domenica 1 settembre 2024

Ifigenia. Ricordi e progetti.


 

argomenti

La ricerca delle fonti per

l'opera. La rivisitazione dei luoghi"archeologici". La nicchia

santa. Il rimpianto davanti alla libreria Feltrinelli. La rassegna degli

appunti manoscritti

 

 Dovevo scrivere dunque Per alcune

storie disponevo di appunti, altre dovevo ricostruirle avvalendomi

 

 

solo della memoria. Era necessario che mi impegnassi a lungo,

cominciando dal reperimento degli appunti, i commentarii sulla mia

eterna lotta amorosa con le femmine umane. I primi risalivano alla metà

degli anni Sessanta ed erano sparsi tra diari e libri; perciò non mi

trovavo nel vuoto di cose interessanti da fare, non rischiavo di sparire nel vuoto

 del caos e della mia identità; anzi, avevo

bisogno di tutte le ore libere per realizzare il grande progetto:

raccontando i miei amori falliti a causa di pochezza morale, avrei

dato un insegnamento ai lettori, allargato la cerchia delle persone

influenzate da me, e avrei indagato, conosciuto meglio me stesso.

Se il mio demone buono avesse reso propizio il mio scrivere parole ricche, strane e non prive di effetto,

forse avrei anche potuto riconquistare Ifigenia. Rivitalizzare l’amore mortificato dall’uso.

Chissà: i giorni a venire sono i testimoni più sapienti[1].

Se fossimo

tornati ad amarci dopo avere compreso, non ci saremmo lasciati

più discostare dalle lusinghe esterne o dal nostro narcisismo

malefico. Avremmo saputo digerire e assimilare la rinnovata, grande felicità.

Intanto, lasciandomi quando aveva bisogno di me, ella confutava

l'iniqua teoria  secondo la quale solo la

donna vergine non è disonesta in partenza e indegna del marito

che invece può avere frequentato pure prostitute o magari cinedi

rimanendo un grand'uomo, come Giulio Cesare16

 per esempio .

Nel novembre del 1978, quando era entrata per la prima volta in

camera mia e si era spogliata sorridendomi senza malizia,

irradiandomi della sua luce, Ifigenia mi aveva fatto sentire la

gioia di vivere, la felicità di essere riamati dalla vita cui avevo

sempre proteso gli acuti tirsi dei desideri e la delicatezza dei

sentimenti, ricevendone fino allora un contraccambio

solo peregrino e mensile. Quella ragazza venticinquenne, radiosa, era lo stesso

sole incarnato che si era degnato di entrare nel mio appartamento, di

stendersi nel mio letto, e mi aveva offerto di fondermi con la sua

luce divina.

Il 15 marzo del 1981 il dio era oscurato da nuvole grosse e buie,

ma io avevo la confortante coscienza che dietro le nubi acquose il

suo volto santo c'era pur sempre, e presto o tardi sarebbe riapparso

ancora più bello e radioso. Dipendeva almeno in parte da me.

16

Catullo lo chiama"Cinaede Romule...impudicus et vorax et aleo (29, 5 e 10),

Romolo invertito..libidinoso vorace e biscazziere, e anche, sia pure, forse, con

ironia Caesar magnus (11,10), Cesare grande.


 

 

 

Potevo indurre il dio a farsi vedere di nuovo. Queste furono le riflessioni

della mattina.

Il pomeriggio andai a San Pietro, nell'osteria di due sorelle anziane e di un loro fratello intronato,

per osservare con attenzione uno dei posti dove andavamo quando

eravamo curiosi uno dell'altro: l'archeologia della storia d'amore

avrei potuto intitolarne il capitolo; ma per scriverlo dovevo

ritrovare i sentimenti e i pensieri di quel tempo remoto, quasi

dimenticato oramai. Perciò era necessario rivisitare i luoghi.

Mi fermai dieci minuti sulla panca dove in un maggio lontano la

ragazza si era seduta sulle ginocchia mie, davanti agli amici.

Quella volta ero stato contento dell'atto, pensando che fosse

espressivo di forte affetto. Ma con il volgere delle stagioni avevo maliziosamente pensato

 che tali gesti di parvenza amorosa, in realtà erano versi

nevrotici ripetuti ossessivamente per mettere alla prova la mia pazienza:

vizi erano, mezzi subdoli per impedirmi di parlare e pensare.

