Ho fatto confusione con i numeri. Pubblico i primi 5 capitoli del secondo viaggio in Grecia tutti insieme. Ne mancano ancora 4.
Secondo viaggio in Grecia, da solo. Prima parte. Andros e Tenos
Nel luglio del 1978 feci il membro interno all’esame di maturità nel quale mi donò amicizia e affetto l’ottima collega esterna di filosofia Dina, di Torino che mi aiutò a crescere dicendomi: “devi leggere e studiare tutta l’opera di Nietzsche”, e quando gliene domandai la ragione, rispose molto benevolmente: “Perché sei così aristocratico!”.
Siano benedetti i benevoli che ci aiutano a diventare quello che siamo, e vengano invece schivati quelli che vogliono renderci malevoli al pari di loro. Feccia dai brutti ceffi questa.
Il 2 di agosto, finiti gli esami, ripartii in bicicletta questa volta da solo diretto al porto di Ancona per imbarcarmi sul traghetto per Patrasso. Avevo un punto di riferimento in alcuni conoscenti di Bologna che campeggiavano nell’isola di Andros. Mi recai da loro. Furono ospitali e gentili con me, però si comportavano come se fossero a Bologna: usavano nel parlare tutto il repertorio già sentito delle tipiche famiglie borghesi di questa città: gente civile ma io ero andato in Grecia in cerca di altro: mito e poesia volevo trovare, e la strada che mi avrebbe portato metodicamente all’arte e all’artistica donna che mi mancava. Il mio reperto nobile e antico doveva essere quell’armonia che rimane nascosta alla maggior parte delle persone ma è molto più forte e significativa di quella visibile ai più.
Il 9 agosto salii sull’imbarcazione che dal porto di Andros mi recava lontano da quei compagni di tenda con i quali non avevo argomenti comuni: erano tutt’altre persone dai contubernali di Debrecen, gli amici che nel 1966 mi salvarono la vita, spregiata dai più, come ho già ricordato volte. Nel 1978 ero felice di essermi imbarcato tacito solo e senz’altra compagnia che la mia bicicletta, una Bianchi da corsa.
Osservavo il chiarore dei flutti spumeggianti solcati dal traghetto. Biancheggiava la scia come un sentiero in mezzo a una pianura erbosa che fluttua sonora mossa dal vento.
Sbarcai a Tenos dove volevo prendere un altro battello per arrivare a Delo, l’isola sacra che diede i natali ai due occhi del cielo. Ma le corse di quel giorno erano già tutte finite: dovevo aspettare la mattina seguente. Cercai un ostello dove pernottare con la dignità del poverello ricco di spirito, fissai un giaciglio, quindi mi chiesi come impiegare sensatamente e proficuamente il resto della giornata che non volevo sprecare, cioè passare senza attività valide a potenziare il corpo e la mente.
Potevo girare l’isola liberamente, ossia senza l’obbligo che avevo avuto nella tappa precedente di presentarmi ai conoscenti di Bologna che mi aspettavano a ore, determinate da loro, per entrare in un enorme gommone motorizzato e andare stipati in cerca di baie deserte dove arrostire salsicce affumicando la luce del cielo. Come facevano i consumisti di Debrecen la sera che corsi via per andare a trovare Elena la donna santa quanto la luce solare. Se non è più sulla terra sarà una bella amante celeste nell’isola dei beati o nelle regioni del cielo, come la figlia di Zeus omonima sua.
Dopo due giorni passati con tanta noia volevo ricaricarmi di energie vitali e morali. Insomma di gioia. Sul mezzogiorno, lavati gli stracci sudati che poi distesi perché si asciugassero sopra lo zaino appoggiato sul materasso disteso sulla terrazza del povero ostello, cominciai a pedalare seminudo nel sole mentre venivo accarezzato dall’aria pregna di aromi marini, vegetali e terrestri: respirandola lietamente a pieni polmoni, sentivo di partecipare a una festa della natura profumata calda e luminosa come una bella ragazza piena di salute, di forza, di vita. Le cime degli alberi, i musi degli animali, i visi umani apparivano sereni, pieni di luce, promesse e speranze.
