dopo
avere fatto il massimo concesso a un uomo e a una donna mortali, i nostri occhi
brillavano di un fuoco prometeico e si correva il rischio di non riuscire a
smaltire una gioia sì grande e che l’indigestione ci portasse a commettere
qualche errore, come successe a Tantalo3.
Non ci
sembrava e non fu un atto contrario alla morale o alla natura, poiché eravamo
innamorati, e lei diceva che non aveva deciso se lasciare maturare nel ventre
suo il seme ricevuto in un tempo lontano, in un luogo remoto, da un uomo
scordato.
Tuttavia
tre settimane più tardi tornò da quell’uomo, poi lasciò maturare il seme
ricevuto da lui.
A me, che
continuavo ad amarla, mandò, in ottobre, le fotografie della nostra estate che
non poteva essere dimenticata e non lo fu e non lo sarà mai.
Vi
aggiunse queste parole:
“Hej
Gianni,
I have just got
these photo of the last summer, memories of it.
The colours are
not very good. Now my life is all right. I am married (2, 9) and happy. I love
very much my husband and now we together only wait for our baby. I am always
working as teacher in a middle school and I have much to do: 30 hours week only
for lessons. But Saturday and Sunday I am free and I can see my man. Now he is
working in another town. But in the spring we shall live again together in
Yväskylä and in february we shall get the boy. I wish you the most happy time!
Good bye.
Helena
Lì per lì ci rimasi male.
Il 20
agosto, quando ci separammo alla Keleti Pályaudvar, la Stazione
Orientale di Budapest da dove partono i treni sui quali avrei visto salire in
lacrime altre finniche mie, e con le loro partenze avrei sofferto la fine di
gioie tra le più luminose di questa mia vita mortale, Elena era afflitta, aveva
gli occhi pieni di dolce oscurità, mentre i suoi capelli bruni bruni venivano
scossi dagli ultimi venti estivi, e piangeva, ma non contraccambiò il mio
indirizzo. Disse che non aveva ancora deciso che cosa avrebbe fatto in
Finlandia: avrebbe visto, ci avrebbe pensato, poi mi avrebbe fatto sapere.
Aggiunse che aveva pure problemi di cambiamento d’alloggio.
Io non
piangevo. Pensavo che quel pianto era consolatorio per lei, per la vita forse
mediocre cui andava incontro.
Avrei
fatto tesoro di quel mese paradisiaco, lo avrei conservato nello scrigno
dell’anima, ne avrei acquistato potenza4 e magari un giorno ne
avrei pure ricavato parole ricche di bellezza e di forza.
Le dissi
soltanto: “spero di incontrarti ancora”, ma pensavo che non l’avrei vista più
in questa vita terrena e mortale.
La stessa
cosa capìi all’alba del 17 ottobre del 2011, un lunedì, quando salutai la mamma
morente e partìi da Pesaro per fare lezione a Bologna. Sentivo che non le avrei
più viste per chissà quanto tempo e comprendevo che era bene così. Elena non
poteva trapiantarsi in Italia: non avrebbe avuto di che riempirsi la vita
standomi a fianco senza un lavoro suo. Pensando a questo, non piansi. Anzi, la
guardai con occhi pieni di riconoscenza, grato alla vita di avermela fatta
incontrare, a lei di avermi accolto, di avermi donato un mese di gioia.
La mamma
novantottenne aveva avuto una serie di ictus da aprile in avanti e non ne
poteva più di soffrire. Aveva smesso di mangiare da tre settimane.
Dopo la
prima settimana le avevo detto: “mamma mangia, ti prego, altrimenti muori”
“A me non
dispiace morire” rispose. “Ne ho paura, non credere che non ne abbia, ma stai
sicuro che non mi dispiace”
“Dispiace
moltissimo a me” replicai “io voglio che tu viva!”
“Ti
sembra vita questa?” mi domandò, con intonazione retorica.
Era stata
indipendente e autonoma per oltre novant’anni e non sopportava di non esserlo
più.
Risposi
soltanto: “a me basta che tu non muoia, mamma”.
“A me non
basta, ma ti ringrazio” concluse. Era contenta che io ci tenessi tanto alla sua
sopravvivenza, ma non se la sentiva di continuare, siccome non era più vita la
sua, assistita da due badanti, una di giorno, l’altra di notte, lei che fino a
novantadue anni andava a fare la spesa in bicicletta e fino a novantacinque non
aveva avuto bisogno di nessuno, nemmeno dei figli. Quando io e mia sorella la
portavamo a cena fuori, le piaceva molto andare al Pesce azzurro di Fano, era
tutta contenta, era felice, ma non era mai lei a chiederlo.
Una sera
due fratelli, un uomo e una donna sui cinquanta anni, mentre parlavo con la
mamma vezzeggiandola e corteggiandola in quel locale fanese popolare e per
niente volgare, vennero vicino a noi e ci chiesero se eravamo madre e figlio.
In effetti ci assomigliavamo molto. Quando risposi “sì certo”, il maschio
disse: “beato te, sei molto fortunato. Noi abbiamo perso la mamma da
adolescenti”. Li ringraziammo e ne fummo felici. La madre mia già
ultranovantenne stava ancora bene. Poi nel 2011 si ammalò.
Una vita
priva di autonomia non era vita per tale donna nobile e antica,
non le si
addiceva.
csarda |
Come non
sarebbe stata confacente a Helena la vita che poteva fare in Italia.
Volerle
ancora con me le due donne benedette sarebbe stato egoismo mio.
A tutte
due sono grato: una mi ha dato la vita e mi ha sostenuto fino a che ne ho avuto
bisogno, l’altra mi ha reso più felice, più sicuro, più bello nell’aspetto e
più buono nell’anima.
Martedì
pomeriggio, quando dopo la scuola tornai da Bologna a Pesaro,
la mamma
era morta da un paio di ore. Per lei invece ho pianto e mi succede di piangere
ancora: con lei ho smarrito una parte grande della mia stessa vita, del corpo
mio addirittura. Mi consolai, mi consolo pensando di ritrovarla. Già la ritrovo
dentro me stesso.
La baciai
sulle labbra, cosa che non avevo mai fatto prima, nonostante fosse, e sia, la
prima delle mie donne, quella che mi ha partorito e che ho amato più di tutte
le altre.
3 Pindaro afferma che Tantalo era l'uomo più amato dagli
dèi che lo onoravano frequentando la sua mensa; egli però non seppe
smaltire la grande felicità: "se mai i protettori dell'Olimpo onorarono un
uomo/mortale, era Tantalo questo; però/ di fatto non seppe/digerire la grande
felicità, e con la sazietà attirò/un accecamento pieno di prepotenza, e su di
lui/il padre sospese un macigno pesante, /che egli desidera sempre stornare dal
capo/ed erra lontano dalla gioia. (Olimpica I, vv. 54 - 61).
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Il
pomeriggio benedetto dall’amore e potenziato dalla grazia di Priapo.
Un
pomeriggio, forse era già il primo agosto[1], Elena venne al solito incontro amoroso, verso le 17, con una lettera in
mano. Disse che l’aveva appena ricevuta dal suo “amico” finlandese e si scusò
poiché doveva finire di leggerla. Ne tremai nell’ombra ormai lunga del
pomeriggio avanzato della tarda estate. Quando la ripiegò, io, con tutta la
calma possibile, simulando anzi noncuranza sovrana, domandai: “novità? ”
Rispose:
“No. Ho letto parole talmente banali e scontate che potevo scrivermele da
sola”.
“Rusticus
coniunx”, pensai, quindi la paura si capovolse in ardire e il mio istinto
erotico ne fu potenziato.
“Andiamo
a fare l’amore”, le dissi. “Ho predisposto lo sgombro della camera da parte
degli altri tre e ho fatto anche cambiare le lenzuola da un’inserviente. Saremo
felici non una volta ma dieci”.
Priapo mi
ispirava una follia più saggia della saggezza del mondo.
“Italian
always arrange”, commentò, assai compiaciuta del resto.
Io ero
felice del pericolo scampato e volevo festeggiare l’evento.
Sicché
andammo in camera e facemmo l’amore parecchie volte, una decina come avevo
promesso, non meno. Mi aiutava un dio grande, pieno di grazia, non il Viagra
dei disgraziati colpiti dall’ira del dio.
Sostituivo
il noioso servizio militare della caserma terminato due mesi prima con il
gioioso servizio erotico a Priapo, a Venere e a suo figlio Cupido. Ero ancora
un soldato ma di tutt’altro esercito: "Militat omnis amans, et habet
sua castra Cupido; /Helena, crede mihi, militat omnis amans"[2].
