De Sanctis, III, parte seconda, cap. 9. Scipione e la rivincita.
I due fratelli Scipioni, Publio e Cneo cadono in un agguato in Spagna ( nel 211). I Cartaginesi recuperano la Spagna fino all’Ebro.
Essi però, sotto la guida di Asdrubale non seppero approfittare della vittoria passando subito in Italia né assediarono i Romani in Tarragona che era la loro fortezza marittima. In Spagna venne mandato come propretore Claudio Nerone il quale agiva come Fabio Massimo limitandosi a difendere il teritorio a nord dell’Ebro.
Allora il senato mandò in Spagna il figlio di Publio, il ventiquattrenne Publio Cornelio Scipione. Era bello di persona, coraggioso, intelligente, sapeva guadagnarsi la devozione dei soldati ed era capace di ammaliare amici e nemici, conversando. Inoltre aveva grandissima fiducia in se stesso e nel proprio destino. Si credeva, o si faceva credere, inviato dalla divinità per la salvezza di Roma. Era pervaso da un entusiasmo religioso, sia pure corretto dallo spirito pratico del romano. Quando indicava la via ai soldati, diceva che lo ispirava un nume e si faceva profeta preconizzando il successo. Sentiva in sé la presenza del divino nel tradurre in atto le sue intuizioni.
Polibio lo assimila a Licurgo che si diceva ispirato dalla Pizia di Delfi per rendersi più accetto al popolo. Scipione rendeva i suoi soldati più pronti ad affrontare i rischi inculcando in loro la credenza wJ~ meta; tino~ qeiva~ ejpipnoiva~ poiouvmeno~ ta;~ ejpibolav~ (10, 2, 12) che i suoi piani erano divinamente ispirati. Invero era calcolatore, e non di calcoli vani. Il razionalismo di Polibio interpreta l’entusiasmo di Scipione come astuzia.
Aveva dato prova di valore già a 17 anni quando sul Ticino, nel dicembre del 218, salvò la vita del padre.
Livio dice che tendeva a ostentare le sue doti e a presentare le sue azioni come ispirate dagli dei: “velut divinĭtus mente monitā agens” (26, 19). Come se tutto gli venisse comandato da un oracolo. Prima di agire si recava in Capitolium e sedeva plerumque solus. Faceva girare la credenza di essere di stirpe divina “rettulitque famam in Alexandro Magno prius vulgatam, et vanitate et fabula parem, anguis immanis concubitu conceptum, et in cubiculo matris eius visam persaepe prodigii eius speciem”. Egli non smentì mai questa diceria.
Mommsen lo definisce un entusiasta che ispirava entusiasmo. Aveva abbastanza fanatismo per suscitarlo nei cuori altrui e sufficiente discernimento per accoppiarlo con l’uso della ragione. Era comunque persuaso di essere favorito dagli dèi. Non poteva ammettere di rimanere vincolato dalla costituzione repubblicana. Associava la più squisita cultura ellenica a un profondo sentimento nazionale romano. Seduceva soldati e donne.
C’è il rifiuto del padre, come in Alessandro Magno, entrambi figli della madre.
Viceversa Annibale volle seguire le orme del padre.
Nel I canto dell’Odissea, Atena che si è presentata come un ospite e amico di Odisseo, Mente, dice a Telemaco le parole che il ragazzo vuole sentirsi dire: che assomiglia straordinariamente al padre nel capo e negli occhi belli ("aijnw'" me;n kefalhvn te kai; o[mmata kala; e[oika~", v. 208) indicando del corpo umano, le parti più significative e portatrici di spiritualità. Il figlio di Odisseo ci tiene molto ad assomigliare al padre:"Le parole di lui gli dicono invero le stesse cose che la voce del suo cuore gli suggerisce. Telemaco è il prototipo del giovane docile, cui il consiglio, volonterosamente accolto, d'un amico esperto conduce all'azione e alla fama"[1].
Cornelio Scipione dunque sbarca in Spagna nel 210 e si porta dall’Ebro a Cartagena con una marcia rapidissima.
