Solfataro con un caruso |
Lucio dell’Asino d’oro di
Apuleio, dopo essersi imbestiato, torna uomo guardando la luna quale
immagine di Iside.
Ciàula è il caruso,
l’aiutante sottoposto a un minatore, un picconiere vecchio, povero, Zi’ Scarda,
vessato a sua volta dal soprastante Cacciagallina. Ciàula “aveva più di
trent’anni, (e poteva averne anche più di settanta scemo com’era)”. Il padrone
lo chiama “col verso con cui si chiamano le cornacchie ammaestrate: Te’ pa’!
te’ pa’!” Ciàula stava a rivestirsi per tornare al paese”. Rivestirsi significava
togliersi la camicia, divisa del lavoro, e indossare “un panciotto bello largo
e lungo, avuto in elemosina, che doveva essere stato un tempo elegantissimo e
sopraffino (ora il luridume vi aveva fatto una tal roccia che a posarlo per
terra stava ritto). Con somma cura Ciàula ne affibbiava i sei bottoni, tre dei
quali ciondolavano, e poi se lo mirava addosso, passandoci sopra le mani,
perché veramente lo stimava superiore ai suoi meriti: una galanteria.Le gambe
nude, misere e sbilenche, durante quell’ammirazione, gli si accapponavano,
illividite dal freddo. Se qualcuno dei
compagni gli dava uno spintone o gli allungava un calcio, gridandogli: - Quanto
sei bello! - egli apriva fino alle orecchie ad ansa la bocca sdentata a un riso
di soddisfazione, poi infilava i calzoni, che avevano più d’una finestra aperta
sulle natiche e sui ginocchi; s’avvolgeva in un cappottello d’albagio tutto
rappezzato, e, scalzo, imitando meravigliosamente a ogni passo il verso della
cornacchia - crah! crah! - (per cui
lo avevano soprannominato Ciàula), s’avviava al paese”.
Ma quella sera i due dovevano restare nella cava a
estrarre e trasportare lo zolfo messo nelle casse.
Era l’ordine di Cacciagallina, il “soprastante”, cui Zi’ Scarda
obbediva.
A lui obbedì subito Ciàula che andò a levarsi il panciotto.
Il caruso non aveva paura “della tenebra fangosa delle profonde
caverne (…) Aveva paura, invece, del bujo vano della notte (…) Ogni sera,
terminato il lavoro, ritornava in paese con zi’ Scarda; e là, appena
finito d’ingozzare i resti della minestra, si buttava a dormire sul saccone di
paglia per terra, come un cane; e invano i ragazzi, quei sette orfani nipoti
del padrone, lo pestavano per tenerlo desto e ridere della sua sciocchezza;
cadeva subito in un sonno di piombo, dal quale, ogni mattina, alla punta
dell’alba, soleva riscuoterlo un noto piede”. Quella notte dunque riprese il
lavoro e saliva “la scala così erta che Ciàula con la testa protesa e
schiacciata sotto il carico, pervenuto all’ultima svolta, per quanto spingesse
gli occhi a guardare in su, non poteva vedere la buca che vaneggiava in alto”.
Ma alla fine sbucò “dal ventre della terra” e scoprì la luna.
“Estatico cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca.
Eccola, eccola là, eccola là, la luna… C’era la Luna! La Luna!
E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal
gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là,
mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei
monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei
non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo
stupore”.
L’uomo imbestiato dagli altri e dimentico della propria umanità
calpestata, si umanizza, come Lucio diventato asino poi reso a se stesso dalla
vista di Iside apparsa come luna.
L’asino di Apuleio dunque si sveglia di notte e vede la luna,
immagine di Iside e la prega, attribuendole molti nomi. Chiede di deporre diram faciem
quadripedis e di renderlo a se stesso redde me meo Lucio (Metamorfosi, 11,
2), rendimi al Lucio che sono.
La dea è chiamata con molti nomi Cerere, Venere Celeste, Diana,
Proserpina.
Cerere, Venere e Diana sono i tre aspetti luminosi della dea
cosmica; Proserpina, nocturnis ululatibus
horrenda, è l’aspetto oscuro.
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