3 agosto “la Repubblica”
“E’ brevissima l’epopea di Cartagena. Ne ricapitoliamo la storia davanti a un caffè. Dunque: Amilcare sente che il partito filo-romano vuol fargli la pelle, scappa dall’Africa e fa vela a Ovest, e con Annibale ancora bambino, approda a Cadice , ai margini del mondo conosciuto. Soggioga tribù, s’impossessa di miniere, trasforma il Sud dell’Iberia in una colonia, manda alla madrepatria favolosi carichi d’argento, riacquista il consenso perduto. E’ qui che il cognato Asdrubale fonda Cartago Nova, la più grande colonia africana in Europa. Ma pochi anni dopo, mentre Annibale devasta l’Italia spadroneggiando in casa del nemico, Scipione lo beffa marciando sulla Spagna e prendendo Cartagena. Erano così le guerre di una volta: più facili da vincere in trasferta…E’tutto così chiaro: Cartagine fu la Venezia del Mar d’Occidente , e Cartagena la sua base in Europa”[1]
.
Che io sappia per averlo letto altrove questo Asdrubale detto il bello era il cognato di Annibale e il genero di Amilcare per averne sposato una figlia sorella dunque di Annibale. Non so se sia la Salambò del romanzo di Flaubert,
“E’ attorno alle colonne d’Ercole che tutto comincia. E’ al tempio di Ercole-Melkart che Annibale celebra prima di imbarcarsi nella sua avventura. E’ la strada di Ercole che lui fa quando passa i Pirenei, chiamati così dall’eroe greco dopo la morte dell’amata Pirene (figlia di Bebrice re di Narbona che Eracle attraversò andando a prendere i buoi di Gerione ndr)….dopo le Alpi…sul Tevere. E sul Tevere che fa? Uccide un pastore sputafuoco con tre teste, detto Caco, gli ha rubato due tori e quattro manzi tirandoli per la coda in modo da confondere le tracce. Di nuovo la strada di Annibale. E poi? Alle porte dell’Averno va, in Campania, dove Annibale si gode gli ozi di Capua. E poi? A Locri, dove il Nostro parte per tornare a Cartagine, quindici anni dopo. Pazzesco. E se Annibale avesse fatto apposta la strada di Ercole uccisore di mostri e fondatore di città? Leggo ancora che lui aveva sempre con sé un centro-tavola d’oro raffigurante l’eroe. Ercole Epitrapèzios si chiamava e aveva accompagnato Alessandro il Grande nel suo cammino verso l’ignoto... Ora lo so: sto seguendo un genio, che ha costruito un’epopea ricalcando uno schema immortale” (Paolo Rumiz, la Repubblica, 3 agosto 2007, p. 33).
Automitopoiesi di Annibale dopo quella di Alessandro dunque.
“Gli elefanti sono fatti per restare nella memoria, e nessuno mi toglie dalla testa che Annibale se li è portati dietro per questo. Lui sapeva che, dopo la sua performance, qualsiasi altro esercito sulle Alpi non avrebbe avuto lo stesso effetto. Cosa che, puntualmente, accadrà già con suo fratello Asdrubale, che nessuno ricorda e che pure passa dopo qualche anno, col doppio di elefanti e molte meno perdite. Lo stesso con Giulio Cesare, Carlo Magno e Napoleone. Tutti degradati al rango di imitatori di un’idea” (P. Rumiz, “la Repubblica, 4 agosto 2007).
Piacenza, pilastro d’inizio della via Emilia. Leggo la data di costruzione: 186 avanti Cristo. La seconda guerra punica è appena finita, lo choc dell’invasione è ancora diffuso, la Penisola sfiancata da quindici anni di battaglie…lo stradone …costruito ventidue secoli fa dal console Marco Emilio Lepido, è stato generato dalla grande paura annibalica. E’ nata a causa di Annibale. Nessuno più, aveva deciso il Senato, avrebbe dovuto passare impunemente gli Appennini…Occorreva dunque una barriera, ma una barriera intelligente…Una strada veloce per le legioni, che collegasse le colonie-avamposto da Rimini a Piacenza, attraverso Forum Julii (Forlì), Bononia (Bologna), Mutina (Modena) e altre…La via Emilia non è una strada… E’ una linea di arroccamento, un limes. Un’incredibile, funzionale, efficacissima, avveniristica e geniale frontiera. (P. Rumiz, “la Repubblica, 7 agosto 2007, p. 31).
Bologna venne sottratta nel 196 ai Galli Boi, e fu rifondata nel 189 col nome di Bononia. Quello etrusco era Felsina, latinizzato da Velzna.
Plinio il Vecchio ricorda che si chiamava Felsina quando era la prima città dell’Etruria: Felsina vocitata tum cum princeps Etruriae esset, N. H. 33, 37, 4.
