Ifigenia XXVII. L’amore non è solo “impeto di cupidità”
Nei primi tempi si faceva molto l’amore e ci piaceva assai farlo ogni giorno più volte. Ci sentivamo due atleti o perfino due eroi del sesso. Tuttavia sentivamo che mancava qualcosa. Allora non sapevo che cosa fosse. Poi ho constatato e ora so che l’emozione fondata sul piacere sessuale, magari associata all’orgoglio e al vanto della forza, della bellezza e della gioventù, pur se dura più a lungo del tempo necessario a sfogare la prima libidine, anche se può prolungarsi per diversi mesi quando la voglia è resa più piccante e tosta dal gusto di trasgredire le regole e di scandalizzare i bigotti, dopo due o tre stagioni esaurisce il suo vigore ascendente se l’ammirazione della bellezza non si associa alla conoscenza e alla prassi del Bene che è il sapere più alto, che è la sapienza vera, e chi ama tale Sofiva si sente frustrato, infelice se non riesce a salire su questa vetta che offre una larga visione mentale e morale.
Ora comprendo come Admeto dopo avere mandato a morire la propria moglie Alcesti: “a[rti manqavnw”[1]. Ma ora forse è già tardi.
L’amore non è solo impeto di cupidità quando gli amanti non si amano ma si appetiscono. Poi, saziato l’appetito, si nauseano uno dell’altro. Manifestai amore generoso a una donna soltanto la sera dell’agosto del 1971 quando lasciai perdere l’occasione ghiotta di Josiane e chiesi scusa a Elena per avere corteggiato la ragazza più giovane. Allora la donna matura mi disse: “io non sono materia”, e io la stimai e l’ammirai oltre desiderarla. E’ quella che ricordo con maggior gratitudine e ammirazione siccome ci siamo scambiati non solo piacere ma anche rispetto e ammirazione.
A un tratto mi alzai, guardai l’orologio e il tempo di fuori. Per Ifigenia era già tardi: mancavano pochi minuti alle sette e la neve che cadeva fittissima da quattro ore aveva formato in terra una difficoltà per il ritorno della sposa a casa in tempo tale da non provocare burrasche da parte del marito.
Ifigenia mi venne vicino e le feci notare che lo spessore bianco era talmente alto, compatto e scivoloso che dove copriva l’erta rampa di uscita dal mio garage poteva impedire la salita della nera Volkswagen.
Intanto vi scivolavano dei ragazzini distesi sopra delle slitte. Nessuno di noi due era capace di montare le catene da neve e io per giunta non sapevo neanche se le avessi e dove potessi trovarle. Tale mancanza di abilità manuale e il disordine nel tenere le cose, con il tempo ci avrebbe dato non pochi fastidi. Sembra un particolare irrilevante rispetto alla grandezza di una passione amorosa, invece anche deficienze più piccole possono generare seri imbarazzi e gravi disturbi in un rapporto. Se la sintonia non è totale, la minima difficoltà si associa subito al malumore e a un meschino spirito competitivo, accusatorio, denigratorio. Se la fiamma erotica iniziale non viene alimentata dallo spirito della generosità e dell’altruismo reciproco, l’ardore amoroso prima languisce, nelle noiose faccende della prassi giornaliera, poi con il tempo diventa un nero tizzone quasi del tutto spento, alimentato solo dal rancore reciproco. Andrà a finire così ma questa fine non era ancora vicina. Però ogni cosa segretamente temuta accade prima o poi.
Basta pensare alla morte.
Pesaro 14 settembre 2024 ore 10, 20 giovanni ghiselli
Ifigenia XXVIII. Il salvataggio.
Non sapevamo come fare. A un tratto sebbene non si vedessero automobili in giro, ci venne in mente l’esistenza dei taxi. Finalmente una voce rispose al telefono. Supplicai di mandarne uno al più prest : mia moglie doveva ricevere la benedizione estrema della madre che stava morendo, dissi.
Mi venne in mente Filumena Marturano.
La voce fredda o raffreddata rispose che si sarebbe fatto il possibile. Quindi ci vestimmo e ci attaccammo alla finestra che risponde alla strada schiacciandoci i nasi abbastanza pronunciati e già un poco incurvati contro il vetro per antivedere l’arrivo sotto casa dell’autoambulanza necessaria al salvataggio del nostro amore in pericolo serio. Tuttavia ogni tanto staccavamo i nasi dalle lastre fredde per baciarci, scaldarci e incoraggiarci a vicenda. Ifigenia faceva domande allarmate: “Se la neve che cade da ore causando incidenti avesse ostruito e bloccato ogni strada?”. La guardavo allargando le braccia in segno di impotenza,
ma pensavo che sperasse di essere costretta dalle circostanze a una rivelazione, quindi a una rottura con il marito.