Era anche
questa un’ascesi. Ogni ascetismo è un esercizio fatto di impegno grande e di
soddisfazione ancora maggiore, di piacere non senza fatica.
Imparai
anche un piccolo artificio, io homo amatorius, mulierosus quam
qui maxime, dalla mulier amatoria che mi
insegnò a non perdere tempo prezioso frugando dappertutto in cerca delle
mutande sparite che finiscono chissà dove quando ce le togliamo con mani frenetiche:
mi fece vedere che bastava infilarle sotto il cuscino. Con altre avevo sciupato
del tempo andando a cercarle fin sotto il letto, ed era successo che il tempo
maltrattato aveva poi a sua volta trattato male me, come sempre succede
“Brava,
bravissima - feci - sei un genio: sei più brava di me!”
Fu un
grande piacere dei sensi ma fu anche una gioia spirituale. Ci sentivamo del
tutto beati. “La voluttà fu concessa al verme, e il Cherubino sta davanti a
Dio”, ha scritto qualcuno, chiunque egli sia.
Eravamo
vermi, magari nati a formar, il più tardi possibile, l’angelica farfalla, e
pure già serafini ardenti e sapienti cherubini. La crisalide aveva cominciato a
mettere le ali che solo l’amore fa spuntare.
Dopo
l’ultima di questa serie meravigliosa, Elena, ammirata, mi disse che io non ero
normale, e che lei del resto era un’amante comoda poiché, data la sua
condizione, il rapporto amoroso non richiedeva cautele, e per giunta non c’era
l’impiccio delle mestruazioni.
“Con te
lo farei innumerevoli volte anche con le mestruazioni. Voglio arrivare a una
fusione totale tra noi, un’endiadi umana”, replicai.
“Allora
facciamolo ancora, prima di andare a cena” disse, simulando un furore non meno
menadico che erotico. Da menade iperborea.
Erano già
passate le otto e io ero affamato. I tre contubernali e humiles amici[3], con Fulvio in testa, dovevano per giunta tornare in camera a momenti,
secondo l’arrangiamento concordato. L’amico magari vedendo la porta chiusa,
avrebbe capito e tenuto a bada gli altri, desiderosi di una pausa dall’errante
vagabondaggio cui li avevo quasi costretti con varie e vaghe promesse.
Ma per
quanto tempo ci sarebbe riuscito? Era già quasi notte e dovevano prepararsi per
la cena. Feci questa obiezione alla sua richiesta di iterare ancora l’atto che
portava a conoscerci.
“Allora
non mi ami quanto sostieni e millanti”, scherzò.
Stimolato
dalla sua magnifica provocazione, eccitato, come lei, dal buon umore, feci,
facemmo l’amore ancora un paio di volte, trionfalmente. Un trionfo coribantico,
da orgia sacra e santa.
Lo
ricordo alla faccia non bella dei drogati che prendono il viagra.
Quindi
andammo a cena tutti contenti, a mangiare carne non cruda[6], a bere il “Sangue di toro di Eger” e a goderci un ozio da paradiso nel
ristorante dell’hotel Aranybika, “Toro d’oro”, nel centro della città, dove
avevo dormito la notte del luglio del 1966, quando, con una scassata Seicento
Fiat arrivai per la prima volta, spaesato e spaventato come un coniglio, nella
sconosciuta cittadina ungherese dove avrei passato alcuni tra i mesi più belli
di questa mia vita mortale. Ma allora non lo sapevo. Era già buio e non fui
nemmeno capace di trovare l’Università nascosta nel grande bosco. Un portiere
losco mi aveva ingannato per farmi dormire lì.
Sicché
passai in quell’albergo la prima notte di Debrecen in una solitudine desolata e
nello sconforto da giovane sprovveduto di quasi tutto, quale ero in quel tempo.
[2] Cfr Ovidio, Amores, I, 9, 1 - 2. E’ un soldato ogni
amante; anche Cupido ha il suo campo di guerra; Elena, credimi, ogni amante è
un soldato.
[3] Cfr. Seneca: “Servi sunt”, Immo contubernales. “Servi sunt”. Immo
humiles amici. (Lettere a Lucilio, 47, 1). E’ la lettera sugli
schiavi, una delle più note.
Dissi che
avevo fame e che potevamo riprendere più tardi, magari subito dopo cena.
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Conclusione
della giornata del primo agosto 1971
Quella
sera di agosto dunque tornai trionfalmente all’Aranybika, fiero della
bella donna e delle mie prestazioni da atleta del sesso.
Cenammo e
bevemmo il solito sangue di toro. Il vino dell’ebbrezza erotica. Scherzammo
giovanilmente, da giovani quali eravamo.
Le chiesi
di fare quello che Elena nell’Odissea: gettare nel vino un farmaco
quale antidoto a ogni tristezza e miseria.
“Ci
metterò un riverbero del mio sorriso - disse - e un riflesso della mia gioia”.
Parlavamo
scegliendo tutti i termini e ascoltavamo con attenzione.
Non
so come possano fare l’amore i giovani dopo avere passato una sera seduti a un
tavolo in due, guardando e mastricciando un telefonino. Ciascuno il suo.
Ci
soffermammo sul significato della parola cultura, come contrappeso al pur
pregevole scatenamento istintivo del pomeriggio. Comunque scatenato
dal lovgoς. Parlare fa bene a Eros, parlare con precisione elegante fa
benissimo.
Apollo e
Dioniso saltano insieme non solo sulle rupi delfiche e sull’altipiano
sovrastato dalle due cime del Parnaso ma anche sui letti, i santuari
dell’amore.
“Cultura
per me” - dissi - non è il sapere dell’erudito, l’ umbraticus doctor dall’anima
gobba, ma è sapienza che sa di vita, ossia è potenziamento della natura. Queste
formule le ho imparate da Petronio, da Nietzsche e da altri, ma il fatto l’ho
sperimentato nella prassi. L’ho provato con te. Non credo che saresti venuta a
letto con me se non ti avessi attirata con alcune frasi belle prese a prestito
dai miei autori. Non li ho derubati, poiché la bellezza delle parole per
fortuna non è soggetta alle regole della proprietà privata.
Importante
è che funzioni nell’ingranaggio complessivo.
Cultura è
“conosci chi sei”, poi “diventa chi sei”. Cultura è “niente di troppo”. Cultura
è bellezza. Se mi chiedi a che cosa serve, qual è la sua funzione, ti rispondo
che serve ad amare, amare l’umanità umanisticamente, come dicesti tu, e anche a
fare l’amore magnificamente, come lo stiamo facendo noi due”.
“Cultura
è rispetto e amore per la vita”, aggiunse Elena.
“Alta
cultura è l’amore nostro, l’amore tra noi due, il farlo tante volte, non
esserne mai sazi. Io ti amo per il tuo aspetto che riflette un’anima bella e
fine, come le tue parole”. Le dissi.
“Io ti
amo perché sei buono, Gianni, e non giochi con il cuore delle persone, come
fanno tanti buffoni e troppi farabutti.
Ti amo
perché fai l’amore con me, per come lo fai. Ti amo perché non ti fai servo di
nessuno e non menti.
Ti
amo perché sai ascoltare, osservi con attenzione le persone e la natura, e per
questo sei naturale, non artefatto”.
“Osservo
soprattutto te, amore mio, con enorme attenzione. La mia naturalezza comunque,
se non proprio costruita, certo è stata educata, dai libri e dagli incontri
buoni che un demone buono mi ha offerto.
Chi non
viene corretto e motivato da bravi educatori quali sono stati per me gli auctores,
rimane vittima della pubblicità, o dei partiti che vogliono portare le teste
all’ammasso, e resta schiavo dei luoghi comuni estranei alla realtà effettuale.
Noi due, con il nostro parlare e fare l’amore confutiamo in continuazione i
pregiudizi degli imbecilli e le astute menzogne dei mascalzoni e dei
profittatori”.
Intanto
gli zigàni suonavano musiche popolari ungheresi.
Si
mangiava e si beveva bene, e tutta l’atmosfera ci infondeva certezza del nostro
amore, sicurezza nei nostri ruoli, insomma felicità.
A un
certo punto mi scusai e andai in bagno. Soprattutto per guardarmi allo
specchio, osservare la mia faccia giovane, tutt’altro che brutta, e
compiacermene. “Ce l’hai fatta Gianni”, mi dissi. “Ce l’hai fatta.
Ricordi
come arrivasti qui cinque anni fa, nel 1966?
