domenica 8 settembre 2024

Il "Grande" Hotel di Riccione.


 

Argomenti

Il disagio di entrambi.

L'annunzio di futuro danni . Non si deve recalcitrare al destino.

 

L'ingratitudine

palese. La sera nella  cucina sconvolta: i quattro budini gelati ammolliti con la fiamma bluastra

del gas.

 

Giovedì 11 giugno accompagnai Ifigenia a Riccione, al Grand

Hotel. C'era un convegno sul teatro: in quell'albergo monumentale

si stavano riunendo  attori, registi, giornalisti, e una commissione

giudicatrice che la

sera seguente doveva

assegnare il

trentacinquesimo premio nazionale Riccione/Ater per il teatro.

Partecipavo al concorso cui avevo inviato, secondo la prescrizione

del bando, dieci copie dattiloscritte del mio pezzo teatrale. Poco

prima di partire, attraverso una telefonata, seppi di non essere stato

selezionato tra i quattro migliori. Ci rimasi male, ma non persi la

convinzione che il mio lavoro, sebbene breve, scritto in fretta, e

didascalico, fosse bello. Si vede che i drammi scelti erano

ancora più belli. Oppure la commissione non aveva giudicato secondo il

criterio del bello, ed era corrotta come la scuola descritta nella mia

tragedia, come quasi tutto in quei tempi bui. Comunque l’ho

trascritta in questo romanzo, e sarai tu a giudicare se vale

qualcosa, lettore.

Ifigenia fu comprensiva e gentile quando, prima di passare da lei

 per portarla a Riccione, le telefonai per dirle che non ero

entrato nella rosa dei selezionati.

"Non dubitare di te”, mi incoraggiò. “Il tuo lavoro è servito a farci

capire che sai scrivere bene, con forza. Ora però devi impiegarla in

un'opera più grande, più degna di noi. Non perdere fiducia in te

stesso".

"No, no-promisi-. Anzi, sono sempre determinato a scrivere:

voglio rifarmi di questo insuccesso".


 

 

 

"Un insuccesso solo momentaneo, vedrai!"

Sì certo. Ora vengo a prenderti".

Erano le cinque e mezzo di un pomeriggio afoso, umido e ventoso.

Il cielo era trascorso da una nuvolaglia bianchiccia, inquieta,

eppure monotona, come una persona nervosa e molesta. Il sole

andava e veniva.

Partimmo da casa sua intorno alle sei. Alle otto e mezzo alcuni

allievi attori già convenuti là, avrebbero recitato un dramma di

Pirandello in una sala del vecchio albergo. Ifigenia non

partecipava ma voleva vederli. Poi sarebbe rimasta tra loro, mentre

io sarei tornato a Bologna di notte poiché la mattina seguente

avevo lezione.

Arrivammo verso le sette. La cittadina non era ancora gremita di

gente in vacanza. Andammo a fare due passi sulla riva del mare.

Mi vennero in mente frasi del libro che stavo leggendo: "Non eravamo in un angolo dell'arcipelago greco, non c'erano

 glauche onde carezzevoli, isole e rocce, né una spiaggia

fiorita con un magico panorama in lontananza e l'invito del sole

morente "[1].

L'acqua incalzata dal vento era agitata e torbida, come

 

una donna isterica, dalle intenzioni non chiare.

Poi ci sedemmo a un tavolino del corso. Ordinammo due coni.

Ifigenia parlava poco e di malavoglia. Niente di interessante e

vivo diceva. Io non sapevo che  cosa rispondere. Per lo più tacevamo.

Leccavamo il gelato grosso, non buono, e guardavamo il

passeggio nella celebre via  percorsa dal turistame che mi rattristava, come sempre.

Sorbivamo la

poltiglia fredda e dolciastra adagio, per fare passare il tempo. Mi

sentivo un anziano in pensione. Nell'aria salata e appiccicosa c'era

una stanchezza mortale, un'afa di putrefazione. Non avevamo più

idee, sentimenti né interessi comuni.