Bononia fu colonia di diritto latino, ossia non aveva la cittadinanza romana come i municipia e non aveva diritto di voto. Bologna fiorì per la piccola proprietà fondiaria e per gli scambi frequenti, data la posizione e il reticolo viario. Decadde quando la piccola proprietà venne fagocitata dalle grandi aziende e l’autosufficienza di queste rallentò gli scambi atrofizzando il reticolo viario.
Sant’Ambrogio nel 387 la annoverò tra i cadaveri di città semidistrutte (semirutarum urbium cadavera) incontrati lungo la via Emilia durante un viaggio di ritorno da Pesaro a Milano.
Sant'Ambrogio, alto funzionario dell'impero e poi vescovo di Milano e metropolita della provincia ecclesiastica di cui faceva parte l'Emilia, percorrendo la via Emilia , sul finire del secolo IV (circa nel 387), vide le antiche città create dai Romani ridotte in maniera tale da essere definite dei cadaveri di città semidistrutte (semirutarum urbium cadavera).
In una sua lettera egli espresse sulla condizione delle città emiliane un giudizio molto pessimistico, ma purtroppo realistico, di quello che aveva visto. Elencò le situazioni più gravi partendo dal territorio bolognese: Claterna - oggi scomparsa, presso Castel S. Pietro Terme - Bologna, Modena, Reggio, poi Brescello (allora sede di diocesi) e Piacenza.
Non mancò di segnalare il degrado e l'abbandono dell'Appennino.
Fu a Bologna in occasione del ritrovamento delle reliquie dei santi Vitale e Agricola , collocate poi nel complesso di S. Stefano . Con ogni probabilità fu all'epoca di sant'Ambrogio che furono collocate attorno ai resti della città semidistrutta le Quattro Croci .
Il passaggio dall’Emilia alla valle dell’Arno: “Un viaggio disastroso: bufere di neve peggio che sulle Alpi, paludi, morte di tutti gli elefanti. Il Nostro perderà anche un occhio, per un’oftalmia mal curata, e da allora resterà per tutti “il losco”. Petrarca ci costruirà rime un po’ scontate, scrivendo del “gran Cartaginese” che “l’un occhio avea lasciato in mio paese,/stagnando al freddo tempo al fiume tosco,/ sì ch’egli era a vederlo strano arnese/sopra un grande elefante un duce losco”.
Un grande elefante…il leggendario “Saurus”, che portò Annibale verso Firenze durante la malattia…Ma il “Losco” va avanti, anche con un occhio solo ci vede benissimo, ha capito che dopo lo choc della Trebbia Roma è nel panico, vive-azzarda Brizzi- una sindrome “da 11 settembre” (P. Rumiz,”la Repubblica”, 8 agosto 2007.
“Dopo la battaglia del Trasimeno, Annibale vittorioso aveva fatto costruire una ustrīna una camera di combustione –cfr. uro brucio- per cremare una parte dei ventimila caduti nella seconda battaglia campale fra Roma e Cartagine…Zanzare, canneti, aria di temporale, una scarpata che scende sul Trasimeno. Eccolo il malpasso che inghiottì le legioni…Lo guardi e pensi: solo un idiota poteva cacciarsi lì dentro. Ma Flaminio lo fece. Perché? “Semplice”-risponde Brizzi-i romani ritenevano che le battaglie campali non dovessero comportare trucchi…Ci si schierava in campo aperto e ci si confrontava.” E Annibale? “Annibale è Cartaginese ed è intriso di cultura greca. L’astuzia, per lui, fa parte della guerra.
A Rumiz che gli chiede del corpo del console, Brizzi risponde: “Ho trovato un passo di Livio che spiega tutto. Un flash back del Trasimeno, ambientato anni dopo. Annibale è scontento dei suoi soldati, sfiancati dagli ozi di Capua e si lamenta: “Ubi ille miles meus est, qui derepto ex equo Caio Flaminio consuli caput abstulit?”. Ecco perché Flaminio vagava senza pace. Era un fantasma senza testa, come Carlo I d’Inghilterra, figlio di Giacomo I e nipote di Maruia Stuarda, decapitato nel 1649” (P. Rumiz, “la Repubblica, 9 agosto 2007, p. 31)..
La propaganda
“Succede che il nostro saccheggi la Campania” (dopo il Trasimeno, 217 a. C.) “Sceglie i luoghi per la loro visibilità scenografica più che per la loro importanza strategica. Vuole essere visto, fa della Campania il suo palcoscenico. E’ furbo come il diavolo: rapina ogni luogo tranne i poderi campani dello stesso Fabio, per far credere al Senato di essere in combutta con lui”. Lo aveva fatto il re Archidamo con i poderi di Pericle negli anni successivi al 431. Pericle aveva donato quei poderi al popolo.