Questa
tua immagine gradevole era ancora fasciata di grasso, di sudiciume, e il tuo il
fetore ammorbava la puszta, offendeva la foresta, il tuo buio spirituale
oscurava il cielo. Eri come un bastone di legno marcio che avvolga e racchiuda
una verga d’oro, quella che vedi ora.
Rendi
grazia al Creatore, a Elena, alla mamma che ti hanno modellato così bene. E anche
al padre tuo, e alle zie, la Rina, la Giulia, la Giorgia che ti hanno aiutato.
E a tua sorella Margherita che si è fatta educare da te quando era una bambina,
alla nonna Margherita che tante volte ti ha offerto il suo sostegno, e non solo
affettivo. Ai suoi genitori, i bisnonni Scattolari che ci hanno lasciato la
terra avita di Tavullia e di Montegridolfo. E al nonno Carlo Martelli dal quale
hai ereditato molto più della roba: lo sconfinato amore per le donne, per il
sole, e il non comune talento ciclistico.
Hai
dentro il loro sangue, e ora pure quello del sole.
Questa
donna ha trovato e raccolto i tuoi pezzi mentali ancora sparsi e confusi, e li
sta mettendo insieme giusto in tempo per rimetterti in vita e in gioco, in
questo gioco competitivo, terribile e bello che è la vita umana ricca di amore.
D’ ora in avanti non voglio perdere più nemmeno una gara. A Elena e ai miei
consanguinei sarò grato per sempre.”
Quindi
tornai al nostro tavolo e ripresi a parlare con lei, ad ascoltarla, a
osservarla e ammirarla. Più tardi facemmo ancora l’amore, nel grande bosco, un
altro santuario del nostro connubio sacro, della nostra ierogamia.
“Il
grande bosco è rimasto per sempre il bosco più bosco di ogni bosco, più
suggestivo delle foreste del Caucaso o della Svizzera, forse perché crescendo
su terre sabbiose forniva un esempio di tenacia che gli dava una vita,
nonostante le sue misere risorse, piena di forza e di robustezza, che altrove
non vedevo mai”. Questa è Magda Szábo, la brava scrittrice di Debrecen cui ora
è intitolato il caffè sotto l’Aranybika.
Fulvio
però dopo avere letto queste pagine dice che il cantore di Debrecen sono io e
che dovrebbero dare il mio nome alla Nyári Egyetem, l’Università Estiva dove
abbiamo passato alcuni mesi tra i più belli di nostra vita mortale. Caro
compagno dell’età mia nova, e pure di questa da rinnovare, ricordi ancora quei
nostri giorni fatati e fatali? E come potresti averli scordati, carissimo amico
in esilio anche tu dalla nostra città incantata? All’apparir del vero anche se
non siamo caduti, ci siamo annoiati. Ora va meglio. Tu dipingi. Io scrivo e
tengo conferenze, faccio lezioni per educare i giovani a non dimenticare il
bello, il buono, la cultura e l’arte.
E il mio
blog, sapessi che soddisfazioni mi dà con le tante visite quotidine di persone
che mi leggono, e con me i nostri classici greci, latini, italiani, inglesi,
russi e tedeschi!
Pensa
agli scrittorucoli che, pur pompati dai media, nessuno legge perché non dicono
niente!
Ti
ricordi quella canzone, mi pare si chiamasse Delilah: “C’era una
volta un bianco collegio fatato, un grande mago l’aveva creato per noi”?
Sì,
noi amavamo, amavamo le donne e ci volevamo bene tra noi, tu, io e parecchi
altri. Perfino agli ubriaconi come Danilo volevamo bene! Cantavamo insieme,
mezzi brilli anche noi. E adesso chi vuole più bene a chi? Chi canta in coro,
tutte le lingue: “Gallus est mortus, gallus est mortus, gallus est mortus,
gallus est mortus, non cantabit iam coccodì coccodà, non cantabit iam coccodì
coccodà”?
Oppure Bocca
di rosa: “La chiamavano Bocca di Rosa, metteva l’amore, metteva l’amore. La
chiamavano bocca di rosa, metteva l’amore sopra ogni cosa”. Chi ama più?
Intanto
io continuo ad amare, a cantare la bella Debrecen che non c’è più, con la sua
Università circondata da grande bosco, privo di sfarzi dipinti ma ricco di
gioia, di affetti, di sapere più dei tanti ambienti falsi, inquinati,
invidiosi che abbiamo frequentato in seguito.
Ma
torniamo alla sera del primo agosto del 1971.
Prima di
andare a dormire facemmo un giro nel bosco. Non senza qualche sosta.
Le cantai
e tradussi, con variazioni minime, una strofa della Canzone di
Marinella di Fabrizio de Andrè, un altro dei miei educatori.
“E
c’era il sole e avevi gli occhi belli,
io ti
baciai le labbra ed i capelli.
C’era la
luna e avevi gli occhi stanchi,
io misi
le mie mani sui tuoi fianchi”.
Minä
rakastan sinua, mi
sussurrò nella sua lingua dolce. Le risposi con un sorriso: non sapevo dire
“anche io” in finlandese. Ma non era necessario: si vedeva che l’amavo. Si
vedeva dal piacere mai esausto. Non c’era bisogno di dirlo. Con lo sguardo
sentiva.
Eravamo
felici. Una donna e un uomo in mezzo alla natura. Dove l’Italia e la Finlandia
si erano strette in alleanza.
Senza
calcoli, senza arzigogoli, senza dolore, senza noia: nient’altro che noi due,
il nostro amore e la nostra felicità. Sono rari nella vita momenti del genere.
Vengono e
vanno. Comunque ritornano, siccome il cammino della vita, come quello
dell’eternità ha le sue curvature, i suoi giri. Ma questo con Elena, posso
dirlo dopo tante e varie giravolte, è stato il più bello.
Andammo a
dormire ciascuno nel proprio collegio, ma nel sonno gocciava davanti agli occhi
il sogno che eravamo nello stesso letto e facevamo l’amore. Elena e io.
1. Odissea,
IV, 220 - 221.
2. Cfr.
Euripide, Baccanti 305 - 306
3. Nel
Satyricon, l’io narrante Encolpio mette sotto accusa il tipo dello studioso,
estraneo alla vita, lo stesso che Nietzsche definirà "l'eterno affamato,
il "critico" senza piacere e senza forza, l'uomo alessandrino, che è
in fondo un bibliotecario e un emendatore, e si acceca miseramente sulla
polvere dei libri e degli errori di stampa"Nietzsche, La nascita
della tragedia p. 12. Il protagonista del romanzo di Petronio lo
contrappone ai grandi tragici: "nondum iuvenes declamationibus
continebantur, cum Sophocles aut Euripides invenerunt verba quibus
deberent loqui, nondum umbraticus doctor ingenia deleverat " (2,
3 - 5) , ancora i giovani non erano chiusi nelle vuote declamazioni, quando
Sofocle e Euripide trovarono le parole con le quali dovevano parlare.
4. Livio
(I, 56) racconta che Bruto aveva portato in dono ad Apollo una verga d'oro
inclusa in un bastone di corniolo con un incavo fatto a questo scopo, recando
un’ immagine enigmatica del suo carattere: "aureum baculum inclusum
cornĕo cavato ad id baculo tulisse donum Apollini dicitur, per ambagem effigiem
ingenii sui".
5. Cfr.
il faraone Amenhotep (Amenophi IV) nel romanzo di T. Mann Giuseppe e i
suoi fratelli: “Guarda qui!” disse a Giuseppe. “Avvicinati e guarda!” E
scostando la batista dall’esile braccio gli mostrò le vene azzurre nella parte
interna dell’avambraccio. “Questo è il sangue del Sole!” Giuseppe il
nutritore (IV volume) , p. 204. Anche Medea ha sangue del sole.
6. Nella commedia pastorale As you like it
(1599) di Shakespeare, il duca esiliato dal fratello e rifugiatosi nella
foresta di Arden con i nobili suoi fedeli dice: “Now my co - mates and brothers
in exile, - hath not old custom made this life more sweet - than the painted
pomp? Are not these woods - more free from peril than the envious court?
” (II, 1) ,
ora miei compagni e fratelli d’esilio, non ha l’antico costume reso questa vita
più dolce che lo sfarzo dipinto? Non sono questi boschi più liberi dal pericolo
dell’invidiosa corte?
7. Io ti
amo
8. Cfr.
F. W. Nietzsche, “Also sprach Zarathustra”, ’Der Genesende’, 2, 59 - 69 “Così
parlò Zarathustra”, ‘Il convalescente’, 2, 59 - 69: “Die Mitte ist überall.
