Tornai nell’albergo un poco riconfortato. Prima di mettermi a letto rilessi e e ritoccai un paio di volte il mio riassunto dei Fratelli Karamazov che quattro giorni più tardi avrei dovuto recitare ai miei alunni leggendo il meno possibile. Provai anche l’actio : il tono e l’espressività della esposizione. Quel grande romanzo mi appassionava perché potevo identificare me stesso in un paio dei fratelli e Ifigenia nella Gruscenka.
Dostoevskij mi influenzava con i suoi personaggi estremi. Mi giustificava anche. Mi sentivo moralmente ubriaco come il sensuale, assatanato Dimitri e Ifigenia nella mia testa diventava la donna il cui corpo flessuoso e infernale lo faceva languire prima che riuscisse a scovarne l’anima e a trasfonderla nella sua. Il desiderio carnale lo torturava finché all’amare non si aggiunse il bene velle.
Anche il santo Alioscia però potevo trovare in me stesso. Come ho raccontato nel primo romanzo, Elena la donna amata più e meglio tra le mie amanti, prima di partire dalla stazione orientale di Budapest disse che non mi avrebbe mai scordato perché ero stato buono con lei dopo che si era affidata a me senza conoscermi bene. Tuttavia aveva capito subito che non ero cattivo e non si era sbagliata: una sera, per accrescere il mio piacere e il numero delle conquiste avrei potuto farle del male: a una festa c’era una ragazza francese che mi piaceva e manifestava per lo meno simpatia nei miei confronti, perciò avrei potuto corteggiarla e ne fui tentato, ma come mi accorsi che il mio vezzeggiare quella giovanissima dispiaceva a lei, la donna conquistata con tante parole piene di amore, avevo lasciato perdere la luccicante, liscia fanciulla e avevo chiesto scusa alla donna matura che si era fidata di me.
“Ti sei vietato un piacere per non danneggiarmi”, disse.
“Non ne sono pentito, anzi ne sono fiero”, risposi. “Nemmeno io dimenticherò mai il nostro amore”. Ho fatto di più: ne ho creato un mito.
Tre anni più tardi, una Ciuvassa russificata, Faina, che faceva l’interprete a Budapest, mi disse: “tu non sei debole come talvolta vuoi apparire. Tu sei forte come Aliosci dei Karamazov e sei buono come il principe idiota geniale dell’altro romanzo che amiamo”.
“Infatti non sono cattivo” mi ripetevo la notte della resurrezione di Cristo crocifisso o di Adone ucciso dal dente letale di un cinghiale feroce.
“Non sono cattivo, però dopo le tre finlandesi non sono più stato capace di amare. Ora non riesco a fidarmi di questa giovane che pure mi piace e mi dona tanto piacere da rendermi trasognato e trasecolato”.
La mattina di Pasqua mentre suonavano le campane della Chiesa di Moena posta davanti al cimitero dove già riposavano alcuni vecchi osservati quando ero bambino, Ifigenia telefonò e mi pregò di tornare subito a Bologna perché lei non poteva più stare senza di me.
Ci incontrammo verso sei davanti alla libreria Feltrinelli. C’era ancora il sole nel cielo. In aprile il dio tramonta già nella grande pianura e non c’è colle né monte che ne invìdi la vista come fa il Sass da Ciamp a Moena tutto l’anno tranne il mese di giugno, nelle notti meno lunghe del paese fassano.
Ifigenia si era fatta tagliare i capelli e sembrava ancora più giovane della sua età. Era luminosa quanto la neve che luccica e potenzia la forza del sole nel mese di aprile, più ridente dell’erba rinascente sui prati nel tempo della resurrezione di tutta la vita, più lieta dei fiori sbocciati sui rami degli alberi della pianura e dei colli. La vidi con piacere nonostante mi fosse costato parecchio tornare anzi tempo. Come l’ebbi osservata e studiata bene, recuperai la ragione e pensai che una ragazza tanto appetibile poteva trovare tanti maschi quanti ne voleva, di ogni età e condizione; che io d’altra parte non ero un affare dal punto di vista economico ed ero meno giovane e meno bello di lei, sicché dovevo essere tutto contento del suo amore che non era una negotiatio ma un dono gratuito di lei e di Dio chiunque egli fosse . Soprattutto del Sole il primo fra tutti gli dei, la santa faccia di luce che nutre la vita.
Così la peste contratta dalla pessima educazione che colpevolizza la gioia amorosa era sconfitta.
Avremmo celebrato il trionfo facendo l’amore più e più volte.
Pesaro 20 settembre 2024 ore 20, 14 giovanni ghiselli
Ora andrò al teatro Rossini per ascoltare il vecchio e bravo attore pesarese che recita il De profundis, l’Epistola in carcere et vinculis di Oscar Wilde.
Non ho con me qui a Pesaro questo testo ma ricordo queste parole che ho fatto entrare nella categoria del tw`/ pavqei mavqo~: ““La sofferenza, per quanto ti possa apparire strano, è il nostro modo di esistere, poiché è l’unico modo a nostra disposizione per diventare consapevoli della vita; il ricordo di quanto abbiamo sofferto nel passato ci è necessario come la garanzia, la testimonianza della nostra identità”[1]
Poi queste che mi autorizzano a non essere pratico.
Oscar Wilde nel De Profundis (del 1897) lo identifica con il filisteo nemico della spiritualità. Cristo “capì che gli uomini non dovevano prendere troppo sul serio gli interessi materiali, quotidiani; che non essere pratici è una gran cosa; e che non occorreva angustiarsi eccessivamente per gli affari…la guerra più dura la muoveva ai filistei. La guerra che ogni figlio della luce deve combattere. Tutti eran filistei nel tempo e nella comunità in cui viveva. Nella loro cieca incapacità d’accogliere nuove idee, nella loro ottusa rispettabilità, nella loro tediosa ortodossia, nel loro culto dei meschini successi, nel loro preoccuparsi esclusivamente del lato grossolano, materiale dell’esistenza, nella loro ridicola presunzione e vanagloria, gli ebrei di Gerusalemme al tempo di Cristo corrispondevano esattamente ai nostri filistei britannici”[2].
Pesaro 20 settembre 2024 ore 20, 35 giovanni ghiselli
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