Con gli occhi stenebrati del tutto vedevo i raggi del sole danzare tripudi vivaci sulla grande tavola liscia e violacea del mare, quindi balzare sui declivi dei monti dove li festeggiavano innumerevoli i cori delle cicale pazze di sole, dove i penduli fichi stillavano gocce capaci di moltiplicare i sorrisi del dio che nutre la vita. Mi chiedevo se ero ancora su questa terra o già in paradiso. Credetti di dovermelo meritare pedalando e riflettendo con tutta le forze di cui mi avevano dotato gli dèi i genitori, le amanti, le amiche e gli amici.
Nell’aria celeste gli uccelli cantavano inni di gratitudine alla fonte della luce divina, l’occhio del giorno d’oro, l’immagine che porta la massima significazione del Nume supremo alla nostra vista. Con le narici aspiravo i profumi soavi della terra, odorosa tutta come un frutto maturo appena spiccato dal ramo. Mi domandavo come può non essere felice una creatura nel paradiso fatto così tanto bello dall’artista divino.
Assaporavo gli umori distillati dai raggi del sole che ravvivano tutto, e gioivo osservando i colori accesi e accentuati dalla pienezza del suo splendore.
Il mondo era variopinto, caldissimo, luminoso e mi rendeva felice.
Ogni tanto mi fermavo per cogliere un’arancia sugosa, un fico o un grappolo d’uva: dolce e graditissima offerta, maturata precocemente dal calore che favorisce la vita. Non dovevo nemmeno sfiorare i miseri, pochi quattrini che mi ero portato dietro. Quindi non avevo bisogno di lavarmi le mani.
Mentre mangiavo questi doni dell’estate incoronata dai raggi del dio, pensavo ai regali ricevuti dalle donne speciali che avevo già conosciuto meravigliosamente. Le ho sempre considerate “borse di studio”. Ero sicuro che altri premi ci sarebbero stati dopo una vacanza talmente devota verso la vita.
Ringraziavo la madre terra femmina felix e generosa , poi riprendevo a pedalare su e giù per le strade dell’isola. Ascendere le impervie salite eliminando gli umori cattivi, acquistando la forma corporea più bella possibile, e la mente serena quanto il cielo, era una gioia: mi sembrava di salire per una scala i cui gradini portavano alla Mente dell’universo; ed ero felice mentre mi lanciavo giù per le rapide discese rinfrescando il volto e il petto con i fiotti veloci dell’aria pur calda sulla pelle abbronzata: mi sentivo armonizzato con l’opera creata dall’artista divino dove avevo la fortuna di essere vivo del tutto, lontano e diverso dagli sdilinquiti borghesi che arrostivano grassi cadaveri di animali nelle baie sassose ottenebrando la luce del sole o la cristallina purezza della notte lunare.
Pesaro 11 settembre 2024 ore 16, 31 giovanni ghiselli
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Viaggio in Grecia agosto 1978 II parte
Delo. Mykonos. La piana di Maratona. Il toro di Teseo. Ceffi di cani feroci predisposti all’agguato omicida. Agamennone e Ifigenia.
La mattina seguente mi imbarcai per l’isola sacra dove aprirono gli occhi il dio luminoso dall’infallibile arco d’argento e sua sorella, la dea cacciatrice dalle fiaccole ardenti. Il traghetto solcava il mare e l’aria mattutina dai tenui colori: i raggi del sole obliqui, leggeri, scuotevano graziosamente le chiome d’oro ancora umide e preparavano i meridiani tripudi alzando ritmicamente le caviglie sottili sui bianchi fiocchi di spuma che la chiglia metallica sollevava dal cupo della distesa marina, come un aratro fa uscire dalla crosta terrestre zolle nere a imbiancarsi di luce.
Quando fui sbarcato a Delo, pregai i divini fratelli Artemide e Apollo di farmi avanzare con passo sicuro verso la pienezza della vita e il compimento del destino, quello che solo era, ed è, il mio.
Dopo avere girato la piccola isola devota mente a piedi, nel pomeriggio mi imbarcai verso l’Attica verde di olivi. Il battello però fece una sosta pur troppo lunga a Mykonos. Rimasi quasi assordato dai rumori tartarei e dagli striduli strepiti di giovani che auspicavano piaceri carnali per dare sfogo alle loro passioni stranamente protese. I bottegai beati approfittavano di questa folla gonfiando i prezzi della volgare bigiotteria esposta dovunque e delle bevande alcoliche tracannate senza soste da tale masnada.