Ifigenia voleva inserirsi nell'ambiente dei convenuti a "Le

Grand Hotel", e io le pesavo; lo capivo, mi sentivo a disagio e,

nell'imminenza della catastrofe pur necessaria, avevo paura. Come

succede prima di un'operazione chirurgica, anche se sai, o speri,

che ti ridarà la salute. Di questo però non si poteva parlare, poiché

lei dissimulava. Se le avessi fatto notare qualcosa del nostro

disagio, avrebbe detto:"Gianni, io ti amo tanto, tanto. Hai capito?"

3

Cfr. I Demoni di Dostoevskij, trad. it. Garzanti, Milano, 1973, p.453.


 

 

 

Come fece qualche ora più tardi, mentre il suo comportamento

manifestava tutt'altro che amore.

Eravamo sempre seduti sulla strada famosa percorsa da turisti

precoci eppure già avviati alle decomposizione. La via del passeggio riccionese  si chiama con un nome che finisce

in “ini”, ma non voglio ricordarlo poiché mi disturbano gli

imbecilli che, per farsi considerare uomini di mondo, di vita

allegra e ricca, sfoggiano la conoscenza toponomastica di tali

località sacre per loro, Gerusalemme o Mecche delle vacanze,

posti squallidi generalmente, frequentati da pezzenti mentali,

secondo me. Beninteso io scrivo male di Riccione anche perché vi

ho subito una delle più grosse frustrazioni della mia vita.

Restammo fissi là fino alle otto e qualche minuto. Poi finalmente

arrivò l'ora di muoversi per vedere la recita. Del resto fu una cosa

noiosa. Finita questa, Ifigenia andò a congratularsi con i

compagni e rimase a parlare con loro. Li osservavo da qualche

metro e ne ascoltavo i discorsi, naturalmente giovanili, sebbene

alcuni si dessero toni da persone già vissute e un poco bruciate. La

mia compagna era agitata: faceva battute nel gergo degli zingari dionisiaci,

chiedeva quale fosse il programma dei giorni seguenti, voleva

sapere chi sarebbe arrivato tra i famosi in odore di frequentare

l'ambiente del premio.

Mi sentivo sempre più a disagio, e di impiccio per lei. Rimasi lì

dieci minuti, poi mi scostai senza dire niente, né salutare, in

quanto nessuno badava a me, come giusto. Però, altrettanto

giustamente, ero pentito di essere andato a Riccione. Volevo

tornare a Bologna quanto prima. A casa mia, ai miei libri, ai

bambini di quarta ginnasio. Era tutto più autentico.

Uscii. Camminai per dieci minuti nel buio del vasto giardino.

L'albergo visto da fuori e da sotto sembrava più malandato che

mai: incrinato quasi, e prossimo a crollare lì sulla ghiaia grigia dei

viali.  La casa degli Usher.

Sul pensiero confortante che era l'inizio dell'estate, prevaleva il

presentimento terrificante che finiva un'era per me, quella di

Ifigenia la bella; che dovevo cambiare vita ancora una volta,

restare solo chissà quanto tempo. Dovevo affrontare un'altra morte

per arrivare a una nuova nascita. E la morte, anche se vi si giunge

soltanto quando si è esauriti e stremati, è sempre una cosa


 

 

 

inquietante, anzi la più inquietante-deinovnaton- giacché nell'ora estrema non possiamo sapere cosa

saremo dopo la nuova genesi. Se pure ci sarà.

Nel giardino semibuio c'erano altre rappresentazioni poco seguite.

