domenica 15 settembre 2024

Ifigenia XXXIV- XXXV- XXXVI.


 

 

Ifigenia XXXIV-Il buio del cielo e le lacrime di Ifigenia

Quando suonò la campanella dell’intervallo andai a cercare Ifigenia. La ragazza allora alleviava i pesi più gravi che avevo sull’anima facendo riemergere la mia forza mentale e vitale dall’abisso di delusioni e dolori dove era caduta. La giovane donna mi aiutava a ritrovare la voglia di vivere dei mesi della stagione bella quando  avevo gioito lavorando, facendo l’amore, pedalando, correndo, nuotando.

La ragazza e collega mi dava anche il coraggio di oppormi ai subdoli e pure ai violenti nemici della mia identità conquistata con tanto impegno, di non tradirla, né sporcarla, di non cedere alle pressioni intese a schiacciarmi, ad annullare il bene e il bello conquistati con tanta  fatica.

La vidi nel corridoio che mena al portone dell’uscita: aveva la fronte appoggiata a una vetrata che inghiottiva la tenebra esterna. Le solide brume di fine novembre avevano vinto la facile gara sui cavalli del sole, bolsi in quei giorni, e incapaci di alzarsi nell’ atmosfera tanto da forarne l’oscurità e recare conforto ai mortali. Dopo la momentanea epifania della prima mattina, la carissima stella era sparita, ingozzata dalle fauci di una sordida massa buia, pesante, bagnata  che faceva sparire la luce, come un sordido obeso sudato inghiotte qualsiasi pezzo di roba che gli gonfi la pancia.

Quando Ifigenia si voltò, vidi che piangeva.

Mi avvicinai. Versava lacrime grandi dagli occhi di  cerbiatta che non trova la mamma. 

“Perché piangi tesoro?” Le domandai commosso e spaventato da quel dolore che le colava dagli occhi cristallino e vago.

“Ieri sera mio marito è andato a prendermi alla scuola di Yoga  e gli hanno detto che non ci ero andata. Mi ha inquisito a lungo. Voleva sapere perché. Temo che abbia capito come stanno le cose”

 

Ifigenia XXXV.  “non vi è profonda felicità senza morale profonda” (Robert Musil, L’uomo senza qualità, III, 22)

 

 

La ragazza si asciugò il viso con le mani chiuse a pugno, come fanno le bambine. Poi mi guardò con aria supplice e interrogativa. Ne ebbi paura e non lo dissimulai, anzi manifestai lo spavento dicendole con voce angosciata e tono aggressivo: “ Tu non avrai mica detto la verità?”.

Il terrore di perdere la mia indipendenza aveva stravolto e annientato l’atteggiamento protettivo e sicuro che prendevo di solito con la giovane collega che chiedeva il mio amore e il mio aiuto.

Temevo ogni attacco alla mia integrità fisica e mentale,  al mio equilibrio, alla mia identità fatta in massima parte di solitudine, studio, giri in bicicletta, esposizione al sole per migliorare il mio aspetto e il mio umore.

Se perdevo queste attività di base, smarrivo un’altra volta me stesso con il rischio di perdermi definitivamente questa volta. A 33 anni 11 mesi e 15 giorni ero già diventato un vecchio misantropo come Cnemone del Dyskolos di Menandro o come Timone ateniese di Plutarco e di Shakespeare.

Guardavo intorno a noi due per vedere se mi confortava l’apparizione di un’altra giovane donna dai sandali screziati magari, e in procinto di lanciarmi un sorriso o una palla variopinta perché gliela restituissi con uno scambio di simpatia.

Invece vidi passare un collega dai capelli ritinti “nero-rossi, qual pelo di faina,  radi ahimé, davvero pochini”[1].

Ci guardò male e proseguì, miserando e implacabile com’era.

 

L’angoscia mi attanagliava perché ero insicuro dal punto di vista morale siccome avevo fin da subito istigato la ragazza malmaritata a mentire a quell’uomo, pur sempre suo contubernale, a nascondere la verità dei fatti che pure mi avevano dato gioia, non solo piacere. Nella mia ansia causata dai sensi di colpa arrivavo a pensare che in fondo il preside e i colleghi nemici non avevano tutti i torti nel reputarmi un farabutto nefando associandomi all’illecita tresca che oramai esibivo sfacciatamente anche a scuola.

Ifigenia, constatata la mia viltà e la cattiva coscienza, si irrigidì e mi guardò con disprezzo: avevo smentito l’immagine che all’inizio le avevo ispirato: quella dell’