Verso mezzanotte il battello finalmente partì. Arrivò a Rafina sulla costa nord orientale dell’Attica verso le tre. La notte era ancora fonda: dormivano i variopinti uccelli del cielo, gli animali terrestri e i muti pesci del mare. Avevo sonno anche io ma a quell’ora non era possibile trovare una stanza né un materasso su una terrazza sotto la luce della casta diva: Artemide, Diana o Iside come la chiamavano gli Egizi ricchi di antica dottrina[1]. Sicché mi imposi di volere un’azione che avesse qualche cosa di eroico. Dovevo meritare il mio fato. Aspettai che l’Aurora avesse iniziato ad accarezzare le cime dei monti con le sue dita rosèe. Quindi montai sulla bicicletta fidata e la diressi contro il vento che spirava con forza dalla combattuta piana di Maratona: pensavo all’eroica pugna degli Ateniesi contro il barbaro stuolo invasore e anche allo scontro di Teseo, magnanimo vincitore di mostri, e pur seduttore seriale e malfido di femmine umane giovani e improvvide , alla sua lotta vincente con il toro feroce: i soffi contrari, simili a sbuffi di bestia infuriata, offrivano esca al ricordo. La lotta tra il mostro e l’eroe mi saltò davanti agli occhi assonnati che si spalancarano tosto quando tre mastini magri fatti appositamente inferocire dalla fame e da un addestramento omicida sbucarono da un tugurio per lacerarmi e cavarsi la voglia di carne di sangue e di morte: la mia. Mi inseguivano ringhiando orrendamente con le fauci spietate da dove uscivano denti lunghi e forti da fare spavento, certamente letali se mi avessero acchiappato. Giunto sul crinale della morte correvo il rischio di precipitare nel suo baratro e finire sepolto nelle tombe vive costituite dagli stomaci quei tre terribili mostri.
Pedalavo con tutta la forza coltivata fin da bambino sui colli di Pesaro, poi a Bologna su per San Luca, a Moena sul san Pellegrino, sullo Stelvio da Bormio e da Prato e viceversa, forse immaginando che prima o poi tale ascese mi avrebbero salvato la vita. Fin da piccolo avevo imparato che nessun male è tanto remoto da non incontrarlo: la sventura è versatile e può giungere ovunque. Pedalavo sulla mia sorte come sul filo di un rasoio.
Finalmente mi trassi in salvo dai morsi dei tre ceffi bestiali, i maledetti lupi infernali che ringhiavano rabbiosamente quali Chere odiosissime aralde di morte. I canidi male educati e trasformati in armi improprie da padroni sanguinari mi hanno sempre fatto paura. Molti sono gli animali terribili e nessuno è più tremendo del cane aizzato a uccidere.
Anche nell’ultimo viaggio in Grecia compiuto nell’agosto di questo 2024 ho rischiato di morire per cani: 4 di queste bestiacce immonde grandi e arrabbiate mi hanno circondato mentre camminavo su una strada trafficata di Egion diretto alla marina. Ho cercato salvezza nella fuga ma quegli orribili animali volevano il sangue mio e mi correvano dietro. I loro denti assetati erano già vicini ai miei polpacci torniti quando si fermarono alcune automobili lungo la strada e degli uomini usciti dalle macchine mi salvarono spaventando quelle bestie feroci e vili che attaccano in gruppo la persona isolata. Ho benedetto i miei salvatori. Una conoscente cinofila ha detto che non avrei dovuto provocarli guardandoli negli occhi. Dovevo abbassare la testa e girare al largo: camminare sul lato sinistro della strada invece di passeggiare colpevolmente proprio sul destro dove erano in agguato i cani dietro degli alberi. Se fossi morto me la sarei cercata, quasi meritata da parte di quelle innocenti, deliziose bestiole.
Tanto la propaganda animalista rende torta la mente!
