domenica 1 settembre 2024

Annibale ancora antefatto. Tregua dei Romani. Minacce galliche respinte. Rivolta dei mercenari libici infine sconfitti


 

 La tregua operosa dei Romani (240-220 a. C.). p. 261  vol. III G. De Sanctis

 

A Oriente i Greci impiegavano e consumavano la loro miracolosa forza spirituale ellenizzando l’impero persiano. Era iniziata l’assimilazione dei vinti ai vincitori. Secondo De Sanctis fu un livellamento che rovinerà Egitto, Siria e poi impero romano (p. 262). La Siria era retta da Antioco II Teo (262-246): il suo regno era insidiato e ridotto dai Galli che occupavano il centro dell’Asia Minore.

Eumene I  di Pergamo sconfiggeva i Seleucidi a Sardi (262) e si rendeva indipendente. Altrettanto indipendente si era resa la Sogdiana.

 In Egitto a Tolomeo II Filadelfo (285-246) succede Tolomeo III Evergete (246-222) il quale attacca Seleuco II Callinico, il successore di Antioco II, e avanza fin oltre l’ Eufrate. Conquista la Celesiria e la Fenicia.

La potenza dei Tolomei era gagliarda: nel 250 Tolomeo II Filadelfo aveva ottenuto la Cirenaica tramite il matrimonio di Berenice con Tolomeo III Evergete. Ora i Tolomei confinavano con Cartagine. La fase ascendente dell’Egitto termina con Tolomeo III Evergete  che muore nel 222.

 Quindi la dinastia “si adagiò in una pace godereccia e ignava” (p. 266).

Catullo  esalta l’Evergete: “haut in tempore longo, captam Asiam Aegypti finibus addiderat” (66, 36). Berenice è pure celebrata: la chioma dice: “invita, o  regina, tuo de vertice cessi” (39), imitato da Virgilio che fa dire a Enea. “Invitus, regina, tuo de litore cessi

 Conone, l’astronomo di corte, aveva scoperto in cielo una nuova costellazione, e la chiamò “Chioma di Berenice” che esalta la fedeltà della regina e rifiuta i doni votivi offerti dalle spose indegne: sed quae se impuro dedit adulterio,/ illius a! mala dona levis bibat irrita pulvis/namque ego ab indignis praemia nulla peto. (66, 84-86). L’elemento greco in Egitto era sommerso da quello indigeno e i Greci si orientalizzavano, il loro vigore fisico e spirituale si perdeva. Lo stato tolemaico dopo i trionfi ricordati da Catullo “parve accasciarsi in un’inerzia gaudente” ( G. De Sanctis p. 268).

Con Tolomeo IV Filopatore (222-205) comincia la decadenza e il ristagno della vita spirituale.

Polibio afferma che il Filopatore amministrava lo Stato come se vivesse in una continua festa. Trascurava gli affari esterni e interni per i suoi disdicevoli amori e per le continue insensate bevute (dia; tou;~ ajprepei'~ e[rwta~ kai; ta;~ ajlovgou~ sunecei'~ mevqa~, V, 34, 10).

 

Nel 241 Attalo I di Pergamo sconfigge i Galli. Morì nel 197

 In Macedonia gli Antigonidi si consumavano nell’insanabile particolarismo ellenico. Antigono Gonata (re dal 277 al 239, detto gonata poiché aveva una piastra di ferro nel ginocchio), figlio di Demetrio Poliorcete, nel 262 aveva conquistato Atene, insufficientemente difesa dal Filadelfo con la guerra di Cremonide, dal nome del cittadino che ne diede la spinta (263).

Nel 258 con la vittoria di Cos su Tolomeo Filadelfo, Antigono stabilì il suo primato sull’Egeo.  Nel Peloponneso però Antigono non riusciva a domare Sparta, roccaforte dell’antimacedonismo, né a impedire che la lega Achea si allargasse con l’accessione di Sicione, mentre la fedeltà degli alleati Etòli era dubbia. Nemmeno il suo successore Demetrio (239-229) riuscì a unificare la Grecia.


 

Intanto a Roma cresceva la fiducia di sé che aveva quel popolo e il disprezzo degli stranieri civili ma imbelli oppure bellicosi ma barbari.

