Eppure sono felice di vedere la luce, di essere
al mondo e grato ai miei genitori che mi ci hanno messo 75 anni fa.
L'impossibilità di essere felici suggerisce che non è
opportuno mettere al mondo dei figli. Il Coro commenta le parole di Medea con
questi versi: “Kai;
fhmi brotw'n, oi[tinev" eijsin-pavmpan a[peiroi mhd j
ejfuvteusan-pai'da", profevrein eij" eujtucivan-tw'n geinamevnwn" ( Medea, vv. 1090-1093) e affermo che
tra i mortali quelli che sono del tutto inesperti di procreazione e non hanno
generato dei figli, superano nella fortuna coloro che li generarono.
Augusto, sofferente per
il comportamento scandaloso delle due Giulie, figlia e nipote, che fece
relegare a Ventotene poiché si erano contaminate di ogni vergogna sessuale
("omnibus probris contaminatas
" in Svetonio, Vita di Augusto ,
65), e scontento anche del nipote Agrippa dall'indole torbida e selvaggia, soleva esclamare, in greco, sospirando: "fossi rimasto celibe (a[gamo") e morto senza figli! (a[gono")!".
Sentiamo Leopardi: “Nasce l’uomo a fatica/ed è rischio
di morte il nascimento./prova pena e tormento/per prima cosa, e in sul
principio stesso/la madre e il genitore/il prende a consolar dell’esser nato (…)
Ma perché dare al sole,/perché reggere in vita/chi poi di quella consolar
convenga?” Canto notturno di un pastore
errante dell’Asia (vv. 39-44 e 52-54)
Nell’esodo delle Troiane di Euripide Ecuba considera
stupido chi si lascia andare alla gioia poiché la buona fortuna è comunque e
sempre provvisoria:
“Stolto
tra i mortali è chi credendo di stare bene
senza
mai scivolare, gioisce (caivrei): infatti le sorti con le loro maniere,
come
un uomo capriccioso, saltano ora qua- allot j a[llose pedw'si
ora
là, e nessuna persona è sempre lei fortunata (koujdei;" aujto;" eujtucei' pote (1203-1206).
La stessa considerazione
viene espressa dal capo dell’esercito greco in partenza per Troia nell’Ifigenia in Aulide
“Dei mortali nessuno è
prospero sino alla fine -o[lbio"
ej" tevlo"-,
né felice- oujd eujdaivmwn-
ancora di fatto nessuno è
nato esente dal dolore (161-163)
Forse non è falso quanto afferma Bernardin De
Saint-Pierre che noi Europei sin dall'infanzia abbiamo "la mente piena di
pregiudizi contrari alla felicità"
quindi non possiamo più comprendere "quanti lumi e piaceri possa
dare la natura"[1].
Sentiamo il coro dei morti
nello studio di Federico Ruysch
“Sola nel mondo eterna, a cui
si volve
Ogni creata cosa,
in te, morte, si posa
nostra ignuda natura;
lieta no ma sicura
dall’antico dolor” (…)
Lieta no ma sicura;
però ch’essere beato
Felicità
è accordo con con se stessi.
Felicità è
l'accordo con il proprio daivmwn, destino e
carattere. L' eujdaimoniva
non è possibile se non ricordiamo, non riconosciamo e non assecondiamo il daivmwn che,
secondo il mito di Er, ci siamo scelti prima di tornare sulla terra.
"Poiché la felicità alla sua antica fonte era eudaimonia, cioè un daimon contento, soltanto un daimon
che riceve ciò che gli spetta può trasmettere un effetto di felicità
all'anima"[3].
L’attrice Delia Moreno della
commedia di Pirandello Ciascuno a suo
modo sostiene che può amare
l’umanità solo chi è contento di se stesso:"Sapete che cosa significa
"amare l'umanità"? Soltanto questo:"essere contenti di noi
stessi". Quando uno è contento di se stesso "ama l'umanità"[4].
Eujdaimoniva è un buon rapporto con il
proprio carattere[5].
Marco Aurelio in A
se stesso scrive: “Eujdaimoniva
ejsti; daivmwn ajgaqov" (VII, 17)
Henrik
Ibsen fa dire a Giuliano imperatore. “E
che cos’è la felicità se non il vivere in conformità a se stesso? L’aquila
chiede forse delle penne d’oro? Il leone ambisce avere artigli d’argento? O
forse il melograno desidera che i suoi chicchi siano altrettante pietre
preziose?”[6].
La felicità può venire turbata dall’uomo che non riconosce
o non rispetta il proprio daivmwn, ma
può anche essere sconvolta da un dio.
Il coro dell’Antigone
nel secondo stasimo canta:
eujdaivmone" oi|si kakw'n a[geusto" aijwvn
oi|" ga;r a]n seisqh'/ qeovqen dovmo",
a[ta"
oujde;n ejlleivpei genea'" ejpi; plh'qo"
e{rpon (vv. 583-585), felici quelli la cui vita non conosce il sapore dei mali/infatti a
quelli la cui casa sia stata scossa da dio, nessuna/sciagura manca di insinuarsi
nel complesso della stirpe".
Sicché l’infelicità si può anche ereditare da un
consanguineo ha commesso una colpa e non l’ha espiata come il re Candaule di Erodoto
o come il re Laio, il padre tragico del tragico Edipo, il nonno dei tragici
Eteocle e Polinice.
[1] Paul e Virginie
(del 1788), p. 135.
[2]
Leopardi Dialogo di Federico Ruysch
e delle sue mummie.(1824)
[3] J. Hillman, Il codice dell'anima , p. 112.
[4] L. Pirandello, Ciascuno a suo modo (del 1924),
atto I.
[6] Cesare e
Galileo (1873) parte seconda. Giuliano imperatore, atto terzo, quadro primo
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