A me piacciono i gatti come creature silenziose, eleganti, indipendenti. Quando lo dico c’è chi mi taccia di perfidia e crudeltà dicendo: “brutto segno!”. Mi piacciono i gatti perché li assimilo alle donne. I cani mi fanno pensare piuttosto a uomini violenti, sudici, cretini, rumorosi. Pericolosi o noiosi.
Uccidere gli animali è un delitto e sostenere che l’uomo non vada difeso e protetto da chiunque, uomo-bestia, o bestia senz’altro che voglia ucciderlo, è un’offesa alla mia umanità. Ma ora è di moda. So che questo mio essere misocino o cinemiso, relativamente ai cagnacci grossi e infuriati, mi creerà antipatie da parte di quanti mi leggono, ma d’altra parte mi sento in dovere di mettere in guardia da questo pericolo. Tra l’altro se si giustificano cani e orsi che uccidono gli umani e donne che passeggiano o corrono trasognati, si potrebbe arrivare ad assolvere i criminali pazzi che ammazzano le donne dicendo che le sfacciate li hanno provocati. Come ho fatto io con i cani guardandoli terrorizzato e scappando invece che abbassare la testa e chiedere scusa di camminare nella pubblica strada.
Ma torniamo al 1978. Quindi rivolsi lo sguardo alla santa e bella faccia di luce inclinata a benedire e ravvivare la terra, all’immagine significativa del Bene supremo, insomma di Dio. Lo ringraziai per lo scampato pericolo e giurai che non sarei impallidito nell’ombra né avrei preso puzzo di muffa ma sempre avrei venerato il suo nume che oltretutto migliora il mio aspetto con un sano colore bronzato. Poi girai verso sud la bicicletta. Il vento soffiava dal mare. Pedalavo con sonno e fatica. Pensavo alla flotta cui gli dèi invidiavano al gran duce dei Greci la partenza dall’Aulide.
Ricordavo con memoria lucida, rabbrividendo, il prezzo che il prete supremo Calcante aveva chiesto al capo supremo Agamennone.
Quindi mi identificavo con il padre designato a sacrificare la sua primogenita: volevo salvare la figlia che per prima mi aveva reso felice chiamandomi babbo. In quel momento non pensavo che nemmeno Zeus può sfuggire alla parte assegnata dal fato2. Volevo che Ifigenia, la mia creatura più cara, non venisse sacrificata. Se l’antivedere non è vano forse presoffrivo il sacrificio della bambina di Päivi e mia. Sarebbe avvenuta sei anni più tardi.
Note
[1] Prisca doctrina pollentes Aegyptii (Apuleio, Metamorfosi, XI, 5).
2 Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, 518
Bologna 11 settembre 2024 ore 17, 05 giovanni ghiselli
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La Grecia in bicicletta estate 1978. Terza parte del secondo viaggio.
Pedalare fantasticando e ricordando alcune tragedie greche. Agamennone e Ifigenia
Fantasticavo. Erravo non lontano dalla gioia. Volevo che la luce della gioventù della creatura mia prevalesse sulla tenebra della superstizione. Dato il mio ruolo di capo supremo, potei sottrarre Ifigenia all’empio proposito del profeta malvagio.
L’avevo rapita all’avida morte: la vedevo danzare, cantare e sorridere sulla riva ventosa del mare ondeggiante.
Questa gara dovrà sottostare alla mia volontà di vita-pregavo dio chiunque egli sia: “ tu dammi propizio l’evento”.
I ciottoli sotto l’acqua vicina alla riva scintillavano come cristalli. Api vellutate giravano intorno alle arance. Il sole sfolgorante circonfondeva tutto.
Ifigenia cercava di propiziarsi gli dèi che, pietosi, ci avevano offerto l’occasione di quella felicità. Dolce aleggiava il suo canto e i movimenti avevano l’armonia del cosmo creato dalla sapienza dell’artista supremo.
Le parole mi fiorivano dentro e dicevo a mia figlia venuta vicino:
“Inevitabile, principessa, tesoro, è il viaggio di ritorno a Micene. Io e tua madre detestiamo la guerra. Vogliono farla per amore di rapina e di stupro. Ma io amo te figlia mia. Non mi importa niente della conquista di Troia, della vittoria sui barbari né del potere sui Greci: solo tu mi stai a cuore creatura: la tua vita che porterà avanti la mia, il tuo volto ridente, la tua gioia, il tuo amore. Torneremo insieme alla nostra inespugnabile rocca dove daremo gioia anche alle tue sorelle[2], al fratellino tuo, a tua madre. Questa è la ritirata dei forti, non è viltà. Torniamo nella patria nostra”.