Krumm ist der Pfad der Ewigkeit. ” Il centro è dappertutto. Ricurvo è il
sentiero dell’eternità"
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Dedicato
a Donald Trump
La festa
al casinetto del tennis
Jousiane:
la tentazione
Questo
episodio e il prossimo furono eventa, accidenti esterni, che mi
hanno educato e, con il volgere delle stagioni, sono diventati dei coniuncta,
qualità congiunte e intrinseche al mio essere.
La sera
in cui Elena mi insegnò a essere onesto e buono con lei, con le mie donne
future, con tutti gli esseri umani, e con me stesso, era il quattro di agosto.
C’era una
festa nella casina del tennis; eravamo in molti sulla terrazza del primo piano:
Fulvio corteggiava la sua futura moglie con serietà, con un successo che gli
sembrava progresso nella vita; gli altri maschi italiani, Danilo, Alfredo,
Ezio, Claudio, il povero Bruno, e Silvano, bevevano non poco e
cialtroneggiavano molto, motteggiando non finemente le femmine non italiane, in
italiano. Si ballava, ma ogni tanto ci si riuniva in un angolo, l’angolo dei
maschi frustrati, per schernire la gente, soprattutto le ragazze straniere. Non
era santa la danza, non si cantavano inni agli dei, peani o ditirambi. Nemmeno
epinici si cantavano ma lugubri epicedi sul buon gusto e sulla moralità.
Parlando
tra noi, designavamo le ragazze con epiteti impietosi e oltraggiosi: “il grugno
da scrofa, la sfregiata, la vecchia, il cercopiteco dalla fronte
inverecondamente bassa, la Megera dall’occhio che strega, la pessima tra
le Forcidi, la più feroce delle tre Erinni; poi la calva, la canuta,
l’epilettica, la lebbrosa, la più consumata volpe, la più svergognata pantera
dell’Università estiva di Debrecen”, secondo la consuetudine infame del maschio
italiano sessualmente affamato e frustrato.
Un
mongolo applaudiva continuamente, freneticamente. Ogni tanto lanciava un
incomprensibile grido belluino. Concluse la serata con le mani piagate e del
tutto sfiatato. Un Samoiedo assisteva senza fiatare, con un sorriso da mummia.
Sembrava però ferocemente attaccato alla vita ancora più di noi altri.
Noi
italiani eravamo anche imbevuti dell’antifemminismo illogico e immorale della
tradizione cristiana[1] e pure greca purtroppo, raccolta e riproposta da diversi scrittori
moderni malevoli verso la vita, per esempio il suicida Weininger, e il suicida
Pavese che qualche anno prima era stato di moda. “Chi si prende in casa una
donna, si prende un ladro”[2]. “Sono un popolo nemico le donne”[3] e così via.
Infamare
le donne, come dire male degli dèi, è odiosa sapienza.
Nelle
scuole si dovrebbe insegnare qualche cosa sul rapporto tra i generi.
Si
irridevano dunque le ragazze e si rideva sguaiatamente, con allegrezza pazza e
deforme. Lo “scellerato sesso”[4]veniva oltraggiato in vari modi.
Uno
gridava con voce squillante e aria da trombettista: “cerco piteco, cerco
piteco” alludendo a un paio di ragazze dall’aspetto vagamente scimmiesco che
facevano sesso con una certa disinvoltura. E il coro degli altri bruti: “Trovo
piteco, trovo piteco”.
E subito
dopo: “scopo piteco, scopo piteco”
Quindi il
solista: “schifo piteco, schifo piteco”.
C’era un
colpo e un contraccolpo, e il vociare stupido si posava su altro stupido e
cattivo vociare.
Poi tutto
quel gruppo di gaglioffi imbestiati urlava un “peròòòò” di ripensamento, che
riapriva l’orrendo canto nuziale, un imeneo zoofilo: “cerco piteco, cerco
piteco. Rendiamo felici le scimmie!”. E così via in un girotondo assolutamente
bestiale.
Claudio,
arrivato in ritardo, reduce da un incontro con il suo inesausto “porcone”
diceva di volere rifarsi la bocca con una quaglia vergine e appena un po’
cicciosetta.
Il fetore
del coro raggiungeva la luna che i più profani arrivavano a sfottere irridendo
la sua castità violata dagli astronauti.
Beceri e
sacrileghi assai. Io fingevo di vergognarmi e di dare a vedere un gesuitico
sdegno, provavo anche a dire: “ma no, quali scimmie? Sono gatte mammone,
creature generose!”. Oppure cercavo di istruire un secondo coro cantando
l’aria di Figaro: "Guardate queste femmine, /guardate cosa son.
/Queste chiamate dee/dagli ingannati sensi/a cui tributa incensi/la debole
ragion. /Son streghe che incantano/per farci penar, /sirene che cantano/per
farci affogar; /civette che allettano/per trarci le piume, /comete che
brillano/per toglierci il lume. /Son rose spinose, /son volpi vezzose, /son
orse benigne, /colombe maligne, /maestre d'inganni, /amiche d'affanni/che
fingono, mentono, /che amore non sentono, / non senton pietà. /Il resto nol
dico. /Già ognuno lo sa"[5].
Mi
divertivo assai. Ogni tanto, di nascosto e sottovoce, suggerivo battute
infernali ai gaglioffi più osceni, se rinculavano per andare a bere altre
palinke alla prugna, o “brugna” come dicevano loro con un pun lascivamente
allusivo
Ero uno
sconcio demonio anche io, forse il più assatanato di tutti. Ma cercavo di
coprire la mia nuda scelleratezza con scampoli di letteratura, e volevo
sembrare tanto più raffinato quanto più, sotto sotto ero un vero demonio[6].
La bella
e fine Elena mi osservava con cupa meraviglia. A un tratto la donna bella e
fine trovò insopportabile quel comportamento volgare e cretino. Disse che era
stanca e voleva andare in camera per riposarsi; più tardi, se si fosse sentita
meglio, sarebbe tornata. Tanto quelle feste al casotto del tennis duravano fino
all’alba. Non me lo chiese, ma forse sperava che la seguissi, che fossi stanco
anche io di quei fescennini obbrobriosi fatti di lazzi plebei, battute volgari,
offese crudeli lanciate vigliaccamente, anonimamente, in una lingua
incomprensibile alle ragazze dell’Università estiva di Debrecen. Disse che se
io fossi rimasto lì a lungo e lei non fosse tornata, ci saremmo visti il giorno
dopo, negli intervalli tra le lezioni. Molto scortesemente non l’accompagnai,
poiché provavo un piacere perverso nell’osservare quegli anatemi pieni di
risentimento contro le femmine umane, il sale della terra invero.
Veniva
presa di mira questa o quella donna e, il coro empio e stonato, molto peggiore
di uno stormo di rochi corvi gracchianti, ripeteva “la sfregiata, la culona
cellulitica, appena scopabile[7], il labbro leporino, la tetta smunta, la puttana, la sfigata di Debrecen”.
Non si
finiva più: “è gobba, zoppa, debole di mente” gridava un semicoro indicando una
bruttina assai.
E il
secondo semicoro: “fuggiamo: come amante non varrebbe niente!”
Il più
studioso e addottrinato, Luigino, un diavolo truccato anche lui, se ne vedeva
tre insieme non proprio belle che parlottavano tra loro anche perché nessuno le
invitava a ballare, alludeva alle Forcidi[8] dicendo: “a voi tre basta un occhio, basta un dente! E magari
aggiungeva, battendo le palpebre con aria indolente: “Gebt mir das Auge,
Schwestern dab es
frage!”[9]. Poi aggiungeva con un sorriso mellifluo: “datemi quel dente vi prego: mi
è venuto un po’ di appetito”.
Io, l’arcispietato,
aggiungevo: “non siete voi le vecchie ragazze già nate con chiome canute, che
trine in alterna vicenda, usate soltanto un occhio cisposo, un dente cariato
soltanto?”[10].
E giù due
sghignazzate. Ma noi due raffinati, l’etero assatanato e l’omosessuale, lo
sdilinquito cinedo, no, noi non ci scompisciavamo dalle risate. Facevamo
sghignazzare gli altri con sovrana noncuranza, con signorile sprezzatura. Ogni
tanto lanciavamo occhiate stanche e sprezzanti. Volevamo distinguerci dai visi
rossi e ignoranti degli altri, alterati dall’alcol e dal godimento.
Io
osservavo incuriosito e divertito, finché, pur nella mia stolta ed empia
ingratitudine all’ottimo e massimo dio che ha creato le donne proprio come sono
fatte e che per giunta mi aveva donato la bella Elena, a un tratto ebbi un
senso di fastidio prima, poi di nausea e vergogna; ma non tanto, come avrei
dovuto, per ragioni morali, quanto per una questione di stile, di gusto che
sentivo marcio e velenoso, quasi fisicamente e fin dentro la bocca; perciò
cercai e trovai l’occasione per cambiare attività.