Tra fiochi fasci di luce andavano e venivano alcune persone. Mi

tornò in mente l'affaccendarsi di quelli che bazzicavano il festival

del Cinema Nuovo di Pesaro negli anni Sessanta. Chi voleva farsi

credere addetto ai lavori, accreditato, inserito, si aggirava fra il

Teatro sperimentale o il cinema Astra, dove proiettavano i film, il bar Capobianchi e

la sala stampa tenendo sottobraccio fasci di giornali e riviste

specializzate; si mostrava attivo; ogni tanto si avvicinava a

qualche personaggio e lo salutava chiamandolo per nome. Il

famoso non rispondeva, o rispondeva distrattamente. Ma l'indaffarato, se

riceveva anche solo un cenno del nume, esultava, poiché aveva

fatto la parte di quello che conosce chi conta, e conta a sua volta

qualcosa. Negli anni Ottanta questo culto dell'apparenza e

dell'intrallazzo stava crescendo in maniera ipertrofica. I più si

recavano in tali ambienti non per imparare, ma per curiosare,

cercare incontri utili o piacevoli.

Ci andavano e ci si fermavano

apposta.

ifigenia, se voleva, poteva riuscire piacevole a uno che le

sarebbe stato utile, se avesse ritenuto quel piacere degno di

iterazione e meritevole di contraccambio. A me quel mondo

appariva senza cuore e senza spirito. Pensavo che la mia

donna, giovane e bella com'era, se fosse stata anche disposta a

compiacere chi veramente contava, e lo avesse fatto con

intelligenza

machiavellica, ossia senza

morale ma con la

comprensione reale di quanto le conveniva, si sarebbe trovata in

vantaggio rispetto alle persone meno dotate di lei fisicamente, eppure

ugualmente bramose di inserirsi in quel giro spietato. Già

presoffrivo la fine della nostra storia. Del resto sapevo che i dolori

possono essere occasioni per la virtù, e non recalcitravo al destino.

Poco prima di mezzanotte, Ifigenia si ricordò di me: venne a

cercarmi, e, come mi vide, si accorse che non ero a mio agio.

Avvicinatasi, disse:"Non avere paura. Io ti amo tanto, ma ora devo

stare con i miei compagni dell'Antoniano. Lo capisci, vero?"

"Certo. Anzi adesso torno a Bologna, perché domani devo alzarmi

alle sette".


 

 

 

"Non ce l'hai con me, vero Gianni?" Chiese ancora. Poi

ripetè:"Non avere paura: io ti amo, ti amo tanto, e voglio stare con

te".

“No, non ce l'ho con te Ifigenia”, risposi. “Sono solo stanco: è da

questa mattina a buon’ora che sto in piedi. Voglio tornare a casa,

andare a dormire. Poi qui in effetti qui non ho niente da fare. Tu sì.

Restaci e non temere: io mi fido di te, ti amo e ti voglio bene”.

Non volevo darle pretesti per odiarmi. Tuttavia osai rivolgerle una

domanda rischiosa, per chi la pone, in circostanze del genere a una

donna del genere.

"Domani che cosa farai?"

"La mattina andrò in spiaggia per abbronzarmi, nel pomeriggio

tornerò qua a vedere se ci sono lavori interessanti, ad ascoltare

qualche esperto che fa lezione. A proposito, mi hanno detto che

domani dovrebbe venire a parlare il grande attore di cui sai, il mio mito e modello in fatto di recitazione ".

Questa notizia inopinata, tuttavia non mi sgomentò né mi diede

fastidio; anzi pensai che il celebre istrione avrebbe portato se non

altro una nota di mondana vivacità tra quei giovani  arrivisti e

provinciali. E Ifigenia

avrebbe

avuto qualche cosa

da

raccontarmi. Ma forse in cuor mio desideravo che sarebbe

accaduto quanto stava per  accadere. Sentivo che la catastrofe era

destino e sapevo che recalcitrare al destino è un errore. La fine tra

noi era inevitabile e imminente, ma avvenendo in maniera tragica,

non con un piagnisteo, ma con uno scoppio4

 , e per mezzo di

quell'uomo fatale, preannunciato due anni e mezzo prima sia da

uccelli profetici sia da

altri presagi, sarebbe stata anche

drammatica o romanzesca, comunque adatta a provocare, per

reazione, la nascita dell'opera letteraria che pensavo di dovere a

me stesso e all'umanità.