Uscito dalla bettola, andai a cercare una nicchia erbosa dove

avevamo fatto l'amore. In verità non era stato agevole: tra le erbe

c'erano ortiche, spini e sassi acuti; mi ci vollero dieci minuti di

sforzi per arrivare al piacere, oltretutto non condiviso da lei:

ebbene gli sgraffi di entrambi  per  quella mia copula tribolata,

non ci diedero angoscia poiché nel primo pomeriggio, in casa mia,

avevamo già fruito di cinque orgasmi pieni, a testa, e ancora di più

perché ci stavamo simpatici, ci fidavamo a vicenda nel maggio del

'79.

Cercavo quel luogo situato tra la vegetazione lussureggiante che

non c'era più. Tuttavia lo trovai. Mi colpì la presenza di tre

gruppetti, ciascuno di tre viole, che sbucavano dal terreno spoglio,

duro e grigio. Quanto mutata era la calva e scolorita terra di aspetto

ferreo17

 

di quel fine inverno da  quella variopinta e canora di

maggio! E com'era mogia l'anima mia in confronto ai salti di gioia

che faceva quando ifigenia, con splendidissima vitalità, con

intuizioni geniali, con l'aurea bellezza, l'aveva liberata dalle

Nota

17

Cfr. Orwell, 1984, trad. it. Mondadori, 1989, p.30: "Era nel Parco, in una

fastidiosa giornata di marzo, rigida e ventosa, e la terra sembrava di ferro, e tutta

l'erba sembrava morta e non c'era neppure un germoglio da nessuna parte, tranne

qualche croco, qua e là, spuntato solo per essere spazzato dal vento".


 

 

 

rugginose catene dei luoghi comuni! Staccai dal terreno un terzetto

di viole lasciando là gli altri due: i tre fiori raccolti erano il

simbolo delle primavere vissute con lei; i sei, rimasti a

segnare e consolare la nicchia santa, rappresentavano la speranza

di ritrovare la mia compagna, di passare nuove stagioni felici con

ifigenia.

Dopo avere messo in tasca le tre creature strappate alla terra, mi

avviai per una strada sulla quale avevamo camminato a lungo il

pomeriggio in cui la mia amante aveva confessato al marito coetaneo che

amava riamata un uomo di trentaquattro anni. Era giugno.

Temevamo di non avere abbastanza da dirci nelle lunghe giornate

che avremmo quasi dovuto passare insieme dopo la possibilità

 a frequentarci come due fidanzati. Tanto più che era finita

la scuola, la sua supplenza, e con il liceo ci erano venuti meno un ambiente, un

modus vivendi, e il principale argomento di conversazione. Per

nascondere tale timore, parlai più del solito: le raccontai un

romanzo di Thomas Mann che avevo letto da poco; poi celebrai con parole rituali e pure commosse lo

splendore della natura nel mese più illuminato; quindi esposi i

miei vari piani per tornare al liceo, tutti vanificati dal fato urgente

che mi spingeva con forza verso questo romanzo. Ifigenia non

parlava; immagino che condividesse la mia paura di fondo: che le

ore a disposizione, diventate fin troppe, avrebbero reso meno

commosso e attivo, ossia tanto noioso, o addirittura angosciante il

nostro frequentarci. Invece poi, sulle spiagge adriatiche dove

stavamo insieme dalla mattina alla sera nel sole e nell'acqua, ce la

cavammo bene aumentando le razioni quotidiane di sesso, baci e

sorrisi.

Rievocavo tutto questo percorrendo una

strada

sterrata in

direzione di una casa colonica abbandonata, una delle tante dove

avevamo giocato all'amore:"Ibi illa multa tum iocosa fiebant "18.

 

Volevo entrarci per osservare, aspirarne gli odori e ricordare. Ma

poco prima di arrivarci, in un campo verde di grano notai il corpo

massacrato di un piccolo gatto: lo guardai con attenzione e mi

commossi pensando che Ifigenia nelle mie mani era stata

18

Catullo, Carmi, 8, 6. Allora là si facevano quei molti giochi amorosi.


 

 

 

 indifesa come quella bestiola nel momento in cui

qualche barbaro l'aveva ammazzata. Quando mi aveva chiesto

aiuto per crescere, certamente mi aveva donato il suo corpo bello,

ma, saziata la grande libidine , io non sapevo più che farne, e lei

non aveva altro da offrirmi; ebbene in tali circostanze, alla

creatura appiccicosa, noiosa, lamentosa, non avevo fatto tanto

male da schiacciarla e annientarla. Questa era una consolazione

non piccola.

Concluso il pellegrinaggio, rientrai nell'osteria per nutrirmi. Chiesi

un solo panino, nemmeno grande, e un bicchier d'acqua, secondo

la promessa fatta la sera prima all' ex compagna.