Sentivo
che il tempo passato in quel modo e il caos cui era associato mi divoravano e
distruggevano la parte migliore di me.
Mi
accorsi che una ragazzina francese, conosciuta solo di vista e di nome, una
diciottenne piuttosto bellina e fine, Jousiane[11], mi stava guardando con occhi splendenti di simpatia. L’amabile esca del
suo sguardo crepitava di vita e di grazia vivace. Mi sorrideva quasi
ammiccando.
“Per
niente timida - pensai - sana come un pesce, liscia come una susina
e magari pure lasciva”.
[1] “Il cristianesimo diede a Eros del veleno da bere: egli non ne morì,
ma degenerò in vizio” Nietzsche., Di là dal bene e dal male,
Aforismi e interludi, 168.
[7] Non mancavano le ragazze di Berlino est, ma Angela Merkel non c’era;
all’epoca era una giovanissima comunista, anche piuttosto carina. Questa nota è
per Silvio Berlusconi.
[8] Sono le figlie di Forco: tre sorelle orribili che avevano un solo
occhio e un dente solo tra tutte e tre.
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A
Josiane, la pulzella di Strasburgo
Il
diavolo mi suggeriva che difficilmente la bellezza si accompagna alla
verecondia.
Attirato
e incuriosito, andai a domandarle perché mi osservasse e sorridesse così
simpaticamente. Glielo chiesi in modo molto diretto. Fisicamente mi sentivo in
gran forma, affettivamente e sessualmente avevo le spalle coperte dalla bella
donna finnica: potevo rischiare anche un secco rifiuto dalla luccicante
fanciulla che, in tal caso, avrei considerato una ragazzetta incompiuta, o
piuttosto un “grazioso difetto di natura”.
Nove
anni di differenza non bastano a fare scattare la comprensione del padre verso
la figlia.
La
ragazza rispose molto benevolmente che voleva conoscermi poiché amava il greco
e il latino e aveva saputo che li avevo studiati nell’antica Università di
Bologna.
“Sei
molto carina”, le dissi, “sei l’Afrodite di Debrecen”, poi: “Vuoi ballare con
me?”, le chiesi
“Pourquoi
pas?”, fece lei con un filo di voce, si alzò, e mi pose le braccia intorno
alle spalle. Bellina, bellina assai.
Ma
avevamo poco da dirci: il suo amore per le lettere classiche era più
velleitario che altro, data l’età, e io, dopo due anni di insegnamento alle
medie e il servizio militare, le stavo dimenticando.
Dicevamo
luoghi comuni infarinati di classicità. Però lei era davvero molto carina,
gentile, volteggiava elegante come una rondine. Accordava con me l’amabile
cadenza dei piedi, delle mani, dei sorrisi. Mi attraeva in modo straordinario.
Forse
desideravo una figlia dopo avere trovato la madre. Un virgulto odoroso di
carne, aulentissima, lievitante, preziosa. Il desiderio della donna - figlia si
sarebbe ripetuto nella mia perpetua carenza di progenie.
Soprattutto
dopo l’abortimento della bambina che aspettavo da Päivi, la finnica amata nel
1974. Ma forse cominciavo a sentirmi attirato dalle femmine giovani, le donne
figlie per succhiare come un vampiro la loro gioventù e ritardare il più
possibile la senectus atroce, e l’orribile, inevitabile exitus.
Dopo
qualche minuto di ballo, ci sentimmo stranamente legati da qualche arcano e
ambiguo vincolo culturale, o razziale, o scolastico: la fanciulla di Strasburgo
si sarebbe iscritta a lettere classiche in autunno. O forse, più semplicemente,
ci piacevamo. Fatto sta che lei mi guardava negli occhi con un sorriso per lo
meno accattivante, mentre io le sussurravo lusinghe come “tu sei intelligente,
raffinata, carina, colta, profumata, preziosa”. L’aroma di quel dolcissimo,
giovane corpo in effetti mi inebriava.
Lei
rilanciava, dicendo che mi aveva visto correre a mezzogiorno, nello stadio,
classicamente, cioè quasi nudo, abbronzato, leggero e potente, con un ritmo e
una forza che le ricordavano quelli degli agonisti celebrati dalla dorica lira
di Pindaro. Mi schermivo dicendo: Velox sum? Et equi.
Probabilmente
i suoi complimenti sperticati corrispondevano alle spacconate o alla falsa
modestia con le quali cercavo di affascinarla. Non ricordo. Anche io la
adulavo, poiché le lusinghe funzionano sempre, perfino con le vestali e, a
maggior ragione, con le pulzelle illibate.
Lei
sorrideva compiaciuta e mi guardava negli occhi. Ma forse, più che attirata
dalla mia persona e da quanto facevo o dicevo, la ragazzina era stuzzicata dal
pensiero, caro alla sua vanità adolescenziale, che l’adulto già accoppiato con
una donna coetanea, il professore bravo, intelligente e sportivo quale credeva
che io fossi, travolto dalle sue grazie fiorenti, dai suoi vezzi freschissimi e
dolci, arrivasse a umiliare la bella compagna e se stesso. Probabilmente era
vergine e, ad una mia proposta diretta di sesso avrebbe opposto un rifiuto
secco, magari pure sdegnato. Lo immaginai, e anche per questo evitai il
tentativo di affondo, nonostante sentissi montare la fregola. Era tutto un
gioco, o una commedia e la magistra ludi era lei.
A un
tratto la ragazza mi domandò se cercavo una figlia.
“Non
ancora”, risposi in francese usando alcune tra le poche parole che conoscevo di
questo idioma parente del nostro.
Comunque
ero molto tentato e avevo cominciato a parlarle dell’orto botanico e degli
alberi strani, di fiori mostruosi dal nome latino scritto in un cartello che
forse, per certam lunam sub luce benigna, poteva essere letto con
piacere da noi due, amantissimi della classicità.
Ubriacato
dall’aulente fanciulla, e pure dalle palinche all’albicocca, rischiavo di
abboccare la ghiotta, saporitissima esca della sua gioventù, sfondarmi il
palato ingordo con l’amo, e perdere la donna che avevo convinto a
contraccambiare il mio amore in nome della felicità e della crescita umana di
entrambi. Il mio demone buono mi trattenne, ma la tentazione fu grande. Con la
testa confusa sotto il cielo stellato mi domandavo se era il caso di stringermi
forte al petto la graziosa che da parte sua aveva accostato la sua incantevole
faccia alla mia. Intanto Ezio e Alfredo, uomini a mal più ch’a ben usi da
dietro le spalle della francesina mi facevano segno di non lasciarmela
sfuggire, tanto le donne tradiscono sempre, da svergognate pantere quali
appunto sono, e noi dobbiamo adeguarci.
Quindi i
due compari, attempatelli e ancora studenti, scoprendo denti da lepre,
battevano i pugni sul tavolo, piegavano i colli e abbassavano le teste,
compiaciuti del ritmo, quasi certi di rafforzare e rendere logica la loro
proposta immorale tambureggiando diabolici ditirambi nella notte dell’estate
già tarda.
Mentre
mi domandavo se tradire Elena, posto che la fanciulla mi si fosse concessa, mi
avrebbe procurato maggiori piaceri o rimorsi, a un tratto sulla terrazza del
casinetto del tennis, sotto la luna incerta, nel fosco bagliore di una luce
maligna, apparve la donna matura: aveva il volto stanco e l’aria infelice, come
se fosse disgustata o davvero malata.
Come vide
me e i due sconci demoni che mi aizzavano, il suo volto assunse un pallore
spettrale, quasi fosforescente.
1. Cfr. this fair defect of Nature,
Milton, Paradise lost, X, 888.
2. Cfr.
Dante, Paradiso, III, 106.
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Le due
madri: la mamma etrusca di Borgo Sansepolcro e la mamma finlandese di Yväskylä.
“Ecco la
mamma”, pensai.