Secondo Polibio percorse 470 km in 7 giorni (X, 9). Intanto Lelio assediava la città dalla parte del mare. Cartagena, difesa invano da Magone, cadde (209). Scipione la attaccò da settentrione dove c’era una laguna guadabile con la bassa marea. Da quella parte c’erano le mura più basse. Attraverso la laguna, Nettuno stesso gli indicò la via, e trovò le mura indifese. Quindi si impossessò di tutte le attrezzature belliche portuali.
Gli Iberi, abbagliati dalla sua vittoria, salutarono Scipione come re. Scipione non accettò il titolo per non insospettire il senato, ma si lasciò nominare imperator (Livio, 27, 19). Regium nomen, alibi magnum, Romae intolerabile esse. Regalem animum in se esse…tacite iudicarent (27, 19). Allora anche i barbari sentirono la grandezza del suo animo che da tanta altezza disprezzava il titolo di re. Sensēre etiam barbari magnitudinem animi.
Tacito negli Annales (III, 74 ) dice che acclamare un comandante con il titolo di imperātor era un’onoranza antica che l’esercito nell’impeto dell’entusiasmo rendeva ai generali per un’impresa riuscita. Questo titolo fu fatto dare per l’ultima volta da Tiberio a Bleso, in Africa.
Appiano nel celebre proemio generale della Storia romana esalta un impero generoso che “spende, per certuni dei sudditi, più di quanto ne ricavi”, ma nota qualche cosa di contraddittorio nella stessa formula dell’impero: “I Romani non osano chiamare re i loro monarchi, sebbene essi siano veri e propri re”, dice nel proemio; “i Romani, che un tempo non sopportavano neanche quel titolo di re, ora li consacrano come dèi dopo la morte, tranne che taluno di essi sia tirannico o spregevole”, osserva nel II libro delle Guerre civili” (13-17) (Mazzarino, 3, p. 190).
Anche Plutarco rileva una contraddizione a proposito di Marco Antonio che offrì un diadema coperto con un serto di allora a Giulio Cesare il quale lo rifiutò: era stupefacente il fatto che coloro i quali in pratica sopportavano la condizione di sudditi, rifiutassero il nome di re, come se fosse la dissoluzione della libertà ( tou[noma tou` basilevw~ wJ~ katavlusin th`~ ejleuqeriva~ e[feugon, Vita di Marco Antonio, 12, 5).
Scipione disse agli Spagnoli che non voleva essere chiamato re, ma essere considerato uomo di natura regale ( basilikov~, Polibio 10, 40, 5). Detto questo ordinò di chiamarlo strathgov~. E’ il primo esempio di salutatio imperatoria di un generale da parte delle truppe.
Augusto “quando fu in tempo di pace, temette le congiure; e, avendo sempre davanti agli occhi il destino di Cesare, per evitare la sua sorte, pensò a scostarsi dalla condotta di quello. Ecco la chiave di tutta la vita di Augusto. Egli portò in senato una corazza sotto la toga, rifiutò il titolo di dittatore e, mentre Cesare proclamava insolentemente che la repubblica non contava nulla e che soltanto le sue parole erano legge, Augusto non parlò che della dignità del senato e del proprio rispetto per la repubblica” ( Montesquieu Considerazioni, p. 81).
Cfr. Pensées, 145 (677, I, p. 468) “ Dione dice che Augusto volle farsi chiamare Romolo, ma che, avendo saputo che il popolo temeva che volesse farsi re, se ne astenne. I primi Romani non vollero nessun re, perché non potevano tollerarne il potere. I Romani di allora non volevano nessun re, per non sopportarne gli atteggiamenti…E il non volere nessun re significava per essi voler difendere i loro costumi e non assumere quelli d’Africa e d’Oriente…I principi che hanno mutato la forma dello Stato, che se ne sono resi padroni e vogliono impedire che il popolo se ne accorga, devono difendere quanto più possono la semplicità dei costumi della Repubblica...giacché il popolo guarda sempre all’esteriorità dello Stato repubblicano. Cosa che i granduchi di Firenze fecero a meraviglia: assunsero la signoria e conservarono la semplicità della Repubblica”.
