Ifigenia XII. Le preghiere al sole. Il bacio.
Mentre osservavo l’ultimo spicchio di sole cadere sotto l’orizzonte, mi tornarono in mente le preghiere di tanti giorni sereni: quando osservavo il tramonto dal mio studio dove avevo passato la mattina e buona parte del pomeriggio impegnato sui classici greci e latini, o quando scorgevo il dio luminoso che si annidava accarezzato da lievi, sereni venti estivi, mentre tornavo a casa in bicicletta alle nove di sera dopo avere scalato il colle di san Luca o la Croara sul monte Calvo o il monte Donato con impegno delle forze fisiche e mentali, o quando lo vedevo declinare nel cielo degli stadi dove spremevo tutte le energie correndo i 5000 metri nel minor tempo possibile, oppure ero sul molo del porto di Pesaro e lo vedevo calare nel mare a nord ovest del grattacielo di Rimini, e se ero solo, non mi saziavo di lacrime. Osservando i tramonti precoci dell’inverno o quelli meravigliosamente lunghi e attardati della stagione bella, sempre ho pregato la santa faccia del dio luminoso e non gli ho mai chiesto i miseri quattrini per gonfiare il ventre di cibo in ristoranti esosi, o per dormire in alberghi costosi, o comprare vestiti firmati; nemmeno il potere di fare del male agli altri ho mai chiesto nelle orazioni alla Mente dell’Universo, al primo tra tutti gli dèi, alla fiamma che nutre la vita, bensì amore, l’amore di una donna bella, fine, colta, intelligente, e non una volta sola Elio mi aveva esaudito; ed ecco che mentre ancora una volta il 28 ottobre del 1978 lo vedevo annidarsi, potevo rendergli grazie di avermi fatto ottenere la borsa di studio meritata con le grandi fatiche psicofisiche e le tante preghiere dirette a lui che porta la più evidente significazione di Dio.
Tramontato il sole, tornammo a Bologna. Quando ci salutammo dentro la Volkswagen a 300 metri da casa sua perché il cerbero di guardia non la vedesse accompagnata da un uomo, Ifigenia mi chiese un bacio. Trovai il coraggio di darglielo e riuscii a gustare l’aroma di quel frutto freschissimo: una prugna bruna bruna, inumidita da qualche goccia tiepida caduta da chissà dove rapida e fuggitiva, o una fragola ancora variegata di verde e profumata di bosco.
Ifigenia XIII. Il conto della perdita e del profitto. Il pauroso gesuita ritrosetto. Il molosso: nequiquam.
Dopo averla baciata, alla beatitudine succedette la paura. Paura di che? Dei morsi del cane bicefalo appostato a poche centinaia di metri? Della povertà conseguente al mancato sostegno familiare? Magari se mi fossi messo con Ifigenia e l’avessi portata a Pesaro ci avrebbero cacciati quali due peccatori dissoluti impudenti, e a me avrebbero fatto pagare l’affitto della casa che mi avevano comprato a Bologna.
“Non devi trasformarla in un casino, o guai a te” mi avevano detto. “Abbiamo avvertito il prete del Fossolo di tenerti d’occhio”. Il curiale era venuto un paio di volte a bussare ma, riconosciuto lo spione dallo spioncino, non gli avevo aperto la porta, mettendolo certamente in sospetto.
Magari arrivava una zia e a questa avrei dovuto aprire.
In effetti tre anni più tardi venne la più anziana detta la badessa da sua madre e controllò le lenzuola del mio letto, grande e capace.
Sarebbe arrivata la povertà, quella vera, se mi avessero trattato da affittuario. Sicché feci una mezza marcia indietro e quando Ifigenia mi disse: “ti amo tanto!”, le risposi : “io abbastanza”. Ci rimase male e si allontanò un poco ingobbita.
Tornai a casa rattristato anche io. Non erano nemmeno le sette di sera ed era già notte. Il sole mi aveva tolto il suo favore, sicché ero caduto in disgrazia. Senza il conforto del dio luminoso avevo perduto il sostegno del mio difficile procedere sulla via del chiarimento di quanto volevo.
Certo, desideravo portarmela a letto, magari congedando le altre due che non potevano reggere il confronto con lei per l’aspetto assai meno lepido e l’età più avanzata. Ma quelle mi portavano a casa prelibatezze varie preparate da loro, questa, a quanto avevo capito, non sapeva fare nemmeno un uovo sodo. Per giunta aveva un marito grosso e ringhioso come un molosso che poteva azzannarmi con quel ceffo e quei denti forti, lunghi da cane sanguinario. Non so se i suoi denti siano davvero lunghi perché davanti a cani siffatti fuggo via spaventato ma nella metrica antica il molosso è un piede formato da tre sillabe lunghe: nequiquam per esempio.
E i cerberi della mia scuola si sarebbero astenuti dall’abbaiare vedendoci amoreggiare?
Insomma la ragazza era deliziosa ma io potevo rovinarmi attraverso una relazione con lei. Sicché, afflitto dal buio del cielo e da quello della mia povera mente, mi chiedevo: “posso azzardare un assenso alla sua e alla mia concupiscenza?”. Non ne ero sicuro.
D’altra parte era arrivato il tempo di decidere se valeva la pena di correre il rischio, se non volevo perdere del tutto l’intraprendente bella ragazza che aveva mille altre possibilità, e non mi avrebbe permesso di eludere ancora la sua richiesta già iterata.
Ed io senza essere né andaluso,né giovinetto né bello ero rimasto tutte le volte piuttosto ritrosetto da pauroso gesuita qual sono
Ifigenia XIV. La preparazione meticolosa dell’evento.
