Mentre cenavo nella sala affollata da una masnada di tedeschi biondi, grossi e chiassosi, un cameriere venne a dirmi che c’era una chiamata per me. Corsi alla cabina telefonica perché in quella età geologica il cellulare non esisteva. Del resto ne faccio volentieri a meno anche oggi.
Era Ifigenia che telefonava da Ozzano dove era andata a trovare due conoscenti e si annoiava perché aveva poco da dire con loro e le mancava la mia presenza.
Mi venne in mente Päivi che, partita da Debrecen, appena arrivata a Danzica mi scrisse “I miss you”, e pochi mese più tardi mi ributtò dicendo I don’t want to see you”. Ifigenia ci avrebbe messo di più a rigettarmi, ma io, come Tiresia, ho sempre presofferto tutto e proprio per questo me la sono cavata. Il dolore ci rende saggi certamente dopo che lo abbiamo attraversato, ma non possiamo varcarlo se non lo abbiamo previsto.
Il ricordo del voltafaccia della mia terza finlandese, quella che aspettava un figlio da me e non lo mise al mondo, non mi consentì di rallegrarmi della telefonata di Ifigenia. “Nisi forte rebus cunctis inest quidam velut orbis” pensai
Oltretutto la ragazza, che aveva proprio la stessa l’età di Päivi nel 1974, mi chiese di tornare a Bologna appena possibile. Lei vi sarebbe rientrata la mattina seguente: non ne poteva più della gente zotica di quel mortorio di Ozzano, davvero una moribunda sedes!, disse. Del resto anche a Bologna, aggiunse, si sarebbe annoiata senza di me e la mia loquela onesta.
Mi sentìi imbarazzato. Non volevo anticipare il ritorno rinunciando al mio girovagare per un altro paio di giorno sotto i monti elaborando i dolori di ulcere antiche e di ferite recenti. Risposi a bocca stretta che sarei tornato presto siccome anche io mi sentivo dimidiato. Intendevo diviso in due parti ma non glielo dissi. Né le dissi che mi mancava la sua presenza perché so dissimulare ma non riesco a simulare. Avevo l’angoscia e la salutai senza aggiungere altro. Non mi aveva convinto dicendo solo male delle persone che la ospitavano. Perché ci era andata? Perché ci era rimasta? Mi nascondeva qualcosa.
Dopo la cena trangugiata con rimorso e con rabbia, uscìi nella notte. Il cielo brillava di stelle dalla luce vivace. Pensai che il mio veleno non doveva attoscare altre persone: mi si addiceva la solitudine.
Camminai su per la strada del San Pellegrino fino alla base delle piste sciistiche del Lusia. Verso le dieci, tra gli alberi non tanto fitti che coprono la schiena dell’umano Piz Meda apparve la luna, Artemide o Diana che dire si voglia: i suoi raggi disegnavano chiazze di luce bianchissima tra le ombre azzurre del bosco. Un abete che si stagliava davanti alla figura della diva sembrava essere entrato in lei come una mentula sfacciata per fecondarla dopo avere violato la sua castità. La mia coscienza sporca vedeva stupri dovunque. Mi voltai verso la valle di Fassa e osservai le anguste convalli, i burroni, le gole, le balze, le cime dei monti, il cielo e le stelle. Volevo purificarmi ritrovando il paradiso perduto della natura.
Certe incavature dove già spuntava l’erba mi ricordavano la vagina di Ifigenia, alcuni dossi bruni di cespugli, la sua bella testa con i capelli neri neri e odorosi, certe rocce erano uname e ben fatte, altre deformi e bestiali, alcune stelle più luminose, altre più opache, il cielo a mezzo il giorno era stato obeso, sdilinquito e deprimente, di notte era splendente, snello, frizzante e mi invitava a imitarlo. “Ritrova la tua energia- mi dissi- recupera il compiacimento che hai di te stesso nei momenti migliori! Domani vai a correre o a sciare. Esci da questo veternus che ti intorpidisce e amareggia! ”
Pensai: “nella natura c’è tutto e Ifigenia è naturale, perciò anche in lei c’è il bello e c’è il brutto, c’è il bene e c’è il male, c’è intelligenza e idiozia. Se la amo devo accettarla com’è. Nell’insieme è una creatura riuscita piuttosto bene al fuoco artista che procede metodicamente alla creazione”. Tornai nella mia stanza un poco riconfortato
Pesaro 20 settembre 2024 ore 19, 39 giovanni ghiselli
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