Io invece temevo che se il nostro rapporto avesse preso la strada piatta della legalità avrebbe perso quel gusto piccante del proibito, del momentaneo rubato alla consuetudine, quel tanto di furtivo che eccita il desiderio e innalza, potenzia la sensualità fino a prestazioni veramente olimpiche.
Finalmente scorgemmo un taxi in arrivo. Era bianco e giallo. “Ecco la Margherita della salvezza!”, esultò Ifigenia. “Bellina, monella!” pensai tutto contento che potesse tornare a casa sua e mi lasciasse solo a riflettere in pace e in silenzio.
Scendemmo i cinque piani di scale saltando precipitosamente i gradini a due o tre per volta ma senza cadere. Poi finalmente la ragazza entrò nel taxi. “Ti abbraccio forte ” le gridai, quindi pregai il tassista di fare presto. L’uomo indicò la neve senza dire parola. Risalìi adagio le scale. Avevo paura che il nostro castello crollasse. In effetti non aveva fondamenta profonde ma intanto eravamo fuori pericolo. Erano le sette e un quarto di quel 29 novembre.
Ora so che la mia paura era interna: un sentimento di colpa che si aspettava un castigo. Oscuri terrori superstiziosi o piuttosto scrupoli morali per l’inganno al marito?
Ora so che Cristo salvò la vita all’adultera e perdonò la peccatrice: “dico tibi: remissa sunt peccata eius multa quondam dilexit multum; cui autem minus dimittitur minus diligit. Dixit autem ad illam: “Remissa sunt peccata tua” - N. T. Luca, 7, 47- 48).
Parole sante. Valgano anche per me e per Ifigenia che oltretutto non è più in questa dimensione. E’ diventata un’ex amante celeste
Ifigenia XXIX. Una mattina mi son’ svegliato…
La mattina seguente, il 30 novembre, mi alzai ancora assonnato. Aperta la finestra però, vidi confortevoli segni della terra e del cielo: la grande nevicata era finita e la neve si liquefaceva permettendo il transitare delle donne e degli uomini da casa al lavoro con qualsiasi mezzo. Anche il cielo si stava schiarendo: tra le nuvole che andavano diradandosi si vedevano alcuni pezzi di azzurro lucido. Questo, aiutato da un vento non freddo, apriva la strada ai cavalli del sole che, usciti dal mare Adriatico, procedevano risalendo dalla parte dove di mattina il cielo è più vivo. Una nube nera ma squarciata nel mezzo e sbrindellata sui fianchi non poteva nascondere l’immagine luminosa, divinamente compatta che saliva rotonda su per il cielo con i raggi ancora irrorati dalla spuma marina, portando conforto, con l’augurio di un più sereno dì, a me e agli altri mortali oppressi dal buio inquieto del lungo pomeriggio nevoso. Nutrivo nell’anima ancora qualche apprensione per le difficoltà che avrei dovuto affrontare insieme con la giovane collega e amante malmaritata, tuttavia non avevo angosce quella mattina poiché dopo aver riposato e osservato la santa faccia luminosa del primo fra tutti gli dèi, pensavo che la bella ragazza fosse disposta a lottare con me per seguitare a incontrarci nel talamo nostro dalle cinque alle sette del pomeriggio, e confidavo che per noi due ci sarebbe stato un futuro pieno di cose belle e utili da fare insieme. Non solo lussuriosi, libidinosi e dissoluti eravamo entrambi, ma anche capaci di creare nel bello secondo l’anima. Ifigenia queste speranze me le aveva dichiarate più volte e quella mattina io le condividevo mettendo via la sensazione stanca, rinunciataria, senile che talora mi assaliva.
Quando per le strade oramai non più ingombre fui arrivato al liceo ed ebbi parcheggiato la nera Volkswagen nel cortile della scuola, entrai nel piano terreno e lo percorsi tutto senza incontrare la bella collega mia amante, quindi salìi le scale ed entrai nella sala dei professori.
In settembre avevo iniziato il terzo anno di insegnamento al Minghetti che nei due precedenti era stato guidato dal preside gentiluomo Pietro Cazzani, democratico, colto, intelligente e ancora di bell’aspetto.
Quest’uomo mi aveva aiutato nella difficile circostanza dell’inserimento nel nuovo ambiente piuttosto prevenuto nei confronti dei colleghi giovani e non deformi. Cazzani aveva incoraggiato con parole umane la mia laboriosa crescita culturale e professionale ancora in fìeri dopo l’esordio imolese dove un altro preside galantuomo mi aveva aiutato. Altri incoraggiamenti decisivi li avevo ricevuti dalle ragazze e dai ragazzi miei studenti.
