Ifigenia LXIII. Valle di lacrime poi valle di gioie
Il tre gennaio Ifigenia non si fece sentire e tornarono a punzecchiarmi gli assilli. “Perché non ti cerca?” Quindi, senza aspettare la mia risposta replicavano essi stesso con i loro grugni dissacratori abituati a indagare nel fango e nel letame: “il caso è uno solo: delle sue grazie gode quell’ ambulante”. In effetti non mi era chiaro se avesse lasciato del tutto il marito.
Allora il mio sentimento affannato, se voleva riprendere lena, doveva tornare alle belle estati di Debrecen , alla grande foresta sempre viva e frusciante nella memoria ancora attraversata dal vento odoroso che accarezzava le fronde e le rendeva canore di voci pofetiche beneauguranti.
Oppure ai viaggi in Grecia dove andavo a cercare salute mito e poesia e nell’imbarcarmi baldanzoso, se incrociavo due della ciurma, gridavo giulivo stirando il collo come un’oca: “Nunc agite, o socii, propellite in aequore navem ", ora avanti, compagni, spingete nel mare la nave.
Questi ricordi mi aiutarono e mi portarono bene. Infatti i giorni seguenti Ifigenia veniva a trovarmi piena di amore: ibi illa multa iocosa fiebant quae ego volebam nec puella nolebat. La ragazza bella non aveva altro amante che me. Gli atti soavi di lei mi rassicuravano.
Venerdì 12 gennaio non venne a scuola senza avermene preavvisato. Mi mancava al punto che il liceo Minghetti pur brulicante di belle ragazze mi sembrava un deserto. Eppure non ebbi l’angoscia. Ero ottimista sul nostro amore. Al punto che terminate le ore di lezione andai nel bar dei nostri intervalli sperando di vederla arrivare. Sentimentalmente, non razionalmente. Guardavo la porta nell’attesa che si aprisse mostrando la luce del suo sorriso amabile.
In effetti quel momento epifanico giunse e si avverò. Mi lanciai ad abbracciarla tre volte (tri;~ me;n ejformhvqhn) ed ella non volò via simile all’ombra o anche al sogno, skih'/ ei[kelon h] kai; ojneivrw/-e[ptat j come la madre morta di Odisseo[1].
Ci baciammo a lungo, quindi attraversammo il centro della città rimanendo semiabbracciati e sorridendo a chi ci guardava con simpatia. Sentivamo di avere un potere buono: quello di comunicare alle persone il nostro benessere, la nostra simpatia per la vita.
Faccio un esempio la cui funzione educativa e dimostrativa è inobliabile: un collega calvo, stanco, annichilito anche nel nome, si chiamava Nullo, una mattina scendendo le scale mi domandò: “Quid agis in hac lacrimarum valle?”
Ebbene a questa cara persona risposi “Correggi ottimo Nullo, asciuga quelle lacrime tue che non hanno ragione di essere e ripeti con me: danzo in questa valle di gioie e canto e faccio l’amore”. Il collega amico, sorrise, ringiovanito dal mio buonumore.
Ifigenia LIV. Bisogna avere sofferto molto per arrivare a gioire tanto.
Quel tempo è stato radioso. Allora sentivo una spinta erotica enorme, una sollecitudine benevola, educativa per una creatura vivente e separata da me di breve intervallo; avevo un interesse che prevaleva sui mostri feroci annidati nel mio passato infelice: più forte del mio narcisismo, preponderante sui gravi sentimenti di colpa che avevano spesso mortificato la mia volontà di un rapporto cordiale con gli esseri umani dopo le ore di scuola. Finite queste, ogni volta che cercavo di uscire dal chiuso recinto della mia angusta persona, ero andato a sbattere il naso, simile a becco di uccello rapace, contro lo specchio dove mi osservavo ghignando con soddisfazione maligna.
Invece Ifigenia, fornita di ali grandi e robuste al pari di Nike, mi portava con sé oltre il vetro piombato dove mi vedevo riflesso, e mi apriva la prospettiva dell’umanità, della bella natura dalle trecce verdi , del cielo sereno. Quella ragazza in certe situazioni per me era stata come il sole di giugno che ristora e rallegra il nostro emisfero.
La mia compagna illuminava, colorava e caricava di significati buoni tutto quanto vedevo e ricordavo. Con lei al mio fianco nel letto tutta la mia vita tribolata veniva redenta da questo risultato finale: se avessi sofferto di meno, non avrei gioito altrettanto. Si rinnovava il miracolo terapeutico operato da Elena nel 1971.
Lo scorso agosto ho fatto un viaggio ciclistico in Grecia senza essere in perfetta salute. Alla fine di una tappa di 100 chilometri, tutti controvento, sono caduto per terra più morto che vivo. Del resto tra un paio di mesi compirò molti anni. Ne ho già passati più di quelli di Mozart e Leopardi sommati insieme. Quasi 80 non tutti malvissuti a dire il vero.
Ero steso davanti all’ingresso del sito meraviglioso di Olimpia. Se morivo lì magari entravo nel paradiso degli atleti e del loro cantore. Stavo per lasciarmi andare ma Alessandro comes e carissimo amico, mi ha teso una mano e mi ha fatto rialzare. Però la spinta a procedere, ad affrontare il giorno seguente la lunga salita del Taigeto con rinnovato vigore l’ho avuta invocando ripetutamente le migliori tra le mie amanti belle e fini: Elena prima di tutte, la donna circondata da una alone sacro già nel nome.
Pesaro 18 settembre 2024 ore 11, 10.
giovanni ghiselli
p. s.
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