Annibale consiglia la prudenza al più giovane Scipione: guarda me, gli dice, stavo per prendere la tua patria e ora devo difendere la mia. Dunque: parakalw' se mh; mevga fronei'n, ma a decidere in maniera degna di un uomo (ajnqrwpivnw~): a scegliere sempre il più grande dei beni e il più piccolo dei mali (15, 7, 6). Propose quindi l’Africa ai Cartaginesi, Sicilia e Sardegna ai Romani.
Scipione però voleva abbattere la potenza di Cartagine. Rispose che nessuno meglio di lui conosceva la mutevolezza della fortuna. Ma ora la fortuna dava ragione a lui: o Cartagine si arrendeva o si doveva combattere.
I due erano admiratione mutuā prope attoniti (30, 30), quasi colpiti da ammirazione reciproca. In questa battaglia Annibale contava, come sempre, sulla manovra dell’aggiramento, in più si rinnovò, attuando il concetto della riserva. Lui stesso e i suoi veterani costituivano una schiera di riserva situata 200 metri dietro il grosso dell’esercito. Gli elefanti vennero spaventati dalle trombe romane. La cavalleria romana mise in fuga quella Numida, poi tornò indietro e prese la riserva di Annibale alle spalle.
Il sacrosanto segno dell’aquila a Zama conseguì uno dei suoi maggiori successi: “Esso atterrò l’orgoglio degli Arabi/che di retro ad Annibale passaro/l’alpestre rocce, Po, di che tu labi.” (Paradiso, VI, 49-51).
Annibale si recò a Cartagine per esortare i concittadini alla pace: aveva vinto la strategia di Scipione: mirare al cuore senza temporeggiare. I Cartaginesi conservavano il loro territorio, ma non potevano guerreggiare senza il consenso dei Romani. Dovevano pagare 10 mila talenti e consegnare le navi, tranne 10.
Annibale consigliò questa pace che di fatto annientava la potenza cartaginese: secondo lui bisognava prendere tempo e aspettare la riscossa dall’oriente. Capiva che Roma si sarebbe scontrata presto con le monarchie ellenistiche. Questa guerra, affratellando Romani e alleati, aveva fondato la nazione italica che si preparava a dominare l’Europa. La nazione cartaginese non aveva vitalità in quanto impotente nella linea teoretica che è il fondamento della vita progressiva dello spirito. Era una pianta parassita che traeva ogni succo vitale dalla civiltà greca.
Invece la pianta latina era rigogliosa e seppe innestare la cultura greca nel proprio tronco e farne vita della vita propria.
Publio Cornelio Scipione partecipò alla guerra contro Antioco III di Siria come luogotenente del fratello, Scipione l’Asiatico. I due fratelli lo sconfissero il Seleucide a Magnesia nel 189.
Antioco doveva consegnare Annibale che fuggì. Aveva combattuto i Romani nella battaglia navale di Side (190 a. C.).
Scipione si ritirò dalla vita politica dopo che Catone lo ebbe accusato di avere conservato parte del bottino della guerra siriaca. Morì nel 183 a. C.
Annibale e Scipione si incontrarono a Efeso, soggetta ad Antioco, quando Scipione andò come ambasciatore presso il re seleucide. Scipione chiese al vecchio avversario quem fuisse maximum imperatorem Hannibal crederet. A. respondit Alexandrum. Il secondo Pirro, il terzo semet ipsum dixit.
Ridens Scipio: “Quidnam tu diceres, si me, inquit, vicisses?-Tunc vero me, inquit, et ante Alexandrum et ante Pyrrum et ante alios posuissem (XXXV Periocha di Livio).
Mommsen T. Mommsen, Storia di Roma, (1854-1856) trad. it. Dall’Oglio, Milano, 1973.
Polibio è da ammirare per :" la lucidità, l'esattezza, la precisione con la quale egli racconta una battaglia o una trattativa diplomatica. Chi vuole intendere veramente Annibale che traversa le Alpi o la battaglia di Canne, deve leggere non Livio ma Polibio. Perrotta conclude citando la Storia romana del Momnsen ( del 1856) che ha scritto:" suoi libri, nella storia romana, sono come il sole: dove essi cominciano, cade il velo di nebbia che copre ancora le guerre sannitiche e la guerra di Pirro; dove essi finiscono, comincia una nuova oscurità, se è possibile, ancora più fastidiosa"[1].
Dopo il Metauro, il senato era convinto che la guerra di Cartagine contro Roma era finita e che cominciava quella di Roma contro Cartagine. I vincitori del Metauro, Livio e Nerone, erano entrambi aristocratici e impopolari in sommo grado; ritornava dalla Spagna nel 205 Cornelio Scipione che piaceva alla moltitudine. Aveva il fermo proposito di effettuare la spedizione in Africa. La sua eleganza greca, la sua cultura non garbavano agli austeri e rustici padri della città. Trovarono da ridire anche sulla disciplina militare. In effetti i suoi soldati a Locri presa ad Annibale si macchiarono di sacrilegi. Pleminio (205) spogliò il tempio di Persefone che il “rapace” Annibale aveva lasciato intatto.