Ma le mie parole rimasero senza effetto. Ifigenia aveva mutato disposizione d’animo. Inopinata e improvvisa come una dea.
Rispose: “No, padre. A Micene tu farai convocare l’assemblea dei cittadini, poi annuncerai che la tua pimogenita vuole morire per la libertà dell’Ellade intera. Lascia che io salvi la Grecia. Il popolo vuole tali esempi da noi. Se non trovassimo il coraggio e la forza di darli, come potremmo pretendere di essere considerati i migliori? Io devo morire e lo voglio, non perché non ami la vita e sia stanca di vedere la bellissima luce del sole, ma perché amo la mia identità di ragazza dall’anima nobile ancora più della mia sopravvivenza. Tu stesso, padre, mi hai educata a sentire così altamente”.
Non potei dissuaderla. Dovetti sottoporre il collo al giogo ferreo della Necessità.
Ottenni soltanto che all’assemblea convocata dentro la rocca possente della nostra Micene fosse lei stessa ad annunciare il proposito suo e ne avesse intera la gloria.
Sapevo che i poeti l’avrebbero cantata per sempre.
Quindi recitai a memoria qualche verso ispirato a Eschilo, a Euripide, a Lucrezio, dalla mia creatura più cara.
Sapevo che vivono più a lungo delle pur nobili gesta le parole se sono tirate fuori da un sentimento profondo e hanno il favore tanto delle Muse quanto delle Grazie.
Poi ripresi a sognare pedalando e pensando che la madre forse non avrebbe capito il sacrificio volontario della nostra figliola. L’avrebbe considerato un empio delitto voluto dal prete empio e dai duci ambiziosi dei Danai d’accordo con me.
Dovevo impedire che la furia materna arrivasse a sciupare l’eoico gesto voluto dall’anima nobile della nostra figliola innocente e non renitente al fato cui erano dovute le tragedie di Eschilo, di Euripide su Ifigenia e il canto di Lucrezio. Forse addirittura queste mie parole dimesse..
Pedalando mi vennero in mente i versi di Sofocle dove Clitennestra ricorda a Elettra l’assassinio di Ifigenia quando dice alla figlia superstite, ostilissima alla madre, che è stata Dike ad ammazzare Agamennone.
Io partorii quella ragazza con dolore; lui l’ha solo seminata.
“ejpei; path;r ou\to" sov", o{n qrhnei'" ajeiv,
th;n sh;n o{maimon mou'no" JEllhvnwn e[tlh
qu'sai qeoi'sin, oujk i[son kamw;n ejmoi;
luvph" o{t j e[speir j , w{sper hJ tivktous j ejgwv (Elettra, 530-533)
poiché tuo padre che piangi sempre, osò, lui solo tra i Greci, sacrificare agli dèi una del tuo stesso sangue, senza avere sofferto quando la seminava, la pena del parto come ho fatto io nel partorirla mondo.
Avevo percorso parecchi chilometri fantasticando e ricordando. Non sapevo che in autunno avrei conosciuto meravigliosamente una Ifigenia in carne e ossa; e non prevedevo la bambina non nata siccome sacrificata allo studio e alla carriera da Päivi, e in nessun modo difesa da me.
“deino;n to; tivktein ejstivn (Sofocle, Elettra, v.770), tremenda cosa è il partorire! aggiungo ora. E perdono la finnica che mi aveva negato la figlia che mi manca più di qualsiasi altra presenza umana. Che cosa sappiamo noi maschi delle sofferenze del parto!
Pesaro 11 settembre 2024 ore 17, 35 giovanni ghiselli
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Quarta parte Il tempio di Brauron. La preghiera alla dea casta.