I Romani nel 241, dopo la pace con Cartagine, puniscono una ribellione dei Falisci e requisiscono metà del territorio di Faleri, città etrusco-latina, rendendolo agro pubblico. Quindi si volgono verso la Corsica e la Sardegna. Qui vennero chiamati dai mercenari cartaginesi ribelli Conquistano la parte sud occidentale, la meno montagnosa e più adatta alla coltivazione dei cereali (p. 275). Le tribù montanare di fatto, se non di nome, rimasero indipendenti. Nessuna città però rimase libera né divenne federata: la Sardegna diventò un praedium, un podere del popolo romano.

L’occupazione delle città fenicie, Carali, Sulci, Tarro, Olbia, non incontrò resistenza e fu compiuta nel 237 dal console Tito Sempronio Gracco.

Cicerone nella Pro Scauro dice che, tranne la Sardegna, non c’è nessuna provincia che non abbia alcuna città libera e amica  populo romano, ossia registrata nella amicorum formula (2, 44).

Cicerone afferma che i Sardi sono sine fide poiché discendono dai Punici: “Fallacissimum genus esse Phoenīcum”.

Si confiscò parte del territorio per farne agro pubblico e si presero le decime dei prodotti del suolo: la decima frumentaria era chiamata stipendium, la scriptura era l’imposta sui pascoli, il portorium la tassa di circolazione: Sardis agro stipendioque multatis (Pro Balbo, 18, 41). Insomma Sardegna, Sicilia, poi l’ Africa diventeranno tria frumentaria subsidia rei publicae.

Con operazioni di polizia, nelle quale i Romani si avvalevano pure di cani ammaestrati nella caccia all’uomo, si catturavano schiavi sardi. All’inferiorità economica e culturale della Corsica e della Sardegna contribuì l’interruzione del commercio con l’Africa dove i Sardi esportavano cereali, pesce e il loro caratteristico miele amaro (Orazio, Ars poetica, 375) p. 277.

 ut gratas inter mensas symphonia discors/et crassum unguentum et Sardo cum melle papaver/offendunt, poterat duci quia cena sine istis” (vv. 374-376), come  in un convito gradito un concerto confuso e un profumo denso e il miele sardo mescolato con il papavero disturbano poiché la cena si poteva imbandire senza questi ingredienti, così, continua Orazio, la poesia, nata per confortare lo spirito, se si allontana un poco dal sommo, precipita in basso.

 

I Galli della valle padana nel IV secolo avevano cercato di espandersi come un’epidemia. Nel 283, cinque anni prima della loro disfatta presso Delfi (del 278 ) la tuvch impose a tutti i Galati come una pestilenziale disposizione alla guerra  wJsanei; loimikh;n tina polevmou diavqesin ejpevsthse pa'si Galavtai~  (II, 20, 7).

Nel 279 cadde Tolomeo Cerauno, re di Macedonia, combattendo i Celti. Questi vennero affrontati dalle popolazioni della Grecia centrale, Beoti, Focesi e soprattutto Etoli. I Celti passarono le Termopli, come Serse, ma Delfi difesa dagli Etoli nel 278 resistette e questi ottenero la supremazia sul santuario.

Antigono Gonata poi sconfisse i Celti a Lisimachia nel Chersoneso tracico, nel 277. Sicché divenne re di Macedonia. Morirà nel 239. Gli succede il figlio Demetrio II (239-229).

 Antioco I (280-261)  sconfisse i Celti nel 275 nella battaglia degli Elefanti ed essi si stabilirono nella Frigia interna che da loro prese il nome di Galazia. Anche Attalo I  (229-197) sconfigge i Galati (214) e per questo assume il titolo di re. Quindi fece collocare delle statue di bronzo nel donario dell’Acropoli di Atene (201). Il tema è la vittoria sui barbari (Galata morente).

 Eumene II dopo una seconda vittoria sui Galati (183) fece costruire l’altare di Pergamo con la gigantomachia interpretata in senso cosmologico, e le storie di Telefo.

 

Nel 236 i Galli Boi attaccarono la colonia latina di Rimini Arĭminum (dal 268), estremo baluardo romano in quella regione (p. 280). Durante l’assedio però i barbari si azzuffarono tra loro, quindi si ritirarono.