Digressione
su mia madre
E mi
venne in mente la mamma mia, di occhi azzurri e di capelli nerissimi, quando
durante il pranzo mi guardava fissamente, con aria ostile, poiché non le davo
retta e non si sentiva amata abbastanza, o pensava di essere mal giudicata da
me, o posposta alle sorelle sue. Io l’amavo come non ho più amato nessun’altra
donna in vita mia, ma non riuscivo a farglielo capire, e lei si sentiva
ingiustamente sottovalutata in favore delle zie, le sorelle sue Rina e la
Giulia, dalle quali mi rifugiavo poiché, a mia volta mi sentivo non capito e
non apprezzato da lei. Quando la Giulia, che come la Rina non aveva figli, mi
portava a Moena, tutti gli agosti degli anni Cinquanta, sentivo tanto la
mancanza della mamma, il desiderio di una cartolina di lei, che tutte le
mattine aspettavo il postino, o addirittura gli correvo incontro, sperando di
leggere parole sue. Anche solo “Saluti e baci. Mamma”. Ma queste quasi mai
arrivavano, e io aspettavo il giorno seguente, e agognavo il ritorno a Pesaro
per provare di nuovo a piacerle, a conquistarne l’affetto, la stima,
l’ammirazione.
Elena era
una mamma, bella e bruna anche lei, e quella sera del 4 agosto 1971, mentre i
crapuloni pieni di palinke e vini ripetevano quei loro ontosi metri contro
le donne, avrei potuto far pagare a quella femmina gravida le frustrazioni
subite dalla mamma mia quando era indifferente o furente perché non le obbedivo
e non si sentiva amata da me. Elena però non era furente né indifferente, anzi
manteneva lo sguardo buono anche quando era infelice.
La madre
mia solo quando il grande dispetto le era passato, diventava affettuosa. Allora
mi accarezzava i capelli e diceva: “Pipo, sei bellino, sei buono, a scuola sei
il più bravo di tutti: io sono fiera di te. Ho sempre desiderato un figlio
così; tu mi ripaghi di una vita tribolata. Hai occhi grandi e belli, anche se
non hai preso il colore dei miei: i tuoi sono color cacca, però si vede lo
stesso che sei intelligente. Una volta, quando eri piccino piccino, avevi forse
tre anni, ti portai da un calzolaio troppo caro secondo me. Sicché io volevo
uno sconto e tu, che avevi capito tutto, per sostenermi, dicesti “brutte ’ca’”,
brutte scarpe.
Appena
hai imparato parlare, hai dato segni di genio. Mi aspetto molto da te. Vedrai
che uomo diventi, vedrai quanto ti ameranno le donne! Quando mi fai arrabbiare,
ti sgrido, talvolta ti dò qualche scapaccione, ti tiro per la cuticagna,
ma ti voglio bene lo stesso!”
Allora
sentivo che quella donna mi capiva, mi apprezzava e mi amava. E fuggivo nel
bagno per piangere, ma di consolazione e di gioia, poiché la madre
mia contraccambiava il mio amore.
La mamma
era l’unica donna che mi piaceva del tutto e mi emozionava, perché era bruna,
di capelli nerissimi e occhi colore smeraldo, oppure, secondo la luce, men
chiara o più chiara, azzurri. Aveva l’incarnato sempre brunito dal sole, era
ben fatta, snella e formosa, elegante, ma ancora di più la ammiravo poiché era
capace di pensieri originali, di azioni sue, magari non tutte buone, però sue,
non imitate da altri, e sapeva dare giudizi brevi e acuti su un personaggio, un
libro, un film.
Se amo la
letteratura e il cinema con la loro potenza ricreativa, lo devo anche a lei,
soprattutto a lei.
Le zie
erano state fascistizzate e pretificate; il nonno beveva, rimpiangeva le sue
numerose ex amanti e le tante gare ciciclistiche vinte; la sorella era ancora
un’infante, la chiamavamo toscanamente “la Citta”, cioè la bambina; la nonna
Margherita gelosa faceva la guerra alla serva di casa, una poveretta scema,
brutta e mezza vecchia, ma - “ghiotta per quel porcaccione del tuo nonnaccio” -
diceva. “Non diventerai mica come lui, vero?”
E per
stornare le corna, d’inverno sputava nelle fiamme del focolare, in cucina. Mia
madre aveva un’anima: non sempre diritta e lucida invero, ma ce l’aveva. E io
per questo l’amavo, l’amavo come non ho amato mai più, né mai più probabilmente
amerò una femmina umana mortale, e la prendevo sul serio, e volevo correggere
le sue distorsioni con un impegno che non avrei messo nemmeno con le mie figlie
spirituali: mia sorella Margherita, Luciana, Ifigenia, Carlotta, Daniela,
Polina e le altre. Sbagliavo a volerla cambiare e soffrivo quelli che, con la
mia piccola e misera mente dogmatica, consideravo i suoi errori. Non erano
errori. Era la natura sua, una natura non fiacca, quella che mi ha trasmesso
oltretutto, e io gliene sarò grato per sempre.
Quando
capivo che anche lei mi amava, piangevo di gioia; poi mi osservavo a lungo
nello specchio, e notavo quanto le somigliavo nel volto bruno bruno,
nell’espressione degli occhi tagliati a mandorla, seppure di colore del tutto
diverso, nel naso pronunciato in modo nobile e bello. Antichi entrambi. Antichi
etruschi di Borgo Sansepolcro eravamo. E nel mio volto vedevo la stessa sua
irrequietezza, la stessa follia geniale, ispirata, che volevo rivolgere al
bene, a creare qualcosa di buono, di bello, di grande.
Questo
avveniva negli anni Cinquanta, verso la metà degli anni Cinquanta, quando avevo
una decina di anni.
Il 4
agosto del ’71, vicino oramai ai ventisette, potevo evitare di opprimere una
donna che mi aveva aiutato, risparmiandole un’ingiustizia dolorosa e umiliante.
Avevo incontrato una persona che si era fidata di me, riconoscendo l’uomo
tendenzialmente buono e intelligente che volevo diventare, che forse, ora
vicino ai settantadue anni mi avvicino a essere. Non dovevo tradire la sua
fiducia. Elena però doveva aiutarmi poiché il mio animo, come la testa materna,
era ambivalente, intermittente, incline alla seduzione attiva e passiva,
allo qumov~ anche distruttivo, seppure non tanto quanto quello
della madre furente e assassina immortalata da Euripide.
Nell’ottobre
del 2011 la mamma mia è morta, pochi giorni dopo avere compiuto novantotto
anni. Grazie a Dio, eravamo del tutto pacificati e armonizzati noi due, da
tanto tempo oramai. Ci eravamo riconosciuti. Ci fidavamo completamente l’uno
dell’altro. Ci amavamo molto alla fine. Ne eravamo felici entrambi. La notte
del giorno della sua morte pedalando sulla pista ciclabile tra Pesaro e Fano,
l’ho sentita vivere nelle stelle, nell’innumerevole sorriso delle increspature
marine che riflettevano la luna, una luna crescente piena di luce. Ho sentito
la mamma viva nell’armonia della vita dell’Universo. E ho pianto di dolore ma anche
di gioia, come quando ero un bambino davanti allo specchio. La mamma non era
sparita: era viva nel cosmo e viva dentro di me. Non è uscita dall’Universo la
mamma. Tanto meno è uscita da me, piuttosto è entrata in me. Sono certo che
rimarrà viva, e bella, e buona per sempre. La madre terra è in mezzo alle
stelle e tu mamma, sei dappertutto, in quelle lucentissime margherite del
cielo, nel sole che ci abbronza e ci rende più belli, nel vento che ci
accarezza, nelle farfalle che volano sui fiori d’oro che ti piacevano tanto,
negli uccelli dell’aria, nei piccioni e nei passeri cui davi da mangiare ogni
mattina.
Ti
ritrovo dovunque, sempre pronta a darmi il coraggio e la forza di diventare
quello che sono, di fare le cose buone e belle che devo a me stesso e devo a te
che mi hai dato la vita.
Quando mi
osservo allo specchio, e vedo nel mio volto, l’impronta del volto tuo,
irrequieto, geniale, sussurro: “Tu sei la mia mamma, tu sei la mia mamma”, e lo
bacio. Poi tocco le vene azzurre della parte interna dell’avambraccio e dico:
“questo è sangue di Luisa”.
Ma
torniamo all’era di Debrecen, precisamente alla sera del 4 agosto del 1971, ai
miei ventisei anni e otto mesi.
Diedi
retta al mio demone che non voleva il male della donna pregna, né quello del
feto, né il mio. Sarebbe stata azione non degna di me.
Mi scusai
con la ragazzetta francese che mi salutò citando a sua volta La
montagna incantata: “N’oubliez pas de me rendre mon crayon”. Forse
era l’incoraggiamento che avevo cercato.
You are
quoting from Thomas Mann, le dissi con un sorriso di approvazione. Avevo riconosciuto l’allieva.
La
salutai, poi andai in fretta da Elena che aveva osservato e, probabilmente,
compreso.
