mercoledì 11 settembre 2024

Il viaggio in Grecia del 1978 VI parte. Corinto, la notte tribolsata, la via crucis per Epidauro.

Atene, Eleusi, il canale di Corinto, la notte tribolata, poi la via crucis verso Epidauro.
L’indomani mattina ripartii di buonora. Giunsi presto ad Atene e non mi ci fermai: era troppo grande, chiassosa di  mercati e rumorosa di motori dal fumo profano: non potevo raccogliermi e pregare gli dèi. Ci sarei tornato in compagnia più avanti e mi sarebbe piaciuta. Ma non era quello tempo di farlo.
Quindi mi avviai - tacito e solo - sulla strada che porta a Corinto. Feci sosta però per pregare nella piccola Eleusi. Demetra vi aveva fondato i sui sacri  misteri quando cercava Kore, la ragazza, la figliola rapita dalla brama smodata dello zio signore dell’Ade, il sovrano del regno dei morti. Anche io cercavo una giovane donna che desse uno scopo alla mia vita randagia da sordido anacoreta. Al tramonto del sole arrivai sul canale. Ero stanco e sporco di nuovo. Chiesi una camera in un motel che sorge subito dopo il ponte sull’istmo tagliato dai lati scoscesi. Ma il dio scuotiterra mi aveva tolto il favore: non c’era posto lì né in tutta Corinto, mi dissero.
Sconsolato pensai: “gli dèi mi dicono che devo penare quanto Demetra per trovare la mia  Kore”.
Dopo avere mangiato un panino con del formaggio sfatto, nel self service del grande motel, e avere guardato  a lungo la televisione, per mancanza di alloggio andai a sedermi su una poltrona dell’atrio aspettando l’aurora per mettermi in viaggio. Mancavano diverse  ore assai tribolate. Trascorsi una notte insonne e con pena, tormentato da assilli continui di zanzare sanguinarie e altri insetti a me sconosciuti.
Appena il cielo schiarì, ripresi la via dirigendo la bici verso l’antico teatro di Epidauro. Credevo che fosse vicino e che vi sarei arrivato in un paio di ore. Invece ce ne vollero cinque o sei, non ricordo bene. In effetti i chilometri non sono più di cinquanta ma il sonno mi fece sbagliare strada e mi fuorviò su salite impervie e deserte.  Oltre che assonnato e sporco ero assetato e ostacolato dal vento che mi gettava polvere aguzza negli occhi  dai quali gocciava un umore giallastro, denso, appiccicoso.
Per giunta, a un tratto scoppiò un tubolare: non rovinai a terra insanguinando la ripida strada, ma  per sostituirlo mi sporcai ulteriormente buona parte del corpo e del viso con l’atra sugna della catena e con il masticione rossiccio, immondo e tenace.
Poi ripresi a pedalare.
Ogni volta che concludevo una discesa di quei saliscendi mi pulivo gli occhi lacrimosi con le nocche vizze e, come vedevo iniziare una nuova, ripida ascesa, dovevo darmi ordini perentori, duri spietati: “Avanti - gridavo - non puoi fermarti, anche se è una fatica tremenda. Devi acquistare meriti presso gli dèi se vuoi salvarti la vita prima di tutto. Poi magari meritare la borsa di studio, la Kore giovane e bella. Ma ora devi forzare il corpo sfinito, carente di tutto e cadente, costringerlo a seguire lo spirito bisognoso di ascesi”. Arrivai a recitare, un verso e mezzo degli Eraclidi di Euripide: “to; ga;r qanei'n-kakw'n mevgiston favrmakon nomivzetai (595-596), il fatto di morire  è considerato il rimedio ottimo dei mali.  Certo, per scaramanzia, come quando otto anni prima nel collegio di Debrecen, mentre spengevo la luce a notte fonda, dicevo ad alta voce: “Domani mi uccido!” per sentire i miei contubernali che reagivano ordinandomi  di farlo subito in modo che  crepando io li lasciassi dormire.
Reazione che mi metteva di buon umore più di un “buona notte” insignificante. Capivo che era una sgridata affettuosa.
 In questo frangente assetato e desolato invece dovetti reagire da solo, con lo spirito mio, e gridai  al deserto con tutta voce che mi restava, imitando l’onesto Giovanni da cui traggo il nome, seppure proferendo tutt’altre parole: “No, non devo morire:  il mio favrmakon sarà una bella ragazza, la splendida Kore che mi spetta e mi aspetta. Avanti, sbrigati, ché prima per lo meno devi lavarti, mangiare e dormire”. L’avrei trovata in novembre.
 
Bologna 17 maggio  settembre 2024 giovanni ghiselli continua
 
Perché continuo a dire “l’onesto Giovanni?” Intanto per distinguerlo da me stesso, poi perché l’aureola del santo oramai si è offuscata e il titolo è inflazionato. Onesto è un predicato di nobiltà ben più qualificante che santo. Santo è pure quel Cirillo di Alessandria che ha spinto i monaci assassini a fare a pezzi Ipazia, e pure altri santi recenti non hanno certo meritato questo grado con le loro vite.


Pesaro 11 settembre 2024 ore 10, 56 giovanni ghiselli
 
p. s.
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