Al tocco, durante l’ora del desinare, telefonò Ifigenia. Andai a rispondere con una corsa perché non venisse intercettata. Era lei.
Disse che aveva iniziato le vacanze nel migliore dei modi: frequentando gli amici di una sua cugina simpatica. Conosceva ogni giorno diverse persone nuove. Alcune non erano male per niente. Ma sopra tutti aveva trovato interessante un ragazzo che la sera prima l’aveva fermata per strada, davanti alla Standa di via Rizzoli. Sembrava dotato di una gran fantasia oltre che di una buona educazione. Perciò non si era sentita di negargli il numero di telefono quando glielo aveva chiesto con garbo.
“Ti ha domandato con garbo anche di quale colore avevi le mutande?”
“No perché?”
“Perché se gli piacevi davvero, te lo chiedeva, come ho fatto io. Comunque prova a vedere che cosa succede. Se son rose profumeranno”
“Sei geloso?”
“No, perché se mi ami, hai detto quello che hai detto solo per ingelosirmi, se non mi ami vai pure con chi ti pare. Vedi come va e fammi sapere. Ti saluto perché sono a pranzo con le mie zie”.
Riattaccai senza aspettare la sua risposta.
La scena era stata ignobile, indegna di me. Frequentando le persone volgari ci involgariamo. Avevo mantenuta calma e freddezza ma ero agitato come un raggio di luce lunare che vibra e guizza sull’acqua.
O come una mosca che ci zampetta dentro.
Mi appoggiai a una parete prima di rientrare nella cucina perché le zie non mi vedessero piegato in due dall’angoscia. Sbagliavo. Di una donna così bisognerebbe disamorarsi, anzi schifarsi subito. Anni dopo, educato dal doloe, ne ho lasciata un’altra appena ha tentato di ingelosirmi. La gelosia è una piovra dai cento tentacoli, è un’idra di Lerna cui ricresce ogni testa appena tagliata, è un mostro ingordo che si fa beffe del cibo che inghiotte e ne chiede sempre dell’altro. Non dovevo cascarci. Le tre finniche mi hanno lasciato, ma finché sono state con me non permettevano ad altri di corteggiarle. “Costei è plebea” nell’anima mi dissi.
Poi, ripreso il controllo di me stesso tornai dalle zie. Se avessero letto nel mio viso il travaglio interno, avrebbero detto: “Così smetterai di preferire la gente strana, e sceglierai una collega brava, illibata di buona famiglia. Così imparerai a non confonderti con quelle ragazzacce che ti succhiano il sangue e magari te lo avvelenano”.
Mi avrebbero dato il colpo di grazia con queste parole non tutte prive di senso ma non le dissero quando mi videro rientrare con una maschera ferrea sul volto. Non se la sentirono di chiedermi perché avessi assunto quel travestimento facciale, persona tragica, ma avevano capito, perché non erano stupide e di rapporti umani dolorosi si intendevano. Dopo qualche minuto ripresi a sorridere e il pranzo terminò.
Pesaro 17 settembre 2024 3 ore 11, 09 giovanni ghiselli
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