Scipione era considerato complice di Pleminio per la sua trascurata sorveglianza. In Senato Scipione osava dire che lui poteva non curarsi dei limiti imposti dalla costituzione: gli bastava la sua intelligenza e la sua popolarità.
Una storia di ‘ndrangheta romana.-ajndragaqiva-
Ante omnes Q. Fabius natum eum ad corrumpendam disciplinam militarem arguĕre (29, 19) innanzi a tutti Q. Fabio Massimo accusava Scipione che era nato per corrompere la disciplina militare. Era uso di re stranieri indulgēre licentiae militum et saevire in eos. Fabio propose che Pleminio fosse portato a Roma in catene. Pleminio poi fu arrestato e mandato in prigione a Reggio (29, 21). I Locresi furono risarciti con il dono della libertà, ed essi dissero che avrebbero presentato le accuse contro Pleminio, non contro Scipione, sebbene si fosse indignato poco per le angherie inflitte ai Locresi, eum (Scipione) esse virum quem amicum sibi quam inimicum malint esse (29, 21). Pleminio venne condannato e condotto in catene a Roma.
Scipione non era personalmente avido, ma aveva bisogno di soldati assolutamente fedeli e quindi lasciava campo libero alla loro avidità. Quindi nella Curia i nemici del console guidati da Fabio alzarono la testa e volevano mettere Scipione sotto inchiesta, poi però i Locresi ritirarono l’accusa. Scipione poté partire per l’Africa. Era difficile attaccarlo poiché aveva un seguito di milizie devotissime. Partì nel 204 con 30mila uomini e sbarcò a Utica con l’aiuto di Massinissa. Questo portava in aiuto a Scipione bande di cavalieri ed era anche un mezzo per collegarsi agli indigeni attraverso relazioni diplomatiche.
Scipione prende Utica, però manda a Roma bollettini di vittoria. Siface re di Numidia fece una proposta di pace equa: l’Africa agli Africani, l’Italia agli Italici, ma Scipione rappresentava la tendenza imperialistica e non poteva accettare, tanto più che contava di vincere. Nel 203 cade Cirta (Numidia occidentale, superior), la città principale del regno di Siface che fu fatto prigioniero.
Livio XXX 203-201 a. C. Siface Massinissa, Scipione e Sofonisba
Nell’inverno del 204- 203 Scipione cerca di trattare con Siface, se mai per caso fosse sazio dell’amore della moglie Sofonisba. Scipione mandava negli accampamenti di Siface e di Asdrubale (figlio di Giscone) degli ambasciatori che erano in realtà osservatori e spie.
Quindi Scipione ruppe la tregua. Era alleato con Massinissa. Poi diede fuoco al campo di Siface e a quello di Asdrubale: binaque castra clade unā deleta (30, 6). Tuttavia Siface e Asdrubale scamparono. I Sufĕtes convocarono il senato cartaginese Quod velut consulare imperium apud eos erat (30, 7).
Si fecere tre proposte: trattare la pace con Scipione, richiamare Annibale, poi la tertia, romanae in adversis rebus constantiae erat: di una fermezza romana nelle difficoltà continuare la guerra, esortando anche Siface a non cedere.
Prevalse questa proposta caldeggiata da Asdrubale e da tutti i Barca. Siface stesso voleva continuare la guerra, anche perché pregato da Sofonisba la quale lo esortava a difendere Cartagine non iam, ut ante, blanditiis, satis potentibus ad animum amantis, sed precibus et misericordiā.
Sicché Asdrubale e Siface misero insieme un esercito di 30 mila uomini. Scipione li sconfigge ai Campi Magni e Annibale venne richiamato poiché lui solo poteva difendere Cartagine. Quindi la flotta cartaginese ottenne un successo parziale presso Utica. Siface aeger amore, intanto ricostituiva un esercito Stimulabat aegrum amore, uxor socerque (30, 11). Cirta era la capitale del suo regno.
Siface venne sconfitto con i suoi Massaesyli (popolazione della Mauretania). Quindi fu fatto prigioniero e venne portato in catene a Cirta.
Sofonisba va incontro al vincitore Massinissa e lo prega di non consegnarla ai Romani che non rispetterebbero una cartaginese, una figlia di Asdrubale Gisconide. Forma erat insignis et florentissima aetas (30, 12) e siccome genus Numidarum in Venerem praeceps, amore captivae victor (Massinissa) captus.
Il Massinissa di Alfieri dice: “In cor Numida/non entra mai tiepida fiamma: o sposo/io sarò dell’amata Sofonisba,/ o con lei spento” (Sofonisba, del 1785, II, 2).
Scipione gli risponde: “Non puossi a lungo/al fianco aver d’Asdrubale la figlia,/e rimaner di Roma amico”.
Massinissa replica: “Misero me!...mi squarci il cor…Ma, trarne/nulla può il dardo radicato e saldo,/che amor v’infisse”.
Quindi, per sottrarla a Scipione e a Lelio, Massinissa decise di sposarla. Lelio lo riprovò e stava per mandare Sofonisba da Scipione, prigioniera con Siface, però Massinissa prese tempo chiedendo un arbitrato di Scipione. Siface viene portato da Scipione.