Nel 209 cadde anche Taranto assediata da Marcello e poi da Fabio. Gli abitanti vennero resi schiavi, tranne quelli della rocca rimasti fedeli ai Romani. Il territorio fu reso agro publico. Taranto, che era stata un importante centro culturale, e la terza città italica dopo Roma e Capua, divenne una cittaduzza. Fu una grave perdita per l’ellenismo occidentale. Annibale sconfisse Marcello nel Bruzio, tuttavia Marcello venne rieletto per il 208 poiché manipolava le notizie e dissimulava le sconfitte. Comunque in una scaramuccia tra Venosa e Locri, che era la base di Annibale, Marcello rimase ucciso (208).
Caduta Cartagena, la capitale della Spagna diventa Cadice e nel 206 Scipione la attacca. Difesa malamente da Magone si arrese ai Romani che entravano per la prima volta nell’Oceano, mentre i Cartaginesi ne uscivano per sempre. Cadice non ci scapitò poiché i Romani la resero immune dai tributi e le assicurarono autonomia negli affari interni. Infatti, eliminata la concorrenza dei Cartaginesi diverrà una città assai prospera. Magone si rifugiò nelle Baleari. Scipione in 4 anni aveva sostituito all’impero fondato in Spagna dal genio di Amilcare, quel predominio culturale latino che rimarrà.
Asdrubale decide di tentare come extrema ratio per rialzare le sorti della guerra, il passaggio in Italia: era l’ultima carta poiché la Spagna aveva riconosciuto la superiorità delle armi romane. I consoli del 207 erano Claudio Nerone e Livio Salinatore. Le legioni furono portate a 24. Asdrubale passa i Pirenei nel 208, senza che Scipione cerchi di fermarlo. Era andato a svernare a Tarragona.
Asdrubale nel 207 passa il Monginevro e in maggio giunge nella pianura padana. Fece una traversata più agevole di quella di Annibale per l’alleanza con i Galli che lo aiutarono, né fu costretto ad affrettarsi per l’avvicinarsi dell’inverno. Quindi assedia Piacenza invano, chiama i Galli alle armi, poi scende per l’Adriatico. Intanto Annibale occupava Locri e Crotone, i centri che non poteva perdere poiché di lì si sarebbe imbarcato in caso estremo per l’Africa. Non pensava di raggiungere Asdrubale in Italia settentrionale in quanto la penisola era piena di legioni romane e il suo esercito era assottigliato. I due fratelli volevano congiungersi in Italia centrale per dividere il rischio della traversata di un paese nemico dimezzando il percorso. Annibale dunque avanza fino a Canosa avendo di fronte il console Claudio Nerone il quale viene a sapere che i due fratelli volevano incontrarsi in Umbria. Allora Claudio Nerone muove con 6000 fanti e 1000 cavalli a marce forzate verso il Piceno, mentre Livio seguiva Asdrubale. I due consoli volevano battersi con Asdrubale, non con Annibale. A Canosa rimanevano a fronteggiare Annibale 30 mila uomini, non meno di quelli del Cartaginese. Ne era a capo il proconsole Fulvio. Intanto Nerone percorrendo la via costiera era giunto al Metauro e si congiunse a Livio Salinatore sulla destra del fiume. Asdrubale era sull’argine di sinistra, quello verso Fano.
La propaganda
La guerra, allora come ora, era fatta pure di propaganda e i duci ne erano consapevoli. Alessandro Magno, dopo la scoperta della seconda congiura: quella “dei paggi”[2] affermò che ricevere il nome di figlio di Giove aiuta a vincere le guerre: “Famā[3] enim bella constant, et saepe etiam, quod falso creditum est, veri vicem obtinuit” ( Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni, 8, 8, 15), le guerre sono fatte di quello che si fa sapere (attraverso la propaganda), e spesso anche quanto si è creduto per sbaglio, ha fatto le veci della verità[4].
Dopo la conquista della rupe di Aorno (326 a. C.) Alessandro magnae victoriae speciem fecit[5], creò l’apparenza di una grande vittoria con sacrifici e cerimonie in onore degli dèi.