Procedevo lungo la costa orientale dell’Attica, diretto al promontorio meridionale. La strada era discosta qualche chilometro dal mare da dove provenivano i soffi di un vento furioso. Pedalavo chino sul manubrio e abbarbicato alla bicicletta per non essere gettato a terra dove avrei battuto la testa, sarei rimasto privo di sensi e mi avrebbero finito dei cagnacci affamati acceffandomi senza pietà, ne ero sicuro. Ho sempre temuto la morte per canidi.
Mi vengono spesso in mente dei versi che ho appreso da una citazione di T. S. Eliot, morto il giorno prima che dessi l’esame di letteratura inglese: “But keep the wolf far hence, that's foe to men,/For with his nails he' ll dig them up again"[3].
A un tratto vidi un cartello che indicava il tempio di Brauron. L’avevo sentito menzionare da Euripide ma non ricordavo in quale tragedia. “sono i prodromi dell’alzaheimer” pensai e ne fui terrorizzato. Quindi sussurrai: “presto sarà tempo di dire: nunc dimittis servum tuum Domine” .
Non potevo rassegnarmi a tanta smemoratezza: non avevo nemmeno bevuto l’acqua del Lete. Ho sempre avuto una memoria più che terrena e il laqevsqai mi pareva il maximum scelus , un segno di morte. Sicché ce la misi tutta per tirare fuori il ricordo dalle pagine di Euripide . Appena me ne sovvenni, mi sentìi salvo. Si tratta della cara tragedia Ifigenia in Tauride quando Atena ex machina ferma l’inseguimento del barbaro re Toante e salva i fratelli figli di Agamennone e Clitennestra, preannunziandone le sorti. La ragazza dovrà custodire le chiavi del tempio di Brauron dove morirà e avrà sepoltura. In quel tempio Ifigenia avrebbe ricevuto l’ornamento dei pepli e dei tessuti che le donne morte di parto lasciano nelle loro case.
L’onore della mia memoria, il mio stesso onore e la vita, tutto era salvo. Con rinnovate forze misi la bici per un sentiero sassoso pedalando a fatica contro i soffi del vento che veniva dal mare e mi gettava aspri granelli di sabbia negli occhi già oberati da trenta ore di lenti a contatto. Ma lì tutto era santo. Infatti ero diretto al santuario dove le spoglie della mia creatura prediletta sarebbero rimaste per sempre protette dalla dea cacciatrice. Giunsi sulla riva del mare dove sorgono le colonne del tempio. Il vento orientale, lo stesso che più a nord ostacolava la partenza dal golfo di Aulide, sembrava inteso ad abbattere le sgretolate colonne. Non ci riusciva però. Invece scuoteva le chiome dei pini e i capelli della mia Ifigenia che profumavano mandando al cielo dolci odori, ingentilendo l’aria salmastra e rendendola più delicata. Guardavo mia figlia: bella, bruna, vivace: aveva negli occhi un’espressione ispirata, sulle labbra un sorriso di risoluta fierezza. Aveva deciso di dare la vita per l’Ellade intera guidata da me.
Pregai la dea cacciatrice con gli occhi bagnati di umore congiuntivale e di pianto: “O casta dea che non puoi volere il sangue innocente di questa creatura mia, salvala dal ferro di quel sacerdote infernale. Ritengo che l’empio Calcante, essendo lui un assassino, attribuisca a te la sua crudeltà. Ifigenia non è renitente al fato: non vuole essere salvata da me e nemmeno da Achille. Salvala tu, potente signora della natura, dopo che la mia ragazzina ha dato il suo assenso al sacrificio di sé per amore della Grecia. Artemide salva la vergine Ifigenia. Lei ti somiglia!”
Il luogo era deserto e potei piangere le lacrime dolci che mi diedero, come sempre, una strana consolazione. Sazio di lacrime, ripresi a pedalare. Ero quasi felice.
Bologna 17 maggio 2024 ore 11, 17 giovanni ghiselli
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“Strana consolazione” dunque. Ne ho ancora bisogno. Questo è il maggio più freddo e buio della mia vita. Non ostante il riscaldamento globale. Siamo infreddoliti, assediati dalle menzogne della pubblicità e delle propagande. La violenza organizzata non viene impedita nemmeno dalle scorte dei capi di governo .
La mia consolazione sta nel leggere e nello scrivere.