Il preside nuovo arrivato che non era né bello né buono, quando andai a salutarlo per vedere chi fosse e farmi conoscere, mi respinse pregiudizialmente dicendo: “Io non l’ho fatta chiamare”. Tornai indietro parecchio avvilito da quel modo di fare. Mi tornò in mente l’esordio alla scuola media di Carmignano di Brenta che tu, lettore, conosci.
“E’ un prepotente maleducato”, pensai anche questa volta.
Ifigenia XXX. L’atmosfera del liceo nell’autunno del 1978
Il preside dunque mi era ostile come quello della scuola media di Carmignano dove avevo debuttato nel 1969, ma là trovai una collega autorevole che mi difendeva: la vicepreside Antonia Sommacal che sarebbe poi diventata un’amica, l’amica migliore che abbia mai avuto, migliore e più amica di tante amanti.
Nel liceo Minghetti di Bologna invece non avevo difensori decisi e sicuri tra i colleghi.
Il gruppo, o piuttosto il gregge degli apolitici per non avere noie si conformava agli umori del preside e al suo malvolere nei miei confronti; i fascisti cui non ero mai piaciuto, ma finché c’era il preside a me favorevole si limitavano a evitarmi, dopo l’avvento del preside simile a loro, lo aizzavano contro di me rendendolo sempre più malevolo e ostile alla mia persona.
E i comunisti?
Nemmeno quelli che potevano essermi compagni politici mi amavano per la varietà delle idèe che traevo da autori diversi: dai “religiosi” arcaici Pindaro e Sofocle, come dal “sacrilego Euripide” e dai razionalisti Democrito, Epicuro, Lucrezio; per giunta mi piacevano Nietzsche e T, S. Eliot, autori che per alcuni di loro andavano addirittura messi all’indice. Tra i denigratori, i più attivi e accaniti mi accusavano di infamie su infamie, e istigavano il preside perché mi cacciasse una volta per tutte. Che cosa facevo di male secondo il loro vero pensiero che presentavano attraverso metafore calunniose?
Insegnavo a pensare, a non credere, a non obbedire prima di averci pensato; estirpavo l’erba cattiva dei luoghi comuni dall’anima dei ragazzini invogliandoli a leggere i testi degli autori-accrescitori; stimolavo a confrontare gli autori tra loro, a esaminare idèe contrapposte-dissoi; lovgoi-, a verificare o smentire attraverso le loro esperienze le letture fatte, a raccogliere e ricordare le espressioni efficaci, a utilizzare la cultura per potenziare la loro natura, come avevano insegnato a me gli autori egregi . Abituavo i ragazzi a considerare la grammatica e la sintassi quali mezzi necessari per arrivare a capire i testi, a tradurli, a conoscere bene i significati veri, cioè etimologici delle parole. Dagli autori che presentavo, citavo e spiegavo, i miei allievi dovevano imparare a parlare e a scrivere con chiarezza, brevità e forza, a trovare uno stile di eloquio, di scrittura e di vita, elegante e pure produttivo di risultati buoni. I ragazzi del liceo che mi avevano tolto seguitavano a chiedere la mia presenza perché si erano sentiti aiutati a maturare da un giovane insegnante che era impegnato a crescere con loro, a diventare uomo lui stesso con una disciplina ferrea e un entusiasmo che sapeva trasmettere.
Ma la cricca invidiosa che metteva su il nuovo preside contro di me gli dicevano che io plagiavo gli studenti seducendoli con artifici e astuzie indegne di un docente.
Una vecchia collega simpatica mi disse: “i ragazzi ti amano perché li attrai con i mezzi non comuni che hai, diversi colleghi ti odiano perché non hanno le tue doti né le tue capacità”.
I simpatizzanti con il mio metodo e la mia persona però erano pochi e si facevano sentire di rado e assai flebilmente.
Ifigenia XXXI. Il metodo comparativo. Il balsamo per me la Grazia appresta.
In verità il lavoro cui invogliavo i ragazzi era duro: ne davo l’esempio preparando lezioni ricche di citazioni memorizzate che mi costavano ore e ore di preparazione. Ogni giorno affrontavo io l’esame dell’efficacia educativa di quanto avevo imparato con un impegno quasi crudele per il tempo e l’acume mentale impiegati. I ragazzi lo capivano e mi ripagavano con l’attenzione scolastica e lo studio domestico. Comprendevano che studiare li rendeva più forti, più buoni e più belli. Ecco perché si era formata una solidarietà e quasi un sodalizio tra me e loro.
