Delo. Mykonos. La piana di Maratona. Il toro di Teseo. Ceffi di cani feroci predisposti all’agguato omicida. Agamennone e Ifigenia.
La mattina seguente mi imbarcai per l’isola sacra dove aprirono gli occhi il dio luminoso dall’infallibile arco d’argento e sua sorella, la dea cacciatrice dalle fiaccole ardenti. Il traghetto solcava il mare e l’aria mattutina dai tenui colori: i raggi del sole obliqui, leggeri, scuotevano graziosamente le chiome d’oro ancora umide e preparavano i meridiani tripudi alzando ritmicamente le caviglie sottili sui bianchi fiocchi di spuma che la chiglia metallica sollevava dal cupo della distesa marina, come un aratro fa uscire dalla crosta terrestre zolle nere a imbiancarsi di luce.
Quando fui sbarcato a Delo, pregai i divini fratelli Artemide e Apollo di farmi avanzare con passo sicuro verso la pienezza della vita e il compimento del destino, quello che solo era, ed è, il mio.
Dopo avere girato la piccola isola devota mente a piedi, nel pomeriggio mi imbarcai verso l’Attica verde di olivi. Il battello però fece una sosta pur troppo lunga a Mykonos. Rimasi quasi assordato dai rumori tartarei e dagli striduli strepiti di giovani che auspicavano piaceri carnali per dare sfogo alle loro passioni stranamente protese. I bottegai beati approfittavano di questa folla gonfiando i prezzi della volgare bigiotteria esposta dovunque e delle bevande alcoliche tracannate senza soste da tale masnada.
Verso mezzanotte il battello finalmente partì. Arrivò a Rafina sulla costa nord orientale dell’Attica verso le tre. La notte era ancora fonda: dormivano i variopinti uccelli del cielo, gli animali terrestri e i muti pesci del mare. Avevo sonno anche io ma a quell’ora non era possibile trovare una stanza né un materasso su una terrazza sotto la luce della casta diva: Artemide, Diana o Iside come la chiamavano gli Egizi ricchi di antica dottrina[1]. Sicché mi imposi di volere un’azione che avesse qualche cosa di eroico. Dovevo meritare il mio fato. Aspettai che l’Aurora avesse iniziato ad accarezzare le cime dei monti con le sue dita rosèe. Quindi montai sulla bicicletta fidata e la diressi contro il vento che spirava con forza dalla combattuta piana di Maratona: pensavo all’eroica pugna degli Ateniesi contro il barbaro stuolo invasore e anche allo scontro di Teseo, magnanimo vincitore di mostri, e pur seduttore seriale e malfido di femmine umane giovani e improvvide , alla sua lotta vincente con il toro feroce: i soffi contrari, simili a sbuffi di bestia infuriata, offrivano esca al ricordo. La lotta tra il mostro e l’eroe mi saltò davanti agli occhi assonnati che si spalancarano tosto quando tre mastini magri fatti appositamente inferocire dalla fame e da un addestramento omicida sbucarono da un tugurio per lacerarmi e cavarsi la voglia di carne di sangue e di morte: la mia. Mi inseguivano ringhiando orrendamente con le fauci spietate da dove uscivano denti lunghi e forti da fare spavento, certamente letali se mi avessero acchiappato. Giunto sul crinale della morte correvo il rischio di precipitare nel suo baratro e finire sepolto nelle tombe vive costituite dagli stomaci quei tre terribili mostri.
Pedalavo con tutta la forza coltivata fin da bambino sui colli di Pesaro, poi a Bologna su per San Luca, a Moena sul san Pellegrino, sullo Stelvio da Bormio e da Prato e viceversa, forse immaginando che prima o poi tale ascese mi avrebbero salvato la vita. Fin da piccolo avevo imparato che nessun male è tanto remoto da non incontrarlo: la sventura è versatile e può giungere ovunque. Pedalavo sulla mia sorte come sul filo di un rasoio.
Finalmente mi trassi in salvo dai morsi dei tre ceffi bestiali, i maledetti lupi infernali che ringhiavano rabbiosamente quali Chere odiosissime aralde di morte. I canidi male educati e trasformati in armi improprie da padroni sanguinari mi hanno sempre fatto paura. Molti sono gli animali terribili e nessuno è più tremendo del cane aizzato a uccidere.
