Con gratitudine alla vita e alle donne, a tutte le
donne, la mamma, la nonna, le zie, le amanti, e a Dio che le ha create così
come sono e me le ha fatte incontrare.
Ifigenia fece suonare il campanello verso le
cinque, quando tenebre fitte, inquiete avevano già chiuso la
palpebra del cielo notturno; corsi di sotto ad aprire il
portone, poiché ero impaziente di fare l’amore; ma, come la vidi, mi
fermai stupito, senza toccarla, senza invitarla a entrare, senza dire parola:
non avevo mai visto una tale unione di inverno, colore e calore di vita: i
capelli bruni bruni, bagnati, a tratti innevati, le scorrevano giù per le
spalle come un ruscello montano cupo di gelide ombre, e aspro di pietre
biancastre, facendola rabbrividire, ma gli occhi violacei, lucenti mi versavano
addosso una luce che fluiva morbida e calda dal cuore. La osservavo in silenzio,
mentre i fiocchi larghi continuavano a caderle addosso, evidenziandosi sulle
ciocche scure, come sulle chiome perenni degli abeti montani, e trasformavano
la luminosa ragazza in una creatura dei boschi: un dolce cerbiatto dalla pelle
screziata, oppure una baccante giovane e bella che dopo la dolce fatica della
corsa sui monti si riassetta la nebride multicolore onorando il dio suo, Bacco,
signore della gioia di vivere, della festa lieta, delle grazie tutte, del
desiderio. Mentre nella fredda oscurità della notte precoce contemplavo la
vivida fiamma della mia giovane amante, mi riempivo e scaldavo di gioia. Dopo
qualche momento di stupito silenzio, la ragazza disse: “mi fai entrare? Sento
un poco di freddo”. “Sì, ti manda il mio demone buono”, risposi e mi scostai dall’ingresso.
Ifigenia entrò senza indugiare e, poiché
l’ascensore non funzionava, cominciò a salire i cinque piani di scale spedita,
facendo ondeggiare la testa, e le anche sulle gambe robuste molleggiate dalle
caviglie sottili, mentre i piccoli piedi, nello sforzo di ascendere i molti
gradini di corsa, si appoggiavano e sollevavano con leggerezza, potenza e
agilità. Le correvo dietro ammirato e felice. Quando fummo arrivati davanti
alla porta del mio appartamento, la aprii con la destra un poco tremante, poi
con la sinistra le feci segno di entrare. Ero pieno di desiderio amoroso. Lo
sentiva concordemente anche lei, poiché procedette fino alla sponda del nostro
grande letto dove si svestì con rapide mosse. Mentre, con le vesti cadeva sul
pavimento la neve, la splendidissima amante mi chiese di spogliarmi subito e di
abbracciarla senza i preamboli solitamente graditi: il marito, un cerbero assai
sospettoso, non poteva crederla a spasso nel caos bianconero della notte
nevosa, né, tanto meno, doveva immaginarsi che passasse il tempo nell’alcova di
un uomo: perciò era necessario che rientrasse non oltre mezz’ora dopo la
lezione di yoga, che finiva alle sei e distava un chilometro circa da casa sua.
Ci eravamo spogliati. L’abbracciai senza dire parola: il seno si era già
intiepidito, anzi conservava gli odori della terra benedetta dal cielo estivo:
pensai che non era il tepore domestico a renderla così calda e vivace appena si
era sottratta all’iniqua stagione, ma il suo giovane sangue fervido sotto la pelle
ancora abbronzata e profumata dal sole che durante la nuda estate doveva averla
baciata con lucida forza amorosa, lasciandole addosso indelebili segni di
bellezza, di salute e di gioia. La baciai anche io per succhiare una parte di
quel calore del cielo; quindi la distesi sul letto inclinando il mio corpo
avido, scuro e magro su quello armonioso di lei: ne trassi piacere e voglia di
vivere, eppure pensai a quando le sue magnifiche membra, coperte dall’ultima
veste, la nera terra, l’avrebbero fatta fiorire di sanguigni papaveri, o di
rose rosse, profumate di carne.
A un tratto, senza preamboli, Ifigenia scattò in
piedi e disse: “devo andare via e tornare subito a casa. Mi chiama il destino,
direbbe un’eroina tragica”.
Dopo quella sera di gioia intensa arebbe tornata
tante volte, alcune anche non meno belle, ma questo brusco congedo avvertiva e
prefigurava il modo della sua dipartita finale.
giannozzo di Pesaro
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