Martedì 31 ottobre, a scuola, le diedi appuntamento per il giorno seguente, alle tre del pomeriggio, davanti alla libreria Feltrinelli.
La mattina del primo novembre mi accinsi all’incontro erotico che avevo deciso di proporre alla bella giovane donna come se avessi dovuto affrontare una difficile competizione sportiva premiata con un attestato dal valore trascendente quello dell’oro; una medaglia che anzi avrebbe ricevuto valore dalla mia vittoria in questo agone davvero olimpico e anche pitico e istmico e nemeo: una gara nel significato più alto.
Dovevo gareggiare con me stesso per superare ogni dubbio: mostrarmi sicuro, lieto e forte: infondere piacere e sicurezza nella ragazza davvero bella, io che tuttalpiù ero un lepido moretto nemmeno di primissimo pelo.
“Se vinco-mi dissi- conseguo un trionfo sulle debolezze, le meschinità e le miserie di questa mia esistenza inficiata da una sconfitta lavorativa e intrisa di caos mentre vorrei condividere l’ordine della mente divina ordinatrice del cosmo. Sintonizzata con la bellezza del cosmo, almeno fisicamente, è Ifigenia e ne trarrò ispirazione, forza e salute”.
Quella mattina dunque volevo
che il primo convegno amoroso tra noi riuscisse nel migliore dei modi. Perciò
chiamai una brava fantesca perché ripulisse con cura l’appartamento,
soprattutto la stanza da letto e il bagno, poi andai a girare in bicicletta sui
colli, nonostante la pioggia del resto leggera, faticando abbastanza per sudare e purificami, ma non tanto da
restare a corto di energie che sarebbero state preziose ne pomeriggio per le
tante repliche che avevo messo in programma se la ragazza avesse accettato di
salire nel santuario del letto per compiere l’orgia sacra con me e replicarla
più volte. Quindi mi lavai meticolosamente ogni parte del corpo e pur
nutrendomi a sufficienza, evitai di appesantirmi; quando infine mi vestii per
l’incontro scelsi un paio di mutande nuove, azzurre quanto il cielo di aprile.
Ero emozionato come se avessi dovuto affrontare il primo incontro amoroso,
mentre in realtà ripetevo un rito che, almeno materialmente, avevo compiuto già
diverse volte, contando la prima con ciascuna delle mie amanti. Ma Ifigenia era
anche altro: era figlia, allieva, mito e poesia. Era Silvia di Leopardi
risuscitata, era Nerina, era la bella Armida di sua forma
altera,
e de’ doni del sesso e dell’etate, era Elena, era Margherita, era Angelica, era Natascia, insomma era
l’amore di tutte le donne più belle e care incontrate nella vita e sui libri.
Ifigenia XV. La Kore attica.
Ifigenia arrivò con la solita aria contenta, invitante, tanto che mi diede il coraggio di chiederle a bruciapelo se volesse venire subito a casa mia.
“Andiamoci tosto!”, rispose senza esitare, anzi con allegria.
Durante il percorso in automobile ci fu un leggero imbarazzo nell’attesa dell’evento fatale che poteva cambiarci la vita, forse in meglio. Facevamo commenti inutili sullo stato del tempo che non era buono: scendeva una fredda pioviggine da un cielo assai basso e oscuro. Quando fummo entrati in casa, per prima cosa la guidai nello studio. Qui le indicai i miei non pochi libri di letteratura, storia, filosofia, religioni, arte per un tempo non breve, come se lo scopo della visita fosse vedere la biblioteca del professore. Invece avevamo già deciso entrambi di entrare nel mio letto quel pomeriggio stesso. Il tempo a sua disposizione non era più lungo di tre ore, sicché sedetti presto sul divano posto di fianco al tavolo grande dei miei assidui lavori, la guardai con aria invitante e distesi verso di lei le braccia con le mani aperte, piene di desiderio. Mi stava davanti, in piedi: teneva la mano sinistra appoggiata sul tavolo e la destra aderente alla coscia. Mi osservava fissamente, con curiosità. Nella sua posizione eretta, immobile e un poco rigida, nel volto pallido orlato dai folti capelli neri e animato da un sorriso sottile eppure profondo nel senso che sgorgava dai penetrali del corpo e dell’anima, nella veste lunga e piegata come la colonna scanalata di un tempio, c’era qualcosa di religioso e di antico, o per lo meno io lo vedevo in quel momento solenne: mentre la guardavo ammirato mi venne in mente una Kore attica chiusa nel peplo, statica e intangibile, ma dalle labbra vibranti di vita e prossime a schiudersi per manifestare un pensiero. Dopo qualche istante di contemplazione muta, le domandai se avesse paura di posarsi accanto a me sul divano. Rispose di no e sedette abbastanza vicina. Le presi la mano destra, gliela accarezzai, la baciai, poi le baciai la bocca. Quindi le dissi: “ andiamo di là”. Ci alzammo senza dire altro e facemmo il nostro ingresso nella stanza del letto. Ci stendemmo trasversalmente, in fondo al talamo grande, vestiti. La baciai di nuovo, quindi le domandai se preferiva svestirsi senza che io la guardassi
“No. Anzi: spogliamoci subito insieme e nel farlo osserviamoci bene a vicenda perché questo momento è epocale, segna l’inizio di un’era nuova delle nostre vite e noi siamo felici come non siamo stati mai. Io almeno non lo sono mai stata così”
“Anche io sono proprio felice”, la assecondai
Pesaro 12 settembre 2024 ore 18, 15 giovanni ghiselli
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