Celebra di nuovo la gara vinta dal carro di Terone alle Olimpiadi del 476.
L’Olimpica I invece celebrava la vittoria del cavallo montato Ferenìco mandato da Ierone di Siracusa nello stesso anno.
Ad Agrigento era vivo il culto di Elena e dei sui fratelli Dioscùri, Castore e Polluce. Elena e Polluce erano figli di Zeus, Castore di Tindaro, ma Polluce gli aveva donato parte della propria immortalità.
Questa Olimpica III viene composta per la festa delle Teossénie-ta; qeoxevnia cui partecipavano Elena, Polluce e Castore come si legge nell’Elena di Euripide 1667-1669. I fratelli sono gli dei ex machina che profetizzano a Elena il suo indiamento e il suo partecipare con loro due alle sacre libagioni con tanto di doni ospitali da parte degli uomini-
qeo;~ keklhvsh/ kai; Dioskovrwn mevta
spondw`n meqevxei~ xeniav t j ajnqrwvpwn pavra
e[xei~ meq j hJmw`n.
Era una festa analoga ai lectisternia o pulvinaria romani con banchetti dove c’erano posti riservati agli dèi.
Con Elena e i Doscuri vengono celebrati anche Terone e la città retta da lui kleina;n jAkravganta, l’inclita Agrigento
cfr. klevo~- rinomanza, kluvw, clueo, sento dire di me, ho fama, sono reputato.
Nel primo verso della Pitica XII Agrigento è invocata come kallivsta brotea`n polivwn- bellissima tra le città mortali. Questa ode celebra la vittoria di Mida di Agrigento che vinse la gara auletica dei giochi pitici del 490. I versi chiave dicono: “Se c’è felicità tra gli uomini, non appare mai senza fatica” strofe IV vv. 27-28.
Ma veniamo al testo dell’ Olimpica III
Strofe 1
Pindaro chiede pregando di piacere ajdei`n ai Tindaridi, Castore e Polluce, ufficialmente entrambi figli di Tindaro, amici degli ospiti-filoxeivnoi~ e ad Elena belle trecce- kalliplokavmw/.
Tutti e tre hanno in comune la madre Elena. Polluce ed Elena anche il padre Zeus.
Il nome Elena
Nel secondo capitolo del Doctor Faustus di Thomas Mann l’io narrante
Serenus Zeitblom si presenta come dottore in lettere e professore di latino greco e storia di un ginnasio-liceo e dice di avere preso moglie poco dopo l’assunzione nella scuola a ventisette anni guidato a questo passo da un bisogno di ordine e di inquadramento morale nella vita umana.
Spiegava agli studenti che “la civiltà consiste nell’inserire con spirito ordinatore i mostri della notte nel culto degli dèi”. Sposò dunque una ragazza di nome Helene: “confesserò che il nome della fresca fanciulla, il caro nome di Helene, non fu l’ultimo argomento che determinò la mia scelta. Un nome siffatto è circondato da un alone sacro (…) anche alla nostra figliola abbiamo imposto il nome Helene” (p. 14 e p. 15).
Ma cfr. l’etimologia di JElevnh nell’Agamennone di Eschilo.
Pindaro vuole erigere-come una statua- un inno quale fiore –a[wton- e un monumento dei cavalli dai piedi infaticabili. La Musa sta vicino al poeta che ha trovato euJrovnti un verso, un modo dal nuovo splendore- sigalovei~ lucente- neosivgalon trovpon di adattare il suono della voce, di sintonizzarla- ejnarmovxai- al ritmo dorico- Dwrivw/ pedivlw/.
Neosivgalon: poeta deve essere il “Trovatore” di novità brillanti.
Il termine pevdilon, ritmo e pure calzare, fa pensare al passo di danza accordato al ritmo
"Al canto più nuovo, la lode più alta", dice Telemaco nel primo canto dell’Odissea ( 351-352) e Pindaro nell’ Olimpica IX scrive:
ai[nei de; palaio;n me;n oi\non, a[nqea d j u{mnwn-newtevrwn" (Epodo 2) loda il vino vecchio, ma fiori di canti sempre nuovi.
Scritta per celebrare il palaisthv~ lottatore Efairmosto di Opunte vincitore ai giochi olimpici del 468 . Vinse anche i giochi pitici poi divenne periodonivkh~ ossia vincitore di tutti e 4 gli agoni panellenici
Antistrofe 1
Lo splendore del corteo
quando le corone cingono le chiome
esigono da me questo sacro debito crevo~
di congiungere la cetra fovrmigga
dalle voci variopinte
e il suono dei flauti – aulw``n-e l’ordine delle parole ejpevwn te qevsin
come si addice- prevpovntw~- al figlio di Enesidàmo
e Pisa stessa esige che io innalzi la voce
da dove vengono agli uomini i canti largiti da dio…
L’esigenza del canto viene a Pindaro dall’esterno e pure da se stesso. E’ il bisogno ineluduibile di scrivere, di avere la mente sempre occupata dal bisogno di scrivere quella necessità che Trigorin del Gabbiano di Čechov chiama la maledizione dello scrittore
Il figlio di Enesidàmo è Terone e Pisa è Olimpia.