Questa intesa didattica benefica però aveva provocato del risentimento tra diversi adulti dell’Istituto. Dava fastidio a molti non solo il mio metodo di insegnamento ancora inusuale in quel tempo ma anche il mio stile di vita inattuale. Il metodo mio era già comparativo: allora non lo conosceva nessuno tra i colleghi di greco e latino tanto nei licei quanto nell’Università da me frequentati. Lo avevo ammirato da The Waste Land di T. S. Eliot
I malevoli dunque trovarono l’appoggio del potere presidenziale e misero insieme la forza di togliermi il lavoro che era diventato grande parte della mia vita siccome avevo imparato a farlo bene sacrificando per tre anni consecutivi tanta parte delle mie forze mentali, del mio tempo, lasciando indietro la bicicletta amata e perfino le donne amate ancora più.
In pratica mi degradarono dal liceo al ginnasio togliendomi 90 studenti per darmene 30 di età inferiore. Sarei tornato nel triennio liceale solo 13 anni più tardi e dopo altri otto sarei entrato nella SSIS dell’Università oramai cinquantacinquenne insegnando ai laureati come si deve insegnare il greco per farsi ascoltare con interesse dagli studenti.
Nei primi giorni della retrocessione provai un dolore enorme temendo di dovermi limitare a ripetere i tecnicismi delle lingue antiche. Poi capìi che il greco e il latino si possono insegnare attraverso gli autori piuttosto che ripetendo la grammatica, e dovendo informare gli studenti anche la letteratura moderna, mi diedi a studiare i grandi romanzi dell’Ottocento e del Novecento che ancora non conoscevo. Sicché mi feci piacere questo nuovo lavoro. Tuttavia mi faceva soffrire l’ingiustizia subita in un ambiente dove per due anni avevo avuto il trattamento buono meritato con tanto studio speranzosissimo. Quel dolore però ebbe subito il balsamo beato che la grazia di Ifigenia mi apprestò offrendomi stimoli non meno accrescitivi di quelli ricevuti per tre anni dagli studenti liceali. Se non avessi fruito di questa compensazione alla perdita del lavoro amato avrei non solo smarrito bensì perduto quella fiducia nella giustizia e nella stessa vita che avevo trovato insegnando. Forse sarei ricaduto nella depressione dove ero cascato alla fine dello studentato liceale nel 1963, come ho già raccontato nel volume precedente.
Ma anche quell’abisso di dolore mi aiutò a crescere: la sofferenza accrebbe la mia intelligenza, la deformità mi rese più comprensivo, il malessere mi spinse a diventare più forte.
Ifigenia dunque mi tirò fuori dal pantano dello sconforto infondendomi anzi della gioia, tuttavia la relazione con la giovane collega adultera peggiorò la mia fama già cattiva presso i docenti malevoli: come la relazione peccaminosa, delinquenziale, divenne nota, io oltre che libertario divenni un libertino dissoluto, e la bella Ifigenia non era più nient’altro che una poco di buono, la donna degna di me, la mia ganza.
Bologna 16 ottobre 2023 ore 9, 52 giovanni ghiselli
Ifigenia XXXII. L’esame di maturità del 1978 con due colleghi amabili.
Entrai nella sala dei professori situata nel cosiddetto piano nobile. Lì c’erano anche le aule delle classi seconda e terza F dove si trovavano i miei allievi ed ex alunni ancora in agitazione perché mi restituissero a loro. Soprattutto attivi erano i maturandi che continuavano a inviare petizioni al preside e al consiglio d’istituto tra i pianti desolati della poveretta sbigottita che era stata messa al mio posto senza sua colpa.
Era una donna spenta. La chiamavano Mortimer.
Alla fine di novembre non c’era più niente da fare, come avvenne nelle mortali strette delle Termopili difese da Leonida il leone spartano con la sua esigua schiera contro gli innumerevoli prepotenti invasori.
Una prepotenza che del resto sarebbe stata sconfitta e umiliata a Platea. Con il tempo, molto tempo invero, anche questa subìta da me avrebbe avuto la sua controparte.
Continuavo a frequentare il primo piano e la sala dei professori, nonostante ce ne fosse un’altra di sotto, dove avevo l’aula della mia quarta ginnasio, perché lassù nel piano perduto, tenevo ancora i libri nel cassetto con il mio nome e mi faceva piacere incontrare ogni mattina gli alunni che avevo avuto negli anni precedenti e a loro volta mi vedevano volentieri e mi chiedevano di non abbandonarli.