Quindi tornai a casa. Erano le quattro. Pioveva. Mi sentii molto

solo e infelice. Scesi nell'autorimessa per vedere se c'era ancora la

sua bicicletta, una Bianchi nera, nuova fiammante. Non la vidi.

Era venuta a prenderla, con le chiavi che le avevo lasciato, senza

salire in casa, oppure salendo mentre ero fuori. Provai il terrore di

averla perduta davvero, e per sempre.

Salii sulla mia bicicletta e pedalai sotto la pioggia fino alla libreria

Feltrinelli dove ci eravamo dati il primo appuntamento nell'ottobre

del '78. Poi tanti altri. Mi fermai davanti alla vetrina più grande.

Di fronte ci sono le torri. Lì confluiscono diverse strade. Il cielo,

uniformemente grigio, non mi attirava: non lo guardavo come Agave alla fine delle Baccanti e come faccio spesso anche io;  dalle vie confluenti dove mi trovavo

speravo di vedere arrivare ancora una volta lei, la donna che mi aveva lasciato. Come il

sole da una nuvola acquosa, in quel tempo lontano Ifigenia era sbucata dalla San Vitale, arteria

angusta e buia che porta a Ravenna e alla marina. Indossava un

impermeabile chiaro, foderato di lana; aveva i capelli neri,

luminosi, non lunghi, e negli occhi scuri, brillanti di gioia,

racchiudeva un sorriso rivolto alle sue stesse speranze, alla sua

attesa d'amore, e alla mia. Purtroppo quel giorno lontano non

avevo apprezzato debitamente i presagi lieti, le promesse e le

speranze di felicità impresse nel volto della ragazza che avanzava

splendidamente verso di me per farmi partecipare dei suoi doni

celesti. Anche per questo speravo di vederla arrivare un'altra volta.

Troppo occupato dalla brama, prima, poi dalla rischiosa fatica di

godere la sua carne fresca e soda, avevo perduto l'occasione di

contemplare e comprendere la poesia incarnata in lei. In quel

tempo volevo trovare il Giovanni di Mozart dentro di me,


 

 

l'ingannatore

, l'iniquo 19

 

che Kierkegaard definisce "l'ncarnazione

della carne"20.

 

Da imbecille qual ero, avevo seguito una suggestione fantasiosa imparata  perdendo

un'occasione di felicità reale. Però forse quanto non avevo realizzato

vivendo, l'avrei compiuto scrivendo. Valeva la pena di ripercorrere

con la memoria e fissare su tanti fogli con la parola scritta, la

storia di due anni e quattro mesi passati con lei; anche

di

un'enorme fatica pluriennale

era degna quell'opera, pure

a

discapito di altre occupazioni piacevoli o serie essa andava compiuta,

siccome con tale impresa  avrei capito e fatto capire quanto nei libri

non si poteva trovare

raffigurato con la

chiarezza e la

densità che avrei voluto raggiungere. Bisognava

comprendere per quale ragione un benessere fondato su orgasmi

molto numerosi e piacevoli, però istantanei e bisognosi di

conferme continue, non fosse cresciuto fino a diventare gioia certa

e sicura- eujdaimoniva,  un buon rapporto con il mio demone e con quello di lei.

Con tale proposito tornai a casa. Guardai i pochi appunti che

avevo preso durante la relazione e le rarissime lettere scambiate

con la fanciulla. Avrei dovuto usare la forza della memoria.

Presi in mano per primo il foglio che Ifigenia mi aveva scritto

e mai spedito quando ero a Debrecen: il mancato espresso che

aspettavo ogni giorno finché arrivò un telegramma che lo

preannunciava; da allora lo agognavo ogni momento del dì e della

notte, con dolore e sospetto crescente a mano a mano che il tempo

passava, invano, fino all'ultimo giorno dell'atroce vacanza, quando

ripartii per Bologna e decisi che era assurdo soffrire per una

creatura del genere, probabilmente infedele, sicuramente bugiarda.

 Rilessi dunque la lettera che la ragazza mi

consegnò quando ci incontrammo a casa mia. Ne sottolineai e

trascrissi alcune parole:"Ho visto i tuoi occhi: avevi un'espressione

dolce e sorridevi. Dio com'eri bello!".

Note

19

Cfr. Don Giovanni di Mozart-Da Ponte, I, 5: “Stelle! L'iniquo fuggì”.

20

Cfr. L'idea del Don Giovanni e la musica di Mozart, trad. it. Mondadori,

Milano, 1981, p.98.


