Due versi chiave delle Baccanti di
Euripide (395 - 396)
Il sapere non è sapienza to; sofo;n d j ouj sofiva
e avere la pretesa di comprendere fatti non mortali
- to; te mh; qnhta; fronei`n.
La sofiva è lo scopo di quella cultura
che Nietzsche chiama
tragica: "la sua principale caratteristica consiste nell'elevare a meta
suprema, in luogo della scienza, la sapienza".
La sapienza si tuffa nel fiume della vita. La scienza al contrario
è il fine dell'uomo teoretico il quale "non osa più affidarsi al terribile
fiume dell'esistenza: angosciosamente egli corre su e giù lungo la riva".
“La scienza lavora incessantemente
a quel grande colombario dei concetti - cimitero delle intuizioni”.
“All’idea di classicità, Nietzsche
sostituisce in definitiva quella di tragicità: la civiltà greca non è una
civiltà classica ma piuttosto una civiltà tragica”.
Vale la pena di riferirne anche il
commento di T. Mann:"A
questa tragica saggezza, che benedice la vita in tutta la sua falsità, durezza
e crudeltà, Nietzsche ha dato il nome di Dioniso".
Su questa opposizione
sapere/sapienza riferisco Morin che ricorda Eliot: Eliot affermava: "Qual
è la conoscenza che noi perdiamo nell'informazione e qualè la sapienza (wisdom)
che perdiamo nella conoscenza?".
Ma leggiamo direttamente i versi di
T. S. Eliot:
“Knowledge of speech,
but not of silence
Knowledge of words,
and ignorance of the Word
All our knowledge brings us
nearer to our ignorance,
All our ignorance brings us nearer to death,
But nearer to death no nearer to GOD.
Where is the Life we have lost in living?
Where is the wisdom we have lost in knowledge?
Where is the knowledge we have lost in information?”, (Choruses from “The Rock”, I, 9, 16.
All our ignorance brings us nearer to death,
But nearer to death no nearer to GOD.
Where is the Life we have lost in living?
Where is the wisdom we have lost in knowledge?
Where is the knowledge we have lost in information?”, (Choruses from “The Rock”, I, 9, 16.
Conoscenza del linguaggio ma non
del silenzio, conoscenza delle parole e ignoranza del Verbo. Tutta la nostra
conoscenza ci porta più vicini alla nostra ignoranza, tutta la nostra ignoranza
ci porta più vicini alla morte. Ma più vicini alla morte, non più vicini a Dio.
Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo? Dov’è la saggezza che abbiamo
perduto sapendo? Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?
Tutto è problematico: i testi degli
ottimi autori greci e latini abituano a pensare e non possono essere ridotti a
raccolte di formule o di ricette: “‘Qua
leggiamo Omero’ riprese, in tono beffardo, ‘come se l’Odissea fosse
un libro di cucina. Due versi all’ora, che vengono sminuzzati e rimasticati
parola per parola, fino alla nausea. Ma alla fine di ogni lezione ci dicono:
vedete come il poeta ha saputo esprimere questo? Avete potuto intuire il
mistero della creazione poetica! Così ci inzuccherano prefissi e aoristi, tanto
per farceli ingoiare senza restare strozzati. In questo modo mi rubano tutto
Omero’”
Interessante
è a questo proposito anche un elogio
dello stupore di H. Hesse:
"Per stupirci siamo qui!" dice un verso di Goethe. Tutto inizia con
questa stupefazione e con essa termina, tuttavia non è un cammino vano. Sia che
io ammiri un musco, un cristallo, un fiore, un maggiolino d'oro, sia che guardi
un cielo solcato dalle nuvole, un mare con il pacato gigantesco respiro della
sua risacca, l'ala di una farfalla con la trama ordinata delle sue costole
vitree…in quello stesso istante io ho abbandonato e dimentico il mondo avido e
cieco dell'umana necessità e, anziché pensare a comandare, acquistare,