Vedevo Ifigenia durante l’intervallo delle undici quando andavamo nel “nostro bar” abbastanza discosto dalla scuola. Ma torniamo alla prima ora della mattina del 30 novembre. Non avevo incontrato la collega ragazza la cui vista mi rallegrava.
Mi confortavo ripassando mentalmente le idèe da riferire ai ragazzini che volevo educare. Le avevo tratte il giorno prima dalla lettura attenta dell’Idiota di Dostoevskij: anche gli allievi quattordicenni mi stimolavano a studiare. Se non potevo aiutarli subito a crescere attraverso la tragedia greca o Platone , potevo farlo con gli ottimi autori della letteratura moderna. Avevo già iniziato a parlare del grande romanziere russo e avevo notato che quei novizi mi ascoltavano con interesse. Poi mi ponevano domande. C’era tempo di fare questo tipo di lavoro, oltre quello di insegnare i rudimenti delle nobili lingue antiche, tutto il tempo necessario a fare bene entrambe le cose, siccome avevo 18 ore settimanali in una sola classe. Dunque avrei approfittato dell’esilio dal liceo per studiare i classici moderni che nei tre anni di dedizione quasi assoluta ai greci e ai latini avevo dovuto trascurare.
Ero intanto seduto nella sala dei professori nell’attesa della seconda campanella. Eravamo disposti intorno a un grande tavolo. Alcuni chiacchieravano, altri leggevano il giornale. C’era pure chi seguitava a bere.
A un tratto mi tornò in mente una collega brava e buona, una docente di filosofia del D’Azeglio di Torino. Una signora più attempata di me e più esperta di insegnamento liceale. Durante l’esame di maturità, dove io avevo e recitavo il ruolo di membro interno e invitavo miei allievi a ricordare La nascita della tragedia , l’ amica torinese mi aveva suggerito di leggere e studiare tutto Nietzsche data la mia parentela spirituale e culturale con questo filosofo. Le domandai perché mi avesse dato questo consiglio: “ perché sei così aristocratico!” rispose; poi una sera, mentre si andava a cena in una casa borghese, mi fece un altro complimento dicendomi che non potevo esimermi dal rompere un vaso cinese.
“Che cosa vuoi dire?” le domandai?
Mi spiegò che il principe Myškin si trovava a disagio nel salotto degli Epančin in mezzo a persone in autentiche, e non poté evitare di rompere il vaso cinese, secondo la profezia della bellissima figlia del padrone di casa, Aglaja che gli aveva detto:"Dovete almeno rompere il vaso cinese nel salotto! E' stato pagato caro"[2].
Non avevo ancora letto Dostoevskij e quanto mi raccontò questa cara donna e preziosa maestra mi spinse a studiare tanto il filosofo tedesco quanto il romanziere russo che avrebbero arricchito il mio spirito non meno dei miei classici antichi
Avevo poi appreso che il principe Myskin non era un aristocratico solo di nome ma anche di fatto, ed era un educatore. Egli racconta:" I bambini ci curano l'anima...venivano spesso da me pregandomi che raccontassi loro qualche cosa; credo che lo sapessi fare bene, giacché mi ascoltavano sempre con grande piacere. In seguito, presi l'abitudine di studiare e di leggere, con l'unico scopo di potere intrattenerli"[3].
Era quanto facevo io da tre anni. Durante quell’esame di maturità nel luglio del 1978 ero felice: il preside era ancora la persona per bene che mi aveva accolto co ime fanno gentiluomini due anni prima e i miei studenti mi avevano aiutato a educare le loro anime mentre curavo la mia. Il presidente di commissione era un altro gentiluomo, un professore di Storia romana alla Normale di Pisa che mi avrebbe aiutato nella vita insegnandomi il suo bello stile di uomo colto, educato, buono generoso e leale.
Un uomo come dovrebbe essere ogni uomo.
Era incerto se bocciare una ragazza fragile in tutto. La commissione era divisa. Il suo voto era decisivo. Io, per aiutare l’allieva, lo sfidai a una gara ciclistica fino a Pianoro. Dissi che se avessi vinto avrebbe potuto premiarmi promuovendo l’allieva. Rimandammo la votazione al giorno seguente, l’ultimo. Nel pomeriggio vinsi l’agone davvero olimpico per quella ragazza che venne maturata. Nel mese di agosto avrei fatto un giro ciclistico in Grecia, da solo tanto ero forte e sicuro di me. In settembre però nella bella scuola dove insegnavo sarebbe arrivato un preside di levatura tutt’altra rispetto alle nobili e antiche di cui ho raccontato.
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Bologna 14 settembre 2024 ore 11, 02 giovanni ghiselli
p. s,
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