 Polibio afferma che dopo 45 anni di pace, morti quelli che avevano conosciuto la potenza romana, i giovani animati da stolti risentimenti, provocavano turbamenti e disordini e volevano la lotta con i Romani (II, 21).

 Polibio intende suggerire che la consapevolezza dei rapporti di forza dovrebbe indurre a evitare la ribellione a Roma: dietro i giovani Galli sconsiderati è possibile intravvedere le figure di Critolao e Dieo, capi della rivolta degli Achei avversata da Polibio, e repressa dai Romani nel 146.

C’era poi il problema dei Liguri che corseggiavano arditamente nel Tirreno: bisognava liberare questo mare dai pirati per i mercanti italici. Fu Fabio Massimo a battere i Liguri e a fondare Genua (232), chiamata così in quanto situata in mezzo al ginocchio (genu-us,n.) formato dal golfo ligure. Nell’Adriatico le colonie romane erano Adria, Rimini, Ancona e Brindisi. L’Adriatico era infestato dai pirati illirici che erano appoggiati da Demetrio di Macedonia (239-229) successore di Antigono Gonata impegnato a combattere Etoli, Achei ed Epiro che dopo la fine degli Eacidi (240) si era dato ordinamenti repubblicani.

Gli Illiri erano guidati dalla regina Teuta e batterono gli Epiroti che passarono dalla loro parte. La regina Teuta era successa al re Agrone che dopo avere sconfitto gli Epiroti si diede alle gozzoviglie e morì di pleurite (231). La vedova crwmevnh de; logismoi'~ gunakeivoi~ (Polibio, II, 4, 8) facendo considerazioni tipicamente femminili, diede agli Illiri la licenza di depredare chiunque in mare.

Dunque si formò un’alleanza di Macedoni, Illiri ed Epiroti. Dall’altra parte c’erano Etoli e Achei (230). Quindi il senato mandò un’ambasceria a Teuta (p. 287). La regina rispose che non aveva il potere di impedire ai suoi sudditi di esercitare la pirateria. Lo stesso disse Elisabetta d’Inghilterra agli Spagnoli. I Romani si erano impegnati a proteggere Lissa, una colonia di Siracusa, affine ad Ancona. Coruncanio, il più giovane degli ambasciatori, rispose che Roma puniva pubblicamente le offese inflitte ai privati. Allora Teuta con ira irragionevole e donnesca lo fece ammazzare. Il contadino italico di fronte alla violazione dello ius gentium non esitò più a difendere l’onore di Roma e a vendicare l’assassinio di Coruncanio. Siamo nel 229 il tempo della prwvth diavbasi~ eij~ thn jIllurivda  JRwmaivwn (cfr. Polibio, II, 44, 1). In quel tempo Demetrio morì . Gli succedette il figlio giovinetto Filippo con la reggenza di Antigono Dosone (semper daturus).

Gli Illiri sconfissero Etoli e Achei e assediarono sia Apollonia, sia Epidamno (Dyrrachium).

Ma i Romani misero in fuga gli Illiri. La regina Teuta chiese pace e si impegnò a ritirarsi da tutta la costa  tranne poche località (II, 12, 3). Non poteva navigare a sud di Lisso. Non costeggiare l’Epiro ma fermarsi alla Dalmazia. Lo Ionio era libero dai pirati. Teuta si chiuse nella sua fortezza di Rizone, in fondo alle bocche del Cattaro (lago di Scutari, confine con l’Albania). L’alleanza con l’Epiro e l’Acarnania era spezzata (p. 292).

Apollonia ed Epidamno vennero riconosciute quali alleate romane conservando autonomia negli ordini interni ma con l’obbligo di prestare aiuto ai Romani nella guerra in oriente.

Nel 228 Cn. Fulvio celebrò il trionfo. I Romani mandarono ambasciatori in Grecia a proclamare la loro vittoria e i Greci li fecero partecipare ai giochi Istmici riconoscendoli come popolo civile.

Sparta con Cleomene III tentò di ristabilire la sua egemonia nel Peloponneso ma fu battuto a Sellasia (poco a nord di Sparta) da Achei e Macedoni nel 222, e Antigono Dosone stabilì il primato macedonico in Grecia.