sfruttare, combattere o organizzare, non faccio altro, per quell'istante, che
provare la "stupefazione" goethiana e, contemporaneamente, non divengo solo fratello di Goethe e
di tutti i poeti e saggi, ma sono anche fratello del cosmo vivente che
contemplo e sperimento: della farfalla, del coleottero, della nuvola, del fiume
e del monte. Percorrendo la via dello stupore, sono infatti sfuggito per un
attimo al mondo delle differenziazioni e sono entrato in quello dell'unità,
dove ogni cosa o creatura dice all'altro: Tat twam asi ("Sei
Tu")...non vogliamo lamentarci che
nelle nostre università non si insegni a percorrere le strade più semplici per
conseguire la saggezza e che, al posto dello stupore, si insegni l'esatto
contrario: a contare e a misurare invece che perdersi nell'estasi,
l'oggettività invece della malia, il rigido attenersi alle differenziazioni
anziché subire l'attrazione del Tutto e Uno. Le università non sono scuole di saggezza, sono scuole di sapere,
ma tacitamente postulano come conosciuto ciò che esse non possono
insegnare: la capacità di osservare, la stupefazione goethiana, e i loro
spiriti migliori non conoscono altra finalità più nobile che costituire un
altro gradino perché Goethe e altri nuovi saggi si manifestino di nuovo".
Seneca
sostiene che la sapienza è l’unica libertà: “Sapientia quae sola
libertas est”.
il
sapere non vale nulla, non è sapienza quando non riconosce sopra di
sé il sacro e il divino che inspiegabilmente lega "con amore in un volume
ciò che per l'universo si squaderna". Agostino afferma: “Ecce pietas est
sapientia”.
E' il caso di Edipo che crede di azzeccarci con
l'intelligenza senza avere imparato nulla dagli uccelli ("gnwvmh/ kurhvsa" oujd j ajp& oijwnw'n
maqwvn", Edipo re v. 398)
e fallisce.
Integro con Ammiano Marcellino: Gli auspici si traggono dagli uccelli non
perché loro conoscano il futuro sed volatus avium dirĭgit deus (21, 1,
9). Anche il rostrum
sonans dà segni.
"Coloro che hanno interpretato
l'Edipo re secondo
il modulo della "tragedia di conoscenza" hanno postulato che Sofocle
abbia voluto rappresentare due tipi di conoscenza differenti per mezzi e
possibilità, dal cui incotro - scontro risulterebbe il senso stesso del dramma.
Si è parlato di un "sapere umano" e un "sapere divino", di
una conoscenza umana sensitiva e fondata sull'apparenza ed una conoscenza
divina vera, cioè dovxa e ajlhvqeia, illusione e saggezza. Edipo
sulla scena sofoclea rappresenterebbe l'uomo raziocinante che si basa sulla
conoscenza dei sensi e del proprio intelletto e che agisce di conseguenza, ma
le coincidenze degli eventi fanno sì che alla fine tutte le sue costruzioni
intellettuali si rivelano fallaci, mentre il sapere degli dei, incontrollabile
e spesso incomprensibile per gli uomini, risulta essere l'unico sapere
veritiero (...) In realtà, quello di Edipo non è un generico "sapere
umano", ma rappresenta allusivamente il sapere di alcune correnti di
sapere razionalistiche dell'epoca, e analogamente non si deve parlare tanto di
generico "sapere divino", quanto piuttosto di sapere oracolare delfico,
con le sue peculiari modalità espressive e celebrante un dato sistema di valori
etici".
E'
il profeta a nutrire la forza della verità (Edipo re, v.356)
che non è potenza economica né militare, ma nemmeno cerebrale, anzi è
consapevolezza dei limiti angusti che racchiudono le nostre facoltà
intellettive.
Insomma la gnwvmh è fallace e gli uomini non
possono comprendere tutto. Non solo le vie della divinità sono imperscrutabili
ma anche quelle dell'incoscio.