Epodo 1
…a chiunque vincitore, adempiendo le norme
antiche di Eracle,
l’uomo di Etolia
irremovibile arbitro dei Greci
ponga dall’alto sulle palpebre intorno alle chiome
l’ornamento verde pallido dell’olivo
che un tempo il figlio di Anfitrione portò
dalle ombrose fonti dell’Istro,
memoria bellissima degli agoni di Olimpia,…
L’uomo di Etolia è Ossilo che riportò gli Eraclidi nel Peloponneso ed ebbe il potere sull’Elide. Fu arbitro dunque dei giochi olimpici e premiava gli atleti
Anfitrione era il marito di Alcmena la madre di Eracle, ma il vero padre dell’eroe era Zeus. Cfr. Catullo 68, 112 falsiparens Amphitryoniades- il figlio spurio di Anfitrione.
Pindaro colloca le sorgenti del Danubio nel settentrione estremo.
Strofe 2
…dopo avere persuaso con la parola il popolo
degli Iperborei servi di Apollo
in buona fede chiede per l’ospitale
recinto sacro di Zeus la pianta che ombreggia
bene comune agli uomini xuno;n ajnqrwvpoi~-
e corona delle virtù -stevfanovn t j ajreta`n
già consacrati al padre gli altari
a metà del mese la luna dall’aureo carro
fece risplendere pieno l’occhio della sera-ojfqalmo;n eJspevra~-
La pianta è l’olivo. I giochi olimpici si svolgevano nel secondo o nel terzo plenilunio dopo il solstizio estivo. Dunque l’occhio dell sera – eJspevra~ ojfqalmov~- è la luna piena
Antistrofe 2
Ed egli sancì il sacro giudizio dei grandi agoni
e insieme la festa che torna al quinto anno
presso le sponde divine dell’Alfeo.
Ma non fioriva di alberi belli- ajll j ouj kala; devndr j e[qallen-
la terra di Pelope nelle valli della collina di Crono.
Nudo gli parve il giardino -gumno;~ ka`po~- sottostare ai raggi acuti del sole
E allora l’animo lo spingeva a recarsi…
Olimpia, ho scritto più volte, è uno dei luoghi più caldi e ameni di quanti ne abbia mai visto. Grandi pini ombreggiano e attenuano il caldo che non è afoso bensì gradevole anche sopra i trenta gradi
Nell’Olimpica VIII l’ a[lso~, il sacro recinto di Pisa, cioè di Olimpia lungo l’Alfeo è eu[dendron- dagli aberi belli
Epodo 2
…nella terra dell’Istro dove la figlia di Leto
agitatrice di cavalli
lo accolse quando giunse dalle balze
e dalle gole sinuose dell’Arcadia
come la necessità del padre lo incalzava-ajnavgka patrovqen-
attraverso i messaggi di Euristeo
di condurre la cerva dalle corna d’oro
che un giorno Taigeta
Dedicò con l’iscrizione “sacra a Ortosia”-
La figlia di Leto (Latona) è Artemide la dea vergine, crudele nell’Ippolito di Euripide che viene rappresentato quest’anno a Siracusa
Pindaro racconta la fatica imposta a Eracle di catturare e portare a Micene, da Euristeo, la velocissima cerva di Cerinea in Acaia, una mostro se non altro perché una cerva non ha le corna mentre questa era crusovkerw~ (Iigino, Biblioteca, II, 5, 81) le aveva d’oro
Il coro dell’Eracle di Euripide nel primo Stasimo canta le fatiche di Eracle il quale tra le alte “uccise la cerva dalle corna d’oro dal dorso screziato, flagello delle campagne e la consacrò ad Artemide cacciatrice di fiere”- (epodo 1 vv. 375-379)
Quanto a Taigeta era una delle sette Pleiadi che Artemide trasformò in cerva perché potesse sottrarsi al desiderio amoroso di Zeus
Quando riprese sembianze umane, Taigeta dedicò l’animale incantato alla dea. Ortosia è un appellativo di Artemide, come jOrqiva a Sparta e in Arcadia; o[rqio~ significa diritto.
.
Strofe 3
Eracle inseguendo la cerva vide anche quella terra
oltre i soffi di Borea
gelido: lì rimase stupito degli alberi e ristette.