Ora i Romani devono affrontare una lotta mortale con i Galli della Cisalpina: Boi, Insubri e Taurini coalizzati. Quindi offrirono ad Asdrubale, purché si serbasse neutrale, di allargare fino all’Ebro l’impronta di Cartagine. Lo scontro con i Galli avvenne a Talamone nel 225 e i Celti furono sconfitti. Con questa battaglia i Romani guadagnarono l’Italia padana. Nel 222 i Romani presero Mediolanum, capitale degli Insubri posta tra il Lambro e l’Olona. Venne fondata la colonia di Cremona. Fabio Massimo sottomise gli Istri portando la civilizzazione dei Romani fino alle Alpi orientali.

Intanto in Oriente con Tolomeo IV Filopatore (222-205) l’Egitto declinava nella più torpida inazione, mentre cresceva la Siria con Antioco III il Grande (225-176) che nel 221 batteva Tolomeo IV e conquistava Seleucia Pieria restituendo ad Antiochia lo sbocco marittimo.

Anche Attalo I (241-197) di Pergamo venne sconfitto da Antioco e perse parte del suo territorio.

In Grecia Filippo V (221-179) doveva combattere gli Etoli che a loro volta combattevano Macedoni e Achei.

In Spagna Annibale assediava Sagunto e il senato gli fece sapere che quella città non si toccava. “Al cenno repentino di imperio il lioncello africano anziché lasciarsi domare ruggì minaccioso” (p. 313).

I Romani sconfissero Demetrio di Faro in una seconda guerra illirica, nel 219.

 

Movimento anticapitalistico 232-222 interrotto dalla guerra annibalica.

Nel 232 c’era stata una proposta di riforma agraria da parte del tribuno Flaminio Nepote, erede della tradizione di Appio Claudio Cieco. Il senato combatté con accanimento questa proposta, al punto che ricorse al padre del tribuno per imporgli il veto. Ma la patria potestà non valse. La proposta era De agro piceno et gallico cis Arimǐnum viritim dividundo. (232 a. C.). La legge fu approvata ma Flaminio morì da console al Trasimeno nel 217. Polibio commenta questa riforma dicendo che fu Gaio Flaminio a introdurre questa politica demagogica e che questa fu l’origine del mutamento in peggio del popolo (fatevon ajrchgo;n genevsqai th'~ diastrofh'~ tou' dhvmou ejpi; to; cei'ron, II, 21, 8)  e la causa delle successive guerre dei Galli Boi che temevano di essere espropriati. L’homo novus Flaminio aveva proposto una distribuzione viritana di terreno pubblico senza previa decisione senatoria. Polibio considera la distribuzione della terra agli aporoi (cittadini privi di mezzi) uno strumento dei tribuni per la creazione di un potere personale, eversivo dell’ordine costituzionale.

Polibio con il suo reazionario terrore davanti ai movimenti popolari, li riduceva a un cambiamento verso il peggio.

 Appiano dà di questa vicenda un’interpretazione demografica  (Mazzarino B p.138). I ricchi si impossessavano di latifondi e li facevano lavorare dagli schiavi cui crescevano molti figli che non andavano in guerra. Gli Italici liberi invece erano colpiti dalla povertà, dai contributi, e dal servizio militare. Si tratta del latifondo precatoniano con allevamento degli schiavi. Catone infatti aveva schiavi accasermati, senza famiglia.  Spendio p. e. era uno schiavo allevato fuggito dalla Campania.

Polibio ammira la società dei nobili di Roma e dei senatori in genere. “Si ripresenta, in altra forma, la situazione originaria del pensiero greco, in cui i protagonisti della storia sono i nobili, con i loro ghéne o famiglie aristocratiche. Per la grecità arcaica l’esaltazione dei ghéne conduceva alla costruzione delle genealogie divine da cui essi discendono; per i Romani portava all’esaltazione degli antenati, e altresì alle recenti imprese dei nobili stessi” (Mazzarino, B, 141). 

Secondo T. Livio già Servio Tullio con mezzi demagogici si sarebbe procurato il favore della plebe. Temeva Tarquinio che mormorava contro di lui e lo accusava di regnare senza mandato del popolo.