Il
motivo anti-intellettualistico, ricorrente nell'Edipo, avrà un'infinità di
riprese: da Euripide, quando giunge alla stanchezza postfilosofica delle Baccanti, al
movimento dello Sturm und Drang ("il
mio cuore - annota Werther il 9
maggio 1772 - è l'unica cosa della quale sono superbo... Quello che io so, lo
può sapere chiunque, ma il mio cuore lo possiedo io solo"), fino a Elias
Canetti il quale in La provincia dell'uomo
afferma che "L'ignoranza non deve impoverirsi con il sapere... Per ogni
risposta deve saltare fuori una domanda che prima dormiva appiattata... Le sole
risposte inaridiscono il corpo e il respiro"(pp. 1600 - 1601).
Nell'episodio
di Aconzio e
Cidippe , una famosissima storia d'amore compresa nel terzo libro
degli Aitia di
Callimaco il poeta di Cirene afferma che il sapere tante cose è un bene
soltanto se conferisce a chi lo possiede e lo usa la capacità di padroneggiare
la lingua:
"
- poluidreivh calepo;n kakovn,
o[sti" ajkartei' - glwvssh" - , molto
sapere è un grave male per chiunque non è padrone della lingua: è proprio come
per un bambino avere un coltello"(fr.75 Pf, vv. 8 - 9).
Ora
sentiamo T. Mann: “e se si
usa dire per esempio che in casa d’altri non bisogna mettere gli occhi addosso
alle donne, perché tale comportamento è pericoloso, si è soliti tuttavia farlo,
perché altro è il sapere e altro è la vita”.
Il
sapere può essere usato come un’arma contro l’uomo comune.
Viceversa
la sapienza di tipo dionisiaco può essere uno strumento di offesa e difesa
dell’uomo comune dagli intellettuali.
Lo
dice Adilph Cusins, il professore di greco del Maggiore Barbara di B. Shaw: “As a teacher of Greek
I gave the intellectual man weapons against the common man. I now want to give
the common man weapons against the intellectual man”, come professore di
greco, io ho dato agli intellettuali le armi contro l’uomo comune. Io ora
voglio dare all’uomo comune le armi contro l’intellettuale.
Questo
grecista anomalo fidanzato di Barbara,
maggiore dell’esercito della salvezza, dice al futuro suocero, ricchissimo
fabbricante di armi: “You do not understand the Salvation Army. It is te
army of joy, of love, of courage (…) It takes the poor professor of Greek, the
most artificial and self - suppressed of human creatures, from his meal of
roots, and lets loose the rhapsodist in him; reveals the true worship of
Dionysos to him; sends him down the public street drumming dithyrambs”, Tu non
capisci l’Esercito della Salvezza. E’ l’esercito della gioia, dell’amore,
del coraggio (…) Porta via il
povero professore di Greco, la più artificiale e autorepressa delle creature
dal suo pasto di radici, e libera il rapsodo che è in lui; rivela in lui il vero cultore di Dioniso; lo
manda nella pubblica strada a tambureggiare ditirambi.
E. Dodds indica un nesso tra questa
sentenza del primo stasimo delle Baccanti e
la transvalutazione denunciata da Tucidide nel III libro: “‘cleverness is not wisdom’, ‘the
world’s Wise are not wise’ (Murray). Here again the Chorus take up a
thought expressed in the preceding scene: to; sofovn has the same implication
as in 203; it is the false wisdom of men like Pentheus, who fronw'n
oujde;n fronei' (332, cf. 266 ff., 311 ff.), in contrast
with the true wisdom of devout acceptance (179, 186)… for the paradoxical form cf. I A. 1139 oJ nou'~ o{d j aujto;~
nou'n e[cwn ouj tugcavnei, Or.