Brizzi: “La morte del mito è la cosa più oscena dell’oggi. E’ la fine dell’incantamento, dell’immaginazione, del desiderio…Senza quella cosa l’uomo si perde, diventa un grande invalido. E perciò andiamo, siamo sulla strada giusta” (“la Repubblica”, 10 agosto 2007, p. 37)
Canne 2 agosto 216: “Sessantamila morti fanno seicento cataste di cento corpi ciascuna. Il doppio di Austerlitz…Brizzi: “La battaglia di Cheronea 338 fu un trauma per i Greci, ed ebbe quattromila caduti. Al confronto, Canne è un inferno…Canne è il macello di una classe dirigente che vuole combattere in prima linea, la morte di tre consoli ed ex consoli, di otto questori, quaranta tribuni, ottanta senatori. Il fratello minore di Annibale, Magone, portò a Cartagine tre canestri di anelli (come Livio scrive, che non erra Dante, Inferno, 28, 12), tolti dalle dita degli equites in quella sola battaglia. Canne è morti insepolti, divorati dai cani e spogliati delle loro armature; è gambe sgarrettate dal colpo di gladio dei cavalleggeri spagnoli; è detruncata corpora, ferite che ultra mortem patebant, è agonia di settimane per infezione e setticemia senza un medico o un infermiere sul campo…Canne è anche scannamento dei sopravvissuti all’alba del giorno dopo…a Canne tutto avviene davvero nello spazio di uno stadio. O meglio, di una tonnara. Avviene con la tecnica e i tempi di una tonnara….Brizzi parla di “superamento della falange macedone di Alessandro Magno, di nascita della “manovra avvolgente”, di valorizzazione della cavalleria contro una legione basata sulla fanteria pesante…”Annibale vinse arretrando”. Vedo sulla ghiaia il fronte cartaginese convesso (incurvato verso l’esterno) che si lascia investire, diventa concavo (rientrante), poi si richiude, finché le cavallerie alle ali sigillano lo spazio rimanente, formando una camera della morte imperforabile come quella di una tonnara…I Romani erano in novantamila, buon dio, più del doppio del nemico. Come poterono soccombere?
“Il numero eccessivo fu il limite. Combatterono in novantamila nello spazio in cui erano abituati a combattere in quarantamila. Si ostacolarono a vicenda e non riuscirono a reagire…La cavalleria romana era inferiore e i fanti erano quasi tutte reclute, dopo le stragi sulla Trebbia e sul Trasimeno…i due consoli erano in disaccordo tra loro, e la tecnica del comando a giorni alterni giocava a favore di Annibale…”Ti rispondo con Polibio: dopo Canne risultò evidente ai posteri che in tempo di guerra è meglio avere la metà dei fanti rispetto ai nemici e un’assoluta superiorità in cavalleria, piuttosto che affrontare la battaglia con forze più o meno uguali a quelle dei nemici”.
Ci ha raggiunto Vincenza Morizio, professoressa di storia romana all’università di Foggia…Delle grandi battaglie non rimane mai nulla. Già di Waterloo non si trova più nulla. I corpi vengono spogliati di tutto ciò che serve, i contadini fanno il resto. Proprio la battaglia di Canne lo dimostra: i fanti libici si presentano, terribili, davanti alle legioni, indossando le armi tolte ai Romani uccisi nella battaglia del Trasimeno. Mostrano al nemico la sua stessa morte. E poi, qui o altrove fa poca differenza. “Canne è un luogo della mente” ammette la Morizio.
La Repubblica, 11 agosto 2007, p. 35.
Brizzi dovrebbe essere Giovanni Brizzi professore di Storia romana all’Università di Bologna
Altro massacro subito dai Romani
la Repubblica 13 agosto p. 29“Succede, racconta Brizzi, che poco dopo la battaglia di Canne, a Nord, in una foresta impenetrabile sacra ai Celti, e denominata selva Lităna, poco lontana da Modena, i Galli Boi alleati di Annibale attirano in una trappola il console Postumio Albino e i suoi quindicimila uomini, massacrandoli tutti”.
Tito Livio dice che Lucio Postumio aveva due legioni romane e molti socii arruolati nei paesi dell’Adriatico Legiones duas romanas habebat Postumius, sociumque ab Supero mari tantum conscripserat ut viginti quinque milia armatorum in agros hostium induxerit (23, 24).
“Il console viene ucciso, decapitato, la sua testa sacrificata viene placcata in oro e argento per essere trasformata in coppa da vino”
Livio: “Purgato inde capite, ut mos iis est, calvam auro caelavere, idque sacrum vas iis erat, quo solemnibus libarent, poculum idem sacerdotibus ac templi antistantibus” (23, 24) la medesima coppa per i sacerdoti e i capi del tempio.