Siface, re della parte occidentale della Numidia, precedentemente (214) era stato alleato dei Romani (Livio 24, 48) ma poi, racconta lui stesso, era impazzito e diventato nemico dei Romani per amore di Sofonisba: “illis nuptialibus facibus regiam conflagrasse suam, illam furiam pestemque omnibus delenimentis animum suum avertisse atque alienasse” (30, 13), con quelle fiaccole nuziali aveva bruciato la sua reggia, quella furia, quella peste, con tutte le seduzioni aveva traviato e reso pazzo il suo animo. Si consolava vedendo che quella medesima peste e furia era entrata nella casa del suo peggior nemico.
Aveva detto questo anche per il pungolo dell’amore.
Sofonisba di Vittorio Alfieri 1789
Siface sconfitto parla con Scipione
“Lusinghe, amore,/irresistibil possa di beltade,/qui m’han condotto; a te il confesso…Umano parli, e il sei” (I, 3). Siface insomma è stato stregato da Sofonisba ma non rinnega il suo amore: “veduta poscia/di Sofonisba la bellezza, io vinto,/io preso, io servo allor, più che nol sono/or nel tuo campo, d’un error nell’altro/cadendo andai. Per Sofonisba il regno/or perdo io, sì; la fama, e di me stesso/la stima io perdo: e, il crederesti? In vita/pur non mi duol di rimaner brev’ora/fin ch’io lei sappia in securtà” (I, 3).
Sofonisba prega Massinissa di non portarla al cospetto di Scipione: “l’aborrito aspetto/del roman duce (II, 1).
Sofonisba, quando vede Siface, che credeva morto, gli rinnova promessa di fedeltà, una promessa mai tradita: “inseparabil io/compagna riedo, e non del tutto indegna” (III, 2).
Scipione, nobilmente, dice che non odia i nemici: “Ancor che Annibal crudo/da tutta Italia ogni pietà sbandisca,/ non io perciò contro ai nemici atroce/odio racchiudo” (III, 3). Sofonisba invece ribadisce il suo odio per i Romani: “Al par nemica/e di Scipione, ancor che umano ei sia,/mi professo, e di Roma”.
Quindi Sofonisba si confessa: “Amai chi meglio odiava/voi, superbi Romani”. Ora con questo coraggio può dimostrare a tutti “qual alma ha in sen donna in Cartagin nata”.
Scipione la apprezza: “Sublime donna ella è costei: Romana/ degna sarebbe” (3, 4).
Massinissa la ama e vorrebbe salvarla anche a costo di combattere contro i Romani: “tu, di Siface moglie,/e di Asdrubale figlia, in faccia a Roma/pompa vuoi far d’intrepid’alma ed alta…Abbandonar queste aborrite insegne/di Roma io voglio; e per Cartagin io,/e per l’Africa nostra, e per te forse,/d’ora in poi pugnerò” (4, 4). Siface, per amore, è disposto a cederla a Massinissa, purché ella non si uccida. Ma Sofonisba è irremovibile: vuole morire con Cartagine: “E’ omai maturo/il cader di Cartagine: discorde/città corrotta, ah! mal resister puote/a Roma intera ed una. Avrei pur troppi/giorni vissuto, se la patria mia strugger vedessi” (5, 5). Massinissa non deve tradire Roma e il “gran Scipione”.
Quindi Sofonisba chiede del veleno per uccidersi piuttosto che la spada: “Un nappo/di velen ratto, al femmnil mio ardire/meglio confassi” (5, 5).
Torniamo a Livio
Scipione era preoccupato e disgustato da quell’innamoramento e matrimonio di Massinissa. Egli in Spagna, pur essendo giovane, non si era lasciato sedurre dalla bellezza di nessuna prigioniera.
Quindi parla all’alleato e gli dice che la vittoria più bella e onorevole è quella sui piaceri. E che Siface con il suo regno e sua moglie praeda populi romani est (30, 14). Cave deformes multa bona uno vitio. Massinissa divenne rosso, poi scoppiò in lacrime e disse a Scipione che avrebbe risolto lui la difficoltà. Quindi chiamò uno schiavo e gli ordinò di portare del veleno in una coppa a Sofonisba: doveva poi dirle che solo così poteva aiutarla a non cadere in mani romane. La ragazza disse: “accipio nuptiale munus” (30, 15), se lo sposo non può offrirmene uno migliore, ma sarei morta meglio si non in funere meo nupsissem. E impavide hausit.
Scipione, per consolare Massinissa, lo riempì di elogi e di onore e gli promise il regno di tutta la Numidia.
Massinissa infatti diventerà re di tutta la Numidia, cane da guardia dei Romani.
Pesaro 8 settembre 2024 ore 17, 20 giovanni ghiselli
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[1]Sono parole che cito da un vecchio Disegno storico della letteratura greca (p. 408) che diversamente dai recenti, spesso pletorici e noiosi, è fatto di poche pagine con non molte notizie, date però e scritta in maniera tale che restano nella memoria.
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