819 to; kalo;n ouj kalovn. Such paradoxes are the characteristic
product of an age when traditional valuations are rapidly shifting in the way
described in the famous passage of Thucydides on the transvaluatation of values, 3, 82”, ‘l’ingegnosità non è sapienza’,
‘la Maniera del mondo, non è saggia’ (Murray). Qui di nuovo il Coro assume
un pensiero espresso nella scena precedente: il sapere ha la stessa
implicazione che al v. 203; è la falsa sapienza di uomini come Penteo, il quale pur
avendo la mente non ha la sapienza (332, cfr. 266 ss. 311 ss.), in
contrasto con la vera saggezza della della pia accettazione (179, 186)… per il
modulo paradossale cfr. Ifigenia in Aulide 1139
, Oreste 819.
Tali paradossi sono il prodotto caratteristico di un’età in cui le valutazioni
tradizionali stanno rapidamente cambiando nel modo descritto nel famoso passo
di Tucidide sulla transvalutazione dei valori, 3, 82.
“L’attacco antisofistico si basa
sulla contrapposizione tra sofiva e sofovn, con la conseguenza che la sofiva si viene a caratterizzare in
modo non intellettualistico e si collega a una visione delle cose recepita
dalla tradizione. Ciò significa escludere un approccio di tipo protagoreo”.
“L’uomo rinunci dunque alla sua
saggezza. Perché, dice un verso singolare, la saggezza non è saggezza: “To; sofo;n d’ouj sofiva”. E non è inutile
notare che la pretesa saggezza dell’uomo è designata con una parola neutra,
molto intellettuale, una parola che le dà un carattere di artificiosità; mentre
la parola sofiva - che indica
la saggezza ritrovata dall’uomo quando riesce a rinunciare al suo spirito
critico - è una buona vecchia parola della lingua corrente ed è di genere
femminile, il che vale a sottolineare il suo carattere vitale e fecondo”.
- to; te mh; qnhta; fronei`n ( Baccanti, v.
396): Sull'incomprensibilità da parte della mente umana dei misteri della
divinità si esprime anche Dante:"Matto
è chi spera che nostra ragione/possa trascorrer la infinita via/che tiene una
sustanza in tre persone./State contenti, umana gente, al quia ; ché,
se potuto aveste veder tutto,/mestier non era parturir Maria".
E pure il suo Ulisse pecca, come
Edipo, per la presunzione e l'uso eccessivo dell'intelligenza, tant'è vero che
l'autore, all'inizio del canto dei consiglieri fraudolenti, afferma:"Allor
mi dolsi, e ora mi ridoglio/quando drizzo la mente a ciò ch'i' vidi,/e più lo
'ngegno affreno ch'i' non soglio,/perché non corra che virtù nol guidi;/sì che,
se stella bona o miglior cosa/m'ha dato 'l ben, ch'io stesso nol m'invidi".
Ricordiamo quanto afferma il
personaggio Socrate nell’Alcibiade II di
Platone.
“Vedi dunque quando dicevo che il
possesso delle altre scienze se uno non possiede la scienza di quanto è
ottimo (l'idea del Bene), di rado giova, mentre per lo più danneggia
chi ce l'ha, non ti sembra che io parlavo dicendo quanto è
sostanzialmente corretto?”
Alcibiade dà ragione a Socrate il
quale aggiunge
“E
chi possiede la cosiddetta conoscenza enciclopedica e politecnica, ma sia privo
di questa scienza (del Bene), e venga spinto da ciascuna delle altre, non
farà uso sostanzialmente di una grande tempesta senza un nocchiero, continuando
a correre sul mare, non a lungo del resto? Sicché mi sembra che anche qui
capiti a proposito quello che dice il poeta criticando uno che effettivamente
sapeva molte cose ma le sapeva tutte male (Alcibiade II 147b)”
Infine Re Lear: “Per
apprendere come veramente stiano le cose, Lear è costretto a perdere del tutto
la ragione, seguendo così il modello disegnato da Paolo: “Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi
si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per divenire sapiente;
perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Sta scritto
infatti: Egli
prende i sapienti per mezzo della loro astuzia”. La citazione paolina, non
a caso, proviene proprio dal Libro di Giobbe”.
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