D'altra parte Ifigenia aveva appena affermato che voleva stare

con me. E quando aveva voluto piantarmi, il 15 marzo, lo aveva

detto direttamente e tosto fatto, lasciandomi solo nello studio che

biancheggiava di luna primaverile.

La notte dell'11 giugno invece disse: "Ti telefono domani alle due.

Ci mettiamo d'accordo sull'ora. Tu verrai qua, prenderemo una

camera, faremo l'amore tante volte, dormiremo un poco, e dopo

4

Not with a bang but a whimper“ , T. S. Eliot, The hollow man, ultimo verso.


 

 

 

domani andremo a Pesaro. Domenica sera torneremo a Bologna, e

lunedì mi farai lezione. Va bene?"

"Sì creatura, faremo l'amore, andremo al mare di Pesaro, poi ti

farò lezione", risposi.

" Davvero ti va il mio programma?" ripeté con un ammiccamento

che voleva simulare la voglia erotica  e dissimulare la

preoccupazione reale: quella di non  superare il prossimo esame.

.

"Sì, certo", ribadii, ma poi, non volendo nascondere tutta la

diffidenza insorta davanti al desiderio troppo ostentato di stare con

me, aggiunsi:" A me va benissimo; tu piuttosto non fare

complimenti: domani, se vedi o prevedi di avere qualche impegno

che non mi riguarda, dimmelo chiaramente al telefono. Capirò: io

quando ho del lavoro da fare, non ammetto distrazioni. Non mi

sentirò offeso se dirai di non avere tempo per me. Invece mi

spiacerebbe

tornare

qua per niente. Tanto più che

domani

pomeriggio dovrò preparare lo scrutinio".

"Va bene - fece -, restiamo d'accordo così". Poi aggiunse:"Ti

dispiace se non ti accompagno alla macchina? I miei amici mi

aspettano".

La bianca Volkwagen era parcheggiata sul lungomare davanti al

Grand Hotel, a settanta metri dal luogo dove stavamo parlando.

Questo egoismo ingrato, volgare, mi disturbò, e glielo dissi:" Se

hai fretta vai pure, ma non mi sembra cosa ben fatta, né di buon

gusto, dopo che ti ho portata qui da Bologna, non accompagnarmi

all'auto parcheggiata a due passi. Mi dispiace rinfacciartelo, ma tu

mi costringi".

"Hai ragione, scusa", rispose, contrariata a sua volta, e mi seguì

fino all'automobile, di malavoglia. Non vedeva l'ora che mi

togliessi dai piedi. A quel punto anche io volevo restare solo per

non vedere più la faccia, divenuta odiosa, della spudorata egoista

con la quale avevo vissuto l'amore più grande della mia vita.

Così credevo allora. Col senno di oggi che siano stati più belli e autentici gli amori con le due Elene, la praghese e la finnica,  e perfino l’innamoramento non contraccambiato del bravo scolaro Giannetto per la brava scolara Marisa nella scuola media Lucio Accio di Pesaro.

Mentre mi seguiva con riluttanza, Ifigenia aveva il volto teso,

cupo e nello stesso tempo acceso da un'ira che mandava bagliori

sinistri; come se le si riverberasse in faccia il fosco bagliore di un

fuoco infernale, violento, distruttivo e

inarrestabile. L'aveva

contrariata assai essere stata scoperta e sgridata subito dopo la

commedia di benevolenza recitata male. Insomma era un


 

 

 

pessimo segno per la sua capacità e carriera di attrice.  Ci

salutammo senza dire altro.

Arrivai a Bologna verso l'una. Quando fui entrato nella cucina

sconvolta, tirai fuori dal congelatore quattro budini di cioccolata,

duri e pesanti come mattoni. Li ammorbidii uno per uno con la

fiamma bluastra del gas, poi li mangiai con avidità angosciosa

rabbrividendo e allegandomi i denti.

“Una così è meglio perderla che averla trovata”, pensai.

Pesaro 8 settembre 2024 ore 10, 54 giovanni ghiselli

 

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[1] Cfr I Demoni di Dostoevskij, trad. it. Garzanti, Milano, 1973, p.453.

 

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