“La parola è la chiave fatata che apre ogni porta” ha scritto don Lorenzo Milani. Cerco di crederlo anche io. Con le mie donne migliori ha funzionato. Con i miei discepoli anche e pure con i miei lettori
Ecco quanti siete
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Il viaggio in Grecia del 1978 V parte
Capo Sunio. L’ostello della gioventù. “Che se dice, picciotti?”
Costeggiavo la pendice orientale del monte Laurio dalle cave che nascondono argento. Superata una breve salita, arrivai sulla punta meridionale dell’Attica dove vidi e ammirai il tempio di Poseidone, una splendida preghiera di marmo che leva le colonne verso l’azzurro del cielo pieno di dei, come il mare e la terra, come tutto il cosmo. Lo stesso gioiello dorico è una traccia del logos divino.
Io però ero sudicio e stanco e chiesi al dio del mare la grazia di aiutarmi a trovare un alloggio per lavarmi le membra e riposare la mente affaticata dal sonno più del corpo sudato e impolverato, tuttavia vigoroso. Non aspettai, come faccio di solito, il tramonto del sole che già declinava sul mare. Temevo di rimanere nel buio senza l’alloggio né il cibo meritati pedalando, perciò ripresi a spingere sui pedali con lena.
Per la volontà di mettermi a tavola e a letto, non accompagnai il sole al riposo notturno ringraziandolo, come faccio tutte le sere. Risalivo lungo la costa occidentale in direzione di Atene. Dopo una trentina di chilometri, al calar delle tenebre, mi fermai in un paese e mi diedi alla ricerca del rifugio per la notte.
L’indagine rimase infruttuosa per una mezzora. Sentivo l’orrore di vegliare nel buio su uno scoglio facile preda dei mostri marini come Andromeda, e senza un Perseo che venisse, pietoso, a salvarmi, o, un po’ meno peggio, di dovere stendermi su una panchina punzecchiato da zanzare assetate di sangue. Ma fu pietoso un dio, probabilmente Poseidone, o una delle Nereidi, e mi fece trovare una branda in un ostello della gioventù.
Entro sempre volentieri in un alloggio del genere, più che mai dacché sono vecchio. Mi metto in fila con i ragazzi e quando mi danno un paio di lenzuola pulite, stoffe odorose, seppure bucate, mi giro giulivo verso i giovani retrostanti e, con aria complice, faccio: “che se dice, picciotti?”. I contubernali per loro umanità nemmeno dopo i miei settanta anni mi hanno mai dato la baia replicando: “che cosa hai da sorridere, vecchio demente?”, anzi mi hanno sempre contraccambiato con sguardi e gesti di simpatia. Ragazzi e graziose ragazze. Una delizia, un balsamo beato contro i miei acciacchi. Un dono delle Grazie. Ne sono ogni volta felice, come quando il giorno di ferragosto sulla spiaggia di Pesaro bambini e fanciulli mi inondano di succhiellate marine mentre corro sulla riva sperando di ricevere quegli scrosci salati. Ringrazio e riprendo la corsa.
Pesaro 11 settembre 2024 ore 18, 11 giovanni ghiselli
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[1] Prisca doctrina pollentes Aegyptii (Apuleio, Metamorfosi, XI, 5).
2Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, 518
[2] Nell’Iliade (IX, v. 145 e v. 287 ripetuto da Odisseo) Agamennone dice di avere lasciato nella sua casa ben costriuita tre figlie: Crisotemi, Laodice, Ifianassa. Vero è che la vicenda di questo sacrificio è raccontata da Euripide ma io uso sempre diverse fonti, poiché, come scrive Leopardi, è moltiplicando i modelli che si raggiunge l’originalità” (cfr.Zibaldone , 2185-2186.)
[3] J. Webster, Il diavolo bianco (del 1612), I, 2., ma tenete ma tenete lontano il lupo, che è nemico degli uomini, altrimenti con le sue unghie li dissotterrerà.
Avevo preparato maniacalmente questo esame, data la mia tragica insicurezza. Presi 30 e lode e il giorno dopo salìi a San Luca a piedi. Cosa di cui oggi, ciclista annoso, mi vergognerei. Quella salita piuttosto dura deve essere scalata in bicicletta, nel minor tempo possibile.
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