“Accadde in quella landa della Padania, qualcosa di terribile e soprannaturale: gli alberi stessi partecipano allo scontro, si avventano sui legionari paralizzati dalla paura. Sono, probabilmente, Galli mimetizzati nella brughiera; e sono, anche, alberi segati in modo tale da precipitare al primo contatto e schiantarsi sulla compagine in marcia, spezzandone l’assetto di difesa.
Livio :“Galli arbores ita inciderunt, ut inmotae starent, momento levi impulsae occiderent”, cadessero spinti da un leggero urto.
“Qui è la stessa situazione della selva di Teutoburgo, dove Varo andrà a cacciarsi in bocca al nemico in un terreno difficile e inesplorato, per essere sterminato con tutti i suoi uomini dai Germani di Arminio (9 d. C.). Ma è anche, a ben guardare, un’anticipazione del Macbeth di Shakespeare, tragedia di sangue che si conclude con la visione della “foresta che cammina”, il bosco vendicatore di Dunsiname in marcia contro il castello del regicida.
E’ lo scenario barbarico degli alberi combattenti, caro almondo celtico: quello che viene evocato dal poema epico bretone “Cad Goddeu”, dove i soldati si trasformano in alberi e sconfiggono il nemico dopo aver alzato le loro voci in “quattro toni d’armonia”….la paura di Roma…Episodi inspiegabili come la Selva Lìtana, stragi spaventose come Canne, unite a segni del cielo come grandinate, pestilenze o nascite di bambini deformi innescavano fiammate di superstizione e timor religioso, con appassionati ritorni alla ritualità arcaica. Quella dei sacrifici umani. Cominciò con le vestali, che in tempi come quelli era facile accusare di sacrilegio per lesa verginità. Un corruptor lo si trovava sempre, e quello per primo finì al patibolo-Lucius Cantilius si chiamava-flagellato a morte, col collo sulla forca, nudo, in pieno comizio.
Livio: “L. Cantilius scriba pontificis, quos nunc minores pontifices appellant, qui cum Floronia stuprum fecerat, a pontifice maximo eo usque virgis in comitio caesus erat, ut inter verbera exspiraret” (22, 57).
“Ma erano le vestali, ci raccontava Vincenza Morizio, “la cartina tornasole della purezza della Res Publica” ed erano soprattutto loro a dover morire. La punizione venne inflitta “con una ritualità cupa”: un corteo attraversò la città con la colpevole chiusa dentro un carro, poi la vestale fu chiusa in una stanza sotterranea per morire di fame. Lo Stato non doveva macchiarsi della colpa di uccidere una sacerdotessa: per questo non usava il ferro e, per scaricarsi definitivamente la coscienza, lasciava nella camera della morte appena un po’ d’acqua e pochissimo cibo. Era chiaro: si trattava di un sacrificio umano giuridicamente mascherato da condanna ed esecuzione capitale”.
Cfr. Antigone di Sofocle
“Ma il peggio venne dopo. Nel clima di disfatta militare, un inviato speciale fu spedito a Delfi a consultare l’oracolo degli oracoli. Al suo ritorno, venne riesumata un’antica profezia etrusca, secondo la quale Roma sarebbe stata invasa dai Galli e dai Greci. Ora, poiché le profezie erano di per se stesse vere, dunque inevitabili, si poteva soltanto depistarne l’effetto, facendole avverare in parte, in una situazione, per così dire, “sotto controllo”. Galli e Greci avrebbero invaso Roma? E Roma decise di seppellire vivi, in pieno Foro Boario, una coppia di incolpevoli Greci e una di Galli, destinati a “conquistare” il cuore della città morendo nel peggiore dei modi. A suggello di questa “no stop” funeraria, il Senato proibì ogni manifestazione di lutto per i morti in battaglia. Era vietato piangere e urlare. E alla fine Roma tutta fu invasa dal silenzio”
“la Repubblica” P. Rumiz 13 agosto. P. 29
In effetti a Roma i sacrifici umani furono praticati. Vennero sacrificati quattro transappenninici (Livio, Storie, XXII, 57, 6),.
E’ una contraddizione con quanto detto sopra sugli Etruschi, biasimati per i sacrifici umani ma “i fatti della storia non sono sillogismi”[2].
Tito Livio condanna la pratica del sacrificio dei prigionieri da parte degli Etruschi come barbarica e vergognosa: dopo un successo militare contro l'incauto console Fabio, i Tarquiniesi nel 358 sacrificarono trecentos septem milites romanos, un supplizio brutale che rese ancora più notevole l'onta subita dal popolo romano[3].
Mazzarino ne ricava una concezione cisappenninica della vera Italia cui consegue l’idea della exterminatio dei due popoli transappenninici: Galli e Greci.
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