Di essi un dolce desiderio gluku;~ i{mero~ lo prese:
di piantarli intorno alla meta da aggirare dodici volte
nella corsa dei cavalli.
Ora viene a questa festa benigno
con i gemelli simili agli dèi, i figli di Leda dalla profonda cintura
La profonda cintura significa stretta in modo che la veste cadesse in pieghe profonde come si vede nelle figure femminili dei fregi del Partenone.
La gara delle quadrighe si correva con carri a due ruote tirati da 4 cavalli per dodici giri di pista lunga 600 metri ( 600 più 600) . Dunque dovevano percorrere circa 7 o 14 chilometri nell’ippodromo. Era la gara più spettacolare con pericolosi scontri nell’aggirare la meta. Nella Pitica V Pindaro racconta di 41 carri da corsa di cui uno solo giunse al traguardo dopo una gara piena di incidenti.
Un incidente mortale è inventato e raccontato nella tragedia Elettra di Sofocle.
La falsa morte di Oreste
Il vecchio pedagogo ricorda che Oreste vinse la gara di corsa drovmo~ a piedi.
Vinse anche il diauvlo~-doppia corsa, andata e ritorno 384 metri- e le altre gare del pentathlon ( lotta, salto, disco, giavellotto). Ma quando un dio vuole fare del male, non c’è via di scampo, neppure se uno è forte.
Il giorno seguente al sorgere del sole c’era la corsa dei carri veloci-wjkuvpou~ ajgwvn (699) nell’ippodromo. I concorrenti erano dieci da tutta la Grecia e due libici, ossia coloni ellenici della Cirenaica, C’era fragore di carri e polvere che si levava (kovni~, 714- la polvere segnala spesso sventura). Oreste tenendosi stretto alla meta, la rasentava sempre con il mozzo e allentava la briglia al cavallo di destra, mentre frenava quello di sinistra che la sfiorava. A un certo punto ci fu uno scontro. E l’intera pianura di Crisa si riempiva dei relitti dei carri.
Rimanevano in gara Oreste e l’auriga ateniese. Oreste era dietro e inseguiva, a un tratto luvwn hJnivan ajristeravn, errando con l’ allentare la briglia sinistra (743) del cavallo che faceva la curva (kavmptonto~ i{ppou, 744), urtò l’orlo estremo della stele e spezzò l’asse della ruota. Cadde dal carro impigliato nelle redini. La folla lanciò un grido di orrore. Non c’era più niente da fare. Lo arsero sul rogo.
Clitennestra chiede a Zeus che cosa significhi. Se era una fortuna per lei oppure una cosa tremenda ma utile (deina; me;n, kevrdh dev, 767). Comunque è penoso se mi salvo la vita a prezzo dei miei lutti (768).
“deino;n to; tivktein ejstivn (770), partorire è tremendo. Una madre, anche se maltrattata, non può odiare i figli.
Però poi dice di essersi liberata dalla paura di Oreste (783) e anche del fovbo~ delle minacce di Elettra che infatti si sente distrutta.
Elettra rimasta sola dice che non ha più voglia di vivere: tou` bivou d j oujdei;~ povqo~ (822).
Il cavallo montato a pelo , senza sella né staffe doveva compiere un solo giro di pista dell’ippodromo . L’Olimpica I racconta la vittoria del corsiero Ferenìco di Ierone. L’abbiamo già vista.
Olimpica III Antistrofe 3
Salendo all’Olimpo, Eracle
affidò a loro- i Dioscuri- di presiedere il mirabile agone
relativo al valore degli uomini e all’abilità difrhlasiva è la guida del carro- divfro~-ejlauvnw-
nel condurre il carro veloce. Me in qualche modo
l’animo spinge a dire che agli Emmenidi e a Terone
giunse la gloria donata dai Tindaridi equestri
poiché con le mense ospitali più frequenti
tra i mortali, i figli di Zeus si accostano a loro,
Epodo 3
custodendo con mente devota
i riti dei beati. makavrwn teletav~
Se l’acqua eccelle, e tra gli acquisti- ajristeuvei u[dwr kteavnwn
l’oro è il più reputato,
ora Terone con le sue virtù
giungendo al passo estremo
tocca le colonne d’Eracle da casa- a[ptetai oi[koqen JHeraklevo~ stala`n
L’ oltre è inaccessibile -to; povrsw a[baton- per i sapienti
e per chi non sa. Non lo seguirò- ouj diwvxw-: sarei stolto
Fine dell’Olimpica III
Cfr. Dante Inferno XXVI 107-109
Venimmo a quella foce stretta
ov’Ercole segnò li suoi riguardi
acciocché l’uom più oltre non si metta.
Pesaro 16 settembre 2024 ore 9, 16 giovanni ghiselli
p. s-
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