 

 

“Tutt’al più lepido moretto, pensai con ironia.

Poi però volli guardarmi in uno specchio, quello del bagno, fissato

sopra il lavabo. Brutto proprio, non ero diventato, eppure rispetto

al tempo della felicità sessuale, avevo assunto un'espressione dura,

tirata, che certamente  non mi donava.

Tornai nello studio a meditare sulle parole di quel foglio. Quando

le lessi per la prima volta, nell'agosto del '79, vi cercavo una cosa

sola:  un indizio del tradimento di cui ero quasi sicuro. Il 15 marzo

del 1981 invece mi sembrò una prova d'amore. Annotai anche

queste frasi:"Per me ora sei l'Unico: il più intelligente, il più

sensibile, il più sincero, il più giusto, il più dolce, il più

desiderabile, il più sensuale. Tu sei così completo! Rappresenti la

vera bellezza spirituale. Davvero per me sei così. Ed io, io ti amo e

tu mi ami. Non è una cosa meravigliosa? Ce l'abbiamo fatta! Il

nostro amore è troppo vero, unico e profondo perché la prova

potesse fallire. Abbiamo vissuto insieme, giorno dopo giorno,

arricchendoci ed essendo tanto felici. Sono emozionata e contenta

perché finalmente sono riuscita a scriverti".

Misi la lettera tra le carte da usare per il romanzo. Se  mi fosse

arrivata a Debrecen, forse non avrei smesso di amarla.

Quando, troppo tardi, la lessi a Bologna, mi sembrò falsa e demente. Un anno e

mezzo dopo invece ne sottolineavo e trascrivevo le espressioni

con venerazione commossa. Era diventato un documento prezioso,

come l’apoteosi tardiva di un eroe iniquamente condannato dal suo

popolo ingrato cui aveva reso immensi benefici. Solo dopo la

morte era stato onorato, santificato, invocato nelle orazioni, e

vanamente rimpianto per sempre.

Pensato questo, decisi di non divagare e copiai le poche parole

scritte da quando conobbi Desdemona al 31 dicembre del '78.

Tredici ottobre:"Oggi una nuova collega giovane e bella

 mi si è offerta, ma  l'ho rifiutata".

Nemmeno una parola di commento."Soltanto.. anni dopo ci

ricordiamo che il più grande avvenimento della nostra vita

sentimentale si è attuato, senza che avessimo il tempo di

accordargli una lunga attenzione, quasi di prendene conoscenza",

pensai ricordando un suggerimento di Proust21 .

 

Nota

21

Cfr. M. Proust, All'ombra delle fanciulle in fiore, trad. it. Einaudi, Torino,

1978, p.475-476.


 

 

 

Dalla metà di novembre compare la paura di amare. "I mostri, la

peste clericale, le zie", pensai.

Dicembre ha poche parole su alcuni errori di stile, di intelligenza

della ragazza e sull'angoscia che mi avevano inflitto.

Alle cinque e tre quarti il sole sbucò dalle nuvole. "Presagio di

estate felice?" mi domandai citando il mio dramma.

Significherebbe il recupero delle forze vitali intirizzite.

Nota assai positiva in data 4 maggio 1979:" Sto accettandola in

tutti i suoi aspetti". Un sentimento raro. Durante quegli ultimi

giorni felici, raggiungemmo il culmine. Doveva esserci una

fusione o trasfusione anche mentale. Altrimenti non avremmo

fatto l'amore così tante volte, così dappertutto: anche in mezzo ai

cespugli quasi spinosi, agli avvallamenti dell'autostrada, poco cupi

di giorno e d'estate, nei gabinetti mobili e rumorosi, quasi

vociferanti dei treni in corsa.

Gli appunti del mese di Debrecen, piuttosto abbondanti,

descrivono giorno per giorno la decadenza e la fine. della nostra

fantastica intesa. Ne avrei ricavato un lungo episodio, quasi un

libro nel libro.

 

Pesaro primo settembre 2024 ore 10, 45 giovanni ghiselli

p. s.

Statistiche del blog

 

Sempre1615371

Oggi69

Ieri297

Questo mese69

Il mese scorso10909

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Questa notte mi sono svegliato, ho ricordato Marisa e mi sono chiesto se la rivedrò. Mi piacerebbe.

Nessun commento:

Posta un commento

Ifigenia LXVII e LXVIII.

Ifigenia LXVII . il Mulino bruciato. “Ti prego, ti prego, ti prego!”   Lunedì 26 febbraio Ifigenia mi telefonò dalla gelateria dove ta...