“Ciao
cara, come vanno la salute e l’umore? ”, le domandai non senza imbarazzo.
“Non
bene”, rispose con serietà. “Ti voglio parlare, ma non qui tra la gente e il
chiasso. Andiamo a fare due passi”. Aveva visto e capito che ero stato
lusingato e attirato dalle moine, le parole e i vezzi di quella adolescente
liscia e fresca come una prugna, spregevolmente da parte mia, dopo tutti i
giuramenti d’amore e di stima impiegati per convincere lei, la donna di un
altro, di uno lontano, a venire a letto con me, l’uomo che diceva di amarla
quanto un uomo buono ama la vita.
Le
proposi di andare in collegio, in camera mia, dove si poteva parlare stando
seduti e guardandoci in faccia. Sentivo anche io il bisogno di una spiegazione
chiara e completa. Il collegio era deserto, la camera vuota. Ci sedemmo sul
letto ordinato, e casto, di Fulvio, l’onesto Fulvio. Nemmeno con se stesso
fornicava l’amico innamorato della futura moglie.
“Senti
Gianni”, cominciò andando direttamente al centro della questione, “se la mia
presenza ti pesa, io posso tornare in Finlandia direttamente, domani”. Aveva
gli occhi gonfi, rossi, cerchiati, e l’aria infelice. Ancora una volta, con la
sua capacità di arrivare subito al nocciolo, con la sua calma, pur nel dolore,
mi dava una lezione di intelligenza e di stile. La guardavo, pensando quanto
era diversa dalla gente rozza assai, e affettata, che frequentavo di solito;
quanto mi rendeva migliore. Riflettevo, esitavo a rispondere. Allora si mise a
piangere sommessamente. Finalmente parlai. Dissi: “Elena, non piangere, ti
prego, mi dispiace, non piangere. Fammi capire che cosa ti rende infelice. Io
voglio aiutarti”. Si asciugò gli occhi, poi mi guardò con fermezza e disse: “A
me dispiace di essermi lasciata andare ad amarti troppo presto. Ti ho creduto
quando dicevi di amarmi, e mi sono sbagliata”.
“Dai, che
non è vero”, la confutai, ma senza la convinzione e la forza necessarie a
lenirne la pena.
Allora
disse: “Non essere falso almeno. Ho visto quanto ti attirava la ragazza
francese e quanto avresti voluto essere libero per lasciarti andare con lei.
Ebbene, puoi farlo, o puoi continuare a farlo. Non preoccuparti per me:
considerati libero, come se non mi avessi mai conosciuta; io adesso torno in
camera mia e domani sparisco dalla tua vita. Addio”. E si mosse per andare via.
1. Cfr.
G. Leopardi, Dialogo della natura e di un islandese.
2. Cfr. Dante, Inferno,
VII, 33.
3.
La Medea di Euripide individua nel suo animo un conflitto tra
la passione furente e i ragionamenti, quindi comprende che l'emotività, sebbene
sia causa dei massimi mali, per gli uomini è più forte dei suoi propositi:
" Kai; manqavnw me; n oi\\\a dra'n mevllw kakav, - qumo; " de; kreivsswn
tw'n ejmw'n bouleumavtwn, - o{sper megivstwn ai[tio" kakw'n
brotoi'""
(vv. 1078 - 1080), capisco quale abominio sto per compiere, ma più forte dei
miei ragionamenti è la passione, che è causa dei mali più grandi per i
mortali", dirà la furente nel quinto episodio dopo avere preso la
decisione folle di uccidere i figli.
4. Sono
le ultime parole, dette in francese da Madame Chauchat, del V capitolo (Notte
di Valpurga)
5. Tre
anni più tardi, nel tempo della storia di Päivi, Josiane mi porterà un fiore
con la dedica “Magister, tibi”. L’ho già raccontato.
6. Cfr
Guido Gozzano, Totò Merùmeni (ossia il punitore di se stesso),
v. 42.
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Non sono
materia
Elena
dunque mi stava lasciando. Allora finalmente compresi. Capii di essere stato
stupido, volgare e crudele; capii che quella creatura in attesa di un’altra
creatura, non doveva subire ingiustizia, umiliazioni e dolori. Non da me. Avevo
compreso e sentivo che non vi è felicità grande senza morale profonda1.
Ne avrei
avuto rimorso per tutta la vita, forse anche oltre. E non solo per questo: io
l’amavo, lei mi aveva reso migliore, e siccome in sua presenza mi vergognavo di
essere ingiusto, mi avrebbe reso ancora migliore. La terra è in mezzo alle
stelle, e sulla terra ci sei tu amore mio. Già il tuo nome è circondato da un
alone sacro.
Mi alzai,
le afferrai la mano sinistra e dissi: “Scusa, Elena, aspetta. Ora devo parlare
io a te. Ne ho bisogno. Ti prego”. Si fermò, mi guardò, poi sedette di nuovo.
Questa volta sul mio, sul nostro letto, sul talamo sacro dove Eros ci aveva
uniti in tanti, tantissimi, mai troppi tripudi gioiosi. Sospirai profondamente,
le accarezzai i capelli neri, folti, lucenti e la guardai con simpatia
autentica. Elena era come me quando venivo vessato dai prepotenti: chiedeva giustizia
a uno che aveva provato l’iniquo impulso del tradimento e dell’oppressione.
“Scusami,
amore, hai ragione. - dissi - Prima stupidamente ho bevuto due o tre palinke e
ho perso la lucidità mentale. Poi ho ballato e ho sorriso sfacciatamente con
quella ragazza francese. E’ vero, le ho fatto la corte, ma niente di più. Ho
detto poche parole vuote”. Mi fermai un momento.
Poi le
citai quanto dice Hans Castorp a madame Chauchat, la donna dagli occhi da
Chirghisa: “Parler français, c’est parler sans parler, en quelque manière…
sans responsabilité, ou comme nous parlon en rêve”
Helena mi
guardò perplessa.
“Ora ti
metti anche a parlare francese?”, mi domandò.
“No,
je ne parle guère le français: ho solo imparato a memoria alcune parole di
Thomas Mann”4, risposi.
Poi
continuai: “L’ho abbracciata, come si fa quando si balla, le ho fatto qualche
complimento, ma non l’ho baciata. Comunque mi dispiace, ora me ne vergogno. Io
voglio te, ne sono sicuro, voglio stare con te, soltanto con te, finché tu mi
vorrai. Voglio rispettarti come rispetto me stesso, perché tu sei la mia
compagna e ancora di più perché ti amo. Tu devi essere sempre felice, almeno
per quanto dipende da me. Ne sento la responsabilità”.
Mi
osservava, prima con sguardo dubbioso, poi capì e sentì che parlavo sul serio,
con la testa e con il cuore, con tutto me stesso insomma. Infine mi sorrise
convinta e mi accarezzò. Allora io, spingendole in basso le spalle, la stesi
sul letto, quindi cominciai ad accarezzarle una coscia, sotto la gonna, con
l’intento evidente di fare l’amore subito. Ma lei scostò la mano intempestiva e
tutta la mia persona importuna, si rimise seduta, e disse: “Aspetta”.
“Perché
aspetta? ” le domandai, fingendo di non capire o senza capire davvero. Non
ricordo.
“Perché
voglio parlare ancora. Io non sono…” Disse in inglese una parola che non
compresi. Le chiesi di ripeterla. “In latin is “materia”
spiegò. Io non sono materia.
1 Cfr. R. Musil, L’uomo
senza qualità. Verso il regno millenario. “E sostengo che non vi è profonda
felicità senza morale profonda”.
3 Cfr. Esiodo, Opere
e giorni, v. 265. Seneca ribadisce questa legge nell’ Hercules
furens: " quod quisque fecit, patitur: auctorem scelus
repetit " (vv. 735 - 736) , ciò che ciascuno ha fatto lo patisce:
il delitto ricade sull'autore.
4 La montagna
incantata. V Notte di Valpurga. Parlare francese è parlare senza parlare…
senza responsabilità, oppure come parlare in sogno… quasi non parlo il
francese.
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L’alba nell’orto botanico. Summertime
“Magnifica”
pensai. La stimai e l’amai ancora di più per questa bella affermazione della
sua dignità di donna e di persona; quindi vidi con chiarezza maggiore quanto
fossi stato volgare, crudele e immorale civettando con la ragazza francese.