Nelle Storie di Livio, il console Claudio Nerone, in rapida marcia contro Asdrubale, che verrà sconfitto poco dopo, sul fiume Metauro (tra Fano e Senigallia, 207 a. C.) arringa brevemente i soldati dicendo: “Famam bella conficere, et parva momenta in spem metumque impellere animos” (27, 45), quanto si dice decide le guerre, e circostanze anche piccole spingono gli animi alla speranza e alla paura.
Si può chiarire il valore pratico, oltre che estetico, della parola attraverso l'espressione di Tucidide ta; e[rga tw'n pracqevntwn (I, 22, 2), le azioni tra i fatti. L'altra componente dei fatti sono le parole-lovgoi- dette dai capi della guerra: sul modo di riferirle, Tucidide dichiara le intenzioni e il metodo nella prima parte del capitolo metodologico (I, 22, 1).
La battaglia avvenne nel luglio del 207. Polibio 11, 2. Asdrubale morì in battaglia da prode. I Romani scannarono come vittime molti Galli ubriachi sui loro pagliericci. A Roma quando giunse la notizia della vittoria, in un primo momento non fu creduta, poiché era stata desiderata ardentemente, poi ogni tempio venne riempito di incenso e di focacce votive. Oramai nemmeno Annibale faceva più tanta paura. Claudio tornò con marcia rapidissima a sud e gettò la testa di Asdrubale nel campo di Annibale. Oramai il Cartaginese era ridotto a una difensiva sempre più circospetta. Radunò dunque nel Bruzio tutte le sue forze. I Lucani gli erano rimasti fedeli. I Romani nemmeno lì osarono attaccarlo. Per dare respiro al popolo oppresso dal servizio militare licenziarono 4 legioni: le due di Sardegna e le due del console Livio che entrarono in Roma trionfanti con il loro capo. Sicché nel 206 le legioni da 24 si ridussero a 20.
Appiano considera la battaglia del Metauro una compensazione di quella di Canne. Così Roma assaporò alternatamente la buona e la cattiva fortuna: ou{tw paralla;x hJ povli~ eujtuciw'n kai; sumforw'n ejpeira'to (7, 53).
Questa guerra fu rovinosa per la piccola proprietà e trasformò fiorenti villaggi in covi di ladroni.
Anche a Cartagine intanto i proprietari terrieri si adoperano per la pace per non vedere i loro campi devastati da Scipione che nel 204 era sbarcato in Africa per costringere Annibale a seguirlo. Fabio Massimo era contrario a questa esportazione della guerra, ma Scipione vedeva più in Africa che tra i monti del Bruzio un campo adatto alla sua energia esuberante. Il popolo, e particolarmente i cavalieri, si aspettavano grossi vantaggi dalla conquista di nuovi territori da sfruttare. Per il 205 vennero eletti Scipione e Licinio Crasso che come pontefice massimo non poteva abbandonare l’Italia né fare concorrenza a Scipione. Intanto Magone si preparava ad uno sbarco in Italia. Nel 205 si impadronì di Genova.
Molti volontari etruschi si unirono a Scipione: erano interessati alla pace nei mari per la libertà dei commerci.
Scipione la offerse a condizione che Cartagine divenisse uno stato vassallo di Roma. Nel 203 Annibale e Magone partono dall’Italia.
Pesaro 7 settembre 2024 ore 17, 39
giovanni ghiselli
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[1]Jaeger, Paideia 1, p. 73.
[2] Avvenuta in Sogdiana, l’attuale Uzbekistan, nella primavera 327 a. C
[3] Cfr. fhmiv. La gente non solo vive e mangia ma pure fa e interpreta la guerra seguendo il “si dice”. Seneca:"nulla res nos maioribus malis implicat quam quod ad rumorem componimur " (De vita beata , 1, 3), nessuna cosa ci avviluppa in mali maggiori del fatto di regolarci secondo il "si dice".
[4] Cfr. Historiae Alexandri Magni, 3, 8, 7 dove Dario, prima della battaglia di Isso (novembre 333), dice “famā bella stare”. Come nelle Eumenidi di Eschilo, le parti in conflitto hanno un pensiero comune.
[5] Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni, 8, 11, 24.
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