Anche nell’ultimo viaggio in Grecia compiuto nell’agosto di questo 2024 ho rischiato di morire per cani: 4 di queste bestiacce immonde grandi e arrabbiate mi hanno circondato mentre camminavo su una strada trafficata di Egion diretto alla marina. Ho cercato salvezza nella fuga ma quegli orribili animali volevano il sangue mio e mi correvano dietro. I loro denti assetati erano già vicini ai miei polpacci torniti quando si fermarono alcune automobili lungo la strada e degli uomini usciti dalle macchine mi salvarono spaventando quelle bestie feroci e vili che attaccano in gruppo la persona isolata. Ho benedetto i miei salvatori. Una conoscente cinofila ha detto che non avrei dovuto provocarli guardandoli negli occhi. Dovevo abbassare la testa e girare al largo: camminare sul lato sinistro della strada invece di passeggiare colpevolmente proprio sul destro dove erano in agguato i cani dietro degli alberi. Se fossi morto me la sarei cercata, quasi meritata da parte di quelle innocenti, deliziose bestiole.
Tanto la propaganda animalista rende torta la mente!
A me piacciono i gatti come creature silenziose, eleganti, indipendenti. Quando lo dico c’è chi mi taccia di perfidia e crudeltà dicendo: “brutto segno!”. Mi piacciono i gatti perché li assimilo alle donne. I cani mi fanno pensare piuttosto a uomini violenti, sudici, cretini, rumorosi. Pericolosi o noiosi.
Uccidere gli animali è un delitto e sostenere che l’uomo non vada difeso e protetto da chiunque, uomo-bestia, o bestia senz’altro che voglia ucciderlo, è un’offesa alla mia umanità. Ma ora è di moda. So che questo mio essere misocino o cinemiso, relativamente ai cagnacci grossi e infuriati, mi creerà antipatie da parte di quanti mi leggono, ma d’altra parte mi sento in dovere di mettere in guardia da questo pericolo. Tra l’altro se si giustificano cani e orsi che uccidono gli umani e donne che passeggiano o corrono trasognati, si potrebbe arrivare ad assolvere i criminali pazzi che ammazzano le donne dicendo che le sfacciate li hanno provocati. Come ho fatto io con i cani guardandoli terrorizzato e scappando invece che abbassare la testa e chiedere scusa di camminare nella pubblica strada.
Ma torniamo al 1978. Quindi rivolsi lo sguardo alla santa e bella faccia di luce inclinata a benedire e ravvivare la terra, all’immagine significativa del Bene supremo, insomma di Dio. Lo ringraziai per lo scampato pericolo e giurai che non sarei impallidito nell’ombra né avrei preso puzzo di muffa ma sempre avrei venerato il suo nume che oltretutto migliora il mio aspetto con un sano colore bronzato. Poi girai verso sud la bicicletta. Il vento soffiava dal mare. Pedalavo con sonno e fatica. Pensavo alla flotta cui gli dèi invidiavano al gran duce dei Greci la partenza dall’Aulide.
Ricordavo con memoria lucida, rabbrividendo, il prezzo che il prete supremo Calcante aveva chiesto al capo supremo Agamennone.
Quindi mi identificavo con il padre designato a sacrificare la sua primogenita: volevo salvare la figlia che per prima mi aveva reso felice chiamandomi babbo. In quel momento non pensavo che nemmeno Zeus può sfuggire alla parte assegnata dal fato2. Volevo che Ifigenia, la mia creatura più cara, non venisse sacrificata. Se l’antivedere non è vano forse presoffrivo il sacrificio della bambina di Päivi e mia. Sarebbe avvenuta sei anni più tardi.
Continua
Note
[1] Prisca doctrina pollentes Aegyptii (Apuleio, Metamorfosi, XI, 5).
2 Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, 518
Bologna 11 settembre 2024 ore 17, 05 giovanni ghiselli
p. s.
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[1] Prisca doctrina pollentes Aegyptii (Apuleio, Metamorfosi, XI, 5).
2Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, 518
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