“Non
tutte le femmine dunque”, pensai, “sono creature contraffatte, sagaci segugi a
caccia di matrimonio, maschere prive di interiorità: leziose e smancerose, o
tetre e arrabbiate, parassitarie o prepotenti, istrioni tragiche o guitte comiche,
volgari mime arcisfrontate o ipocrite perbeniste pudibonde, quali le
considerano, e spesso le condizionano a essere, i maschi frustrati nell’amore e
nel lavoro. Se ci sono nemiche, siamo noi uomini che spesso le rendiamo tali.
Guarda
questa finlandese: una donna autentica, una creatura spirituale che ti mette
addosso la vergogna di essere rozzo e sozzo, egoista, immaturo e ti fa crescere
con l’esempio di un comportamento, di uno stile elevato”.
Quindi le
dissi: “Elena, oltre all’amore e al rispetto, io per te provo ammirazione
poiché tu sei capace di aprirmi ogni giorno nuovi spiragli sull’anima mia.
Davvero tu non sei soltanto né soprattutto materia, anche se bella. Prima di
tutto sei spirito: mente, cuore, stile sei.
La tua
parte materiale è spiritualizzata, mentre lo spirito traspare nelle tue forme,
tesoro.
Ti
prego, non andare via, non lasciarmi troppo per tempo, ante diem, amore
mio! Da te ho imparato più che dai libri. Quello che tu mi hai insegnato lo
insegnerò. Quod didici, docebo”.
Così,
con l’amore, le contraccambiai pure il latino.
Rispose
con un sorriso di gratitudine e gioia. Qualche giorno più tardi mi rese felice
dicendo che mi amava anche perché, quando ne avevo avuto l’occasione e la
possibilità, non le avevo fatto del male. Come fa la canaglia di tutte le
classi sociali, le caste, le religioni, i partiti.
Così la
sera del 4 di agosto del 1971 io le chiesi perdono e facemmo la pace, poi
parlammo a lungo e facemmo l’amore; quindi tornammo a ballare sulla terrazza, a
festa quasi finita. Eravamo felici. Prima di andare a dormire ciascuno nel suo
edificio del grande collegio immerso nella grande foresta di Debrecen,
passeggiammo in mezzo alle piante strane dell’orto botanico. Volevamo ancora
insieme, sebbene oramai l’alba cedesse all’aurora.
Elena
cantava: “Summertime and the living is easy, fishes are jumping and the
cotton is high”, con voce calma e calda; e bruna com’era, vestita della
tunica di lino bianco, calzata di sandali neri con fibbia, sembrava un’antica
poetessa greca che recita una sua lirica in lode della bella stagione,
dell’amore e della vita.
“La terra
è in mezzo alle stelle che ora si spengono nel bianco rosa del cielo, mentre il
tuo volto si illumina”, pensai.
“Il
ricordo di te durerà quanto i moti degli astri nel cielo, e il nostro amore
sarà l’eredità delle nostre vite”, le dissi.
Quel momento, verso le tre del mattino, è stato uno dei più chiari e luminosi di mia vita mortale.
Mentre la
donna rischiarandosi alle rosee carezze di quell’aurora lontana, celebrava
l’estate e la nostra felicità con limpido canto, la luce crescendo e
propagandosi ovunque, mostrava la bellezza ordinata della vita terrena e io me
la sentivo fluire dentro, nei polmoni e nel sangue pulsato dal cuore pieno di
gioia. Avvertivo il richiamo dell’arte che è fusione di bellezza, bontà e
verità.
Tutte le
piante, i fiori e le erbe dell’orto botanico si vivacizzavano: i campanellini
dell’Heuchera sanguinea trillavano di felicità, la Campanulacarpatica brillava
di luce azzurra, e la Tunica saxifraga dal carneo colore
danzava nella brezza mattutina al canto della donna innamorata.
Sentivo
l’ordine del cosmo e sapevo che il nostro amore ne faceva parte, contribuiva a
formarlo. Respiravo con il mondo: ero entrato in quella unità, che è secondo
natura, della mia persona con l’universo. Credo che sia questa la quintessenza
della felicità.
“L’amore
è la vita, l’amore è Dio”, pensai. “Un dio tanto umano da rendere divine le sue
creature più buone e più belle, più simili a lui.”
Ancora
oggi, dopo 45 anni, se per caso sento una voce femminile cantare quell’aria di
Gershwin, rivedo l’estate di Debrecen con il grande bosco di alberi sacri, le
querce dodonee che accarezzano le stelle del cielo, rivedo i salici che,
piegati sul lago, vellicano le schiene purpuree dei pesci, rivedo le farfalle
variopinte che danzano, la vegetazione strana dell’orto botanico, rivedo le
membra di un bianco luminoso, i neri capelli, il volto dolce e intelligente, lo
sguardo bello e buono di Helena Sarjantola che quell’estate remota, con parole
piene di significato, con lo sguardo espressivo e penetrante, con la figura ben
modellata da quel sommo artista che è Dio, mi mostrò l’idea eterna della
bellezza corporea armonizzata con la nobiltà dello spirito.
Domenica 22 agosto 1971, quando partì dalla Keleti Pályaudvar, la stazione orientale di Budapest, lasciandomi l’immortale memoria di sé, prima di salire sul treno celeste chiaro, come i laghi e il cielo un poco sbiaditi della sua terra, Elena mi ringraziò di non essere stato cattivo, né volgare, né stupido con lei. Le promisi che non lo sarei stato mai più con nessuno, perché con lei mi ero sentito bene, ero stato, finalmente, me stesso. Le ripetei le parole dette da Odisseo a Nausicaa al momento del congedo: tu di fatto mi hai salvato la vita, ragazza.
Non ho
sofferto per la sua sparizione, forse perché il desiderio ardente di quella
donna, più che brama carnale del suo corpo era un bisogno struggente di
identità da definire e completare grazie a lei.
Quel 22
agosto Elena aveva già compiuto la sua funzione “storica”.
Dopo
la partenza del treno non l’ho più vista, nemmeno quando, nel settembre del
1974 andai a Yväskylä a trovare Päivi che aspettava una bambina da me. Eppure
l’ho sempre pensata come la creatura preziosa che contraccambiando il mio amore
per prima mi ha insegnato ad amare la vita, a credere nel Bello e nel Bene, ad
avere fiducia in me stesso, a diventare quello che sono, qualunque piccola,
poca e povera cosa io sia.
Yväskylä |
Comunque
corrispondente alle mie aspirazioni commisurate alle mie qualità.
Nei
momenti più tristi e desolati di questa mia vita terrena, quando altre persone
mi hanno deluso o tradito, da Päivi che incinta di me, e forse, ancor più
gravida di dubbi che del bambino, dopo l’ultimo incontro in Finlandia non mi
mandava notizie, a Ifigenia, la figlia spirituale che la notte atroce del pozzo
di Vernicino, volle gettarsi nell’abisso della propria rovina, sempre mi sono
rifugiato nel ricordo della notte felice in cui Helena mi insegnò ad aborrire
dall’ingiustizia; poi, mentre il sole spuntava sul giardino di quel paradiso e
versava le prime luci della sua bellezza inesausta, lei con angelica voce
cantava che la vita è bella, serena, meritevole di riconoscenza al Creatore,
degna di essere vissuta in pieno, con gioia.
E se dopo
questa mirabile vita terrena, potremo viverne un’altra in mezzo alle stelle del
cielo, o se avremo una seconda possibilità qui, su questa bella terra
illuminata dal sole, io spero di incontrarti ancora, Elena, amore mio, e di
amarti di nuovo.
1. Cfr.
Seneca, non habemus illos hostes sed facimus (Lettere a
Lucilio, 47, 5), non
abbiamo quelli (gli schiavi) quali nemici, ma li rendiamo tali.
2. Odissea,
VIII, 468 Su; ga;r mj ejbiwvsao, kouvrh,
3. Come
ha raccomandato di recente papa Francesco: "non abbiate paura della
gioia!". Parole sante. Le aveva già scritte Strabone il quale nella
sua Geografia (redatta nei primi anni del regno redatta nei primi anni del
regno di Tiberio) afferma che gli uomini imitano benissimo gli dèi quando fanno
del bene, ma, si potrebbe dire anche meglio, quando sono felici (" a[meinon d j a[n levgoi ti",
oJvtan eujdaimonw'si",
X, 3, 9) .
4. Non sono
d’accordo con gli estremisti del laicismo, compresa la peraltro buona e brava
Margherita Hack, i quali che escludono questo “se” cruciale. La penso come il
buffone di corte Touchstone, Pietra di paragone, che nella commedia
pastorale As you like it di Shakespeare sentenzia:
"'If' is the only peace - maker: much virtue in 'If' "
(V, 4) , "Se" è l'unico paciere: c'è molta virtù nel "Se".
FINE
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