Quindi “ conciliata prius voluntate plebis agro capto ex hostibus viritim diviso, ausus est ferre ad populum vellent iuberentne se regnare. (I, 46, 2). Fece questa proposta e il popolo lo acclamò re.

 

Altre rogationes  (proposte di legge) cercavano di frenare l’invadenza del capitalismo. Non si dovevano occupare più di 500 iugeri di agro pubblico (iugerum= 2500  mq, quindi 125 ettari) e si doveva impiegare un certo numero di agricoltori liberi per proteggere il lavoro libero dalla concorrenza di quello servile. Il tribuno Q. Claudio sostenuto da Flaminio nel 222 presentò un’altra rogatio: “ne quis senator cuive senator pater fuisset  maritimam navem quae plus quam trecentarum amphorarum esset haberet(Livio 21, 63). La nave non doveva avere una capacità superiore alle 300 anfore. Un’anfora conteneva 26 litri.

 Mirava ad ottenere che i senatori non si dedicassero al commercio e impiegassero i capitali sulla terra.

I viaggi dovuti alla guerra “avevano ampliato l’orizzonte intellettuale dei contadini italici e acrresciute le loro esigenze politiche”[1] Con la flotta il numero dei proletari impegnati in guerra era divenuto enorme.

Come ad Atene la flotta portava maggior potere ai nullatenenti

 La guerra annibalica interruppe questo movimento anticapitalistico.

Era dovuto all’importanza della flotta.

Nella Costituzione degli Ateniesi pseudosenefontea il dialogante A che biasima la democrazia sostiene che la canaglia ha preso il potere o{ti oJ dh'mo;~ ejstin oJ ejlauvnwn ta;~ nau'~ e ha reso forte la città (1, 2), in quanto è il popolo che fa andare le navi.

 Una riforma dell’ordinamento centuriato di cui parla Cicerone (De republica, II, 22) tolse la maggioranza dei voti ai classici (quelli della I classe) nei comizi, moderando la plutocrazia. Un certo numero di proletari poteva votare con la I classe. Et prima classis addita centuria, quae ad summum usum urbis  fabris tignariis, la prima classe aggiuntavi una centuria con i falegnami. Tignum=trave, asse di legno.

Anche questi servivano per le navi.

  Il governo tuttavia rimase oligarchico, ossia in mano ai classici. Al governo andavano poche famiglie e gli uomini nuovi come Terenzio Varrone (console nel 216) erano eccezioni. Le cariche non erano stipendiate e quelle dotate di imperio potevano essere raggiunte solo da chi era stato ufficiale superiore, tribunus militum, carica per la quale era necessario un censo equestre. I tribuni militum dunque venivano dalla cavalleria. Il gregarius miles poteva diventare al massimo centurione. I piccoli proprietari terrieri avevano stima e rispetto più per la vecchia aristocrazia fondiaria che per i bottegai e gli affaristi. I comizi si riunivano di rado e molti cittadini non potevano andarci: inoltre per dare tempo a quelli lontani di recarvisi intercorreva tra la convocazione e l’effettiva riunione dell’assemblea un trinundǐnum, lo spazio di tempo comprendente 3 mercati, ossia 24 giorni, e quindi i comizi non potevano prendere deliberazioni urgenti cui provvedeva il senato che garantiva la continuità e l’efficienza del governo. Invece i consoli si intralciavano a vicenda.

 Il III secolo fu l’età dell’oro del governo senatorio il quale del resto si sentiva espressione della volontà popolare in quanto i senatori erano ex consoli o ex pretori eletti dal popolo. Finché i voti non furono comprati il senato funzionò bene e a Cinea, alunno di Demostene, parve  un consesso di re (Plutarco, Vita di Pirro, 19).

Nel 220 il popolo era ancora abituato alla disciplina e alle armi.

La guerra annibalica fu portata avanti per le lunghe dai conservatori, secondo i progressisti, proprio per tenere oppresso il popolo.

 

I Romani dunque avevano conquistato la Sicilia con la prima guerra punica (264-241) e nel 238 la Sardegna. L’imperialismo romano trasormava il libito in licito.

 Amilcare Barca nel 240-239 represse una rivolta di mercenari libici ribelli guidati dal campano Spendio e dal libico Mathos.

I generali cartaginesi erano due: Annone, il capo degli agrari che volevano la pace con Roma e l’espansione in Libia,

 e Amilcare che rappresentava i mercanti e il popolo e voleva la guerra con Roma.

Amilcare Barca era stato l’ultimo generale sconfitto in Sicilia ma il senato dovette richiamarlo per necessità: i mercenari assediavano Utica e Ippona.

Amilcare tentò di indurre i mercenari alla resipiscenza trattando bene i prigionieri ma Spendio mise a morte Giscone, un capo cartaginese, con altri 700 prigionieri. Allora Amilcare non poté più usare la mitezza ma trucidò ogni ribelle catturato. Quindi riconquistò Utica e Ippona che erano cadute nelle mani dei mercenari. Spendio e Mathos, danneggiati dalla loro stessa efferatezza, vennero messi a morte.

I due provocarono la rivolta poiché Giscone tardava a pagare il soldo. I moderati venivano lapidati al grido di bavlle (I, 69, 12).

I mercenari fecero la guerra dopo avere ordito una congiura empia  e del tutto contraria alle tradizioni comuni agli uomini (sunwmosiva~ ajsebei'~ kai; para; ta; koina; tw'n ajnqrwvpwn e[qh poihsavmenoi, I, 70, 6).

I Cartaginesi si trovarono a malpartito, ma dice Polibio, erano loro stessi ai[tioi di tante disgrazie. Infatti avevano dominato pikrw'~, pesantemente sui libici e  avevano pochissimi alleati (I, 72, 1). Toglievano ai contadini  la metà del raccolto e non esentavano nessuno dai tributi. Annone era stimato in quanto “stratego” spietato. Allora le donne libiche contribuirono a finanziare la rivolta. Questo ci insegna, conclude Polibio, che chi vuol fare una politica saggia deve guardare non solo al presente (pro;~ to parovn) ma ancora di più al futuro, pro;~ to; mevllon (I, 72, 7).

Mathos guidava 70 mila  ribelli libici che assediavano Utica, e Cartagine era isolata. Annone non era mai capace di indovinare il momento giusto e di cogliere il bersaglio (toi'~ kairoi'~ ajstovcw~ ejcrh'to, I, 74, 2). Allora i Cartaginesi affidarono di nuovo il comando ad Amilcare. Alleato dei Cartaginesi era Narauva~ (I, 78), uno dei Numidi più illustri. Amilcare gli promise in sposa la figlia. Tra i ribelli c’erano i Galli comandati da Autàrito.

Amilcare vinse una battaglia e lasciò liberi i prigionieri di tornare a combattere con lui o di andarsene. I Cartaginesi in questo tempo persero la Sardegna. Annone il Vecchio inviato per difenderla fu sconfitto e crocifisso dai mercenari. Nh'so~ kai; tw'/ megevqei kai; th'/ poluanqrwpiva/ kai; toi'~ gennhvmasi diafevrousa (I, 79, 6), isola particolarmente estesa, popolosa e fertile.

Autarito propose di torturare e ammazzare Gescone.  Voleva precludere ogni speranza di riconciliazione con i Cartaginesi.

Era molto ascoltato poiché conosceva il fenicio. Evolvendosi nel dialetto neopunico (II d. C.) sopravvisse fino all’invasione araba. Insomma Autarito h[/dei dialevgesqai Foinikistiv (I, 80, 6) e molti si sentivano blanditi da questo idioma. Chi parlava in favore di Gescone invece non veniva capito e quando venne tradotto si attirò un bavlle, ossia delle pietre. Quindi mozzarono le mani di Gescone e dei suoi, gli mozzarono le altre estremità, gli spezzarono le gambe e li gettarono in una fossa.

Polibio che rimprovera a Filarco la descrizione di spettacoli crudeli, non tralascia neppure i dettagli delle atrocità. Con questa descrizione esprime ostilità ideologica verso i mercenari.  

 

Più avanti lo farà Machiavelli: “Delle armi mercennarie antiche in exemplis sono Cartaginesi; li quali furono per essere oppressi da’ loro soldati mercennari, finita la prima guerra con li Romani, ancora che Cartaginesi avessino per capi loro propri cittadini” (Il principe, 11).

 

Segue una considerazione sulla ajpoqhrivwsi~ , l’imbestiamento degli uomini. Come i corpi, anche gli animi possono incancrenirsi e divenire incurabili. Negli animi infatti spesso si producono melanivai kai; shpedovne~ (I, 81, 7) macchie nere e cancrene tali che nessun animale risulta più empio e crudele dell’uomo. E meglio li tratti, peggiori li rendi. Alla fine, divenuti belve feroci (ajpoqhriwqevnte~, 9), si pongono al di fuori dalla natura umana.

Questo deriva da cattiva educazione e da violenze subìte. C’è il pregiudizio nei confronti dei barbari e dei mercenari.

Annone e Amilcare si trovarono a incepparsi a vicenda, Utica e Hippacritae che nel 307-306 avevano resistito ad Agatocle, passarono ai nemici. Mato e Spendio, eccitati dagli eventi (ejparqevnte~ toi'~ sumbebekovsin, 11), assediarono Cartagine. Annone fu allontanato dal comando. Gerone II di Siracusa, alleato dei Romani fin dalla IGP, non voleva però la distruzione di Cartagine che avrebbe permesso ogni arbitrio ai Romani pavnu fronivmw~ kai; nounecw'~ logizovmeno~  (I, 83, 3). Infatti non bisogna mai aiutare nessuno ad ottenere un dominio così grande al quale non sarà possibile opporsi nemmeno per i diritti riconosciuti da tutti.

I Romani non aiutarono i mercenari e i Cartaginesi resistevano all’assedio.

Si vide allora alla prova dei fatti quanto grande sia la differenza tra l’esperienza sistematica (ejmpeiriva meqodikhv, I, 84, 6)) con la capacità di uno stratega da una parte,  e l’inesperienza, accoppiata alla  pratica priva di raziocinio di un soldato.

Amilcare era come un abile giocatore di scacchi (w{sper ajgaqo;~ petteuthv~, 7) e separava gruppi di nemici facendone strage (divǐde et occīde). Alcuni mercenari trovandosi in posizione sfavorevole furono costretti dalla fame a mangiarsi a vicenda uJpo; th'~ limou' sunagomevnou~ ejsqivein ajllhvlwn (I, 84, 9). Così la divinità dava loro il contraccambio appropriato ( th;n oijkeivan ajmoibhvn) per la violazione delle leggi umane e divine ai danni del prossimo.

Cornelio Nepote racconta che Amilcare non solo respinse gli assalitori, più di centomila dalle mura di Cartagine, sed etiam eo compulit, ut locorum angustiis clausi plures fame quam ferro interirent” (Vita di Amilcare, 2, 4).  

I mercenari si cibarono anche dei prigionieri, quindi i loro capi, Spendio Autarito e Zarza (capolibico) andarono a parlare con Amilcare il quale li fece prigionieri. Intanto Mato era assediato in Tunisi. Spendio e gli altri prigionieri vennero crocifissi bene in vista. Mato fece una sortita, sconfisse il comandante cartaginese e lo mise in croce al posto di Spendio. I Cartaginesi mandarono rinforzi guidati da Annone. Mato fu sconfitto e fatto prigioniero e torturato. I Cartaginesi tornarono a essere padroni della Libia dopo una guerra che aveva superato di molto le altre per crudeltà e disprezzo della legge.

 

Flaubert racconta la morte di Mathos fra supplizi atroci che gli vengono inflitti dallo stesso popolo cartaginese in festa per la vittoria sui barbari. Ma subito dopo muore Salambò, la figlia di Amilcare, che era calamitata da quello schiavo ribelle: “Cadde riversa, la testa sullo schienale del trono-livida, irrigidita, le labbra dischiuse-e i capelli sciolti le pendevano fino a terra. Così morì la figlia di Amilcare per aver profanato il manto di Tanit” (Salambò, p. 278).

 

Pesaro 1 settembre 2024 ore 16, 51 giovanni ghiselli

 

 

 

 

 

 



[1] Kovaliov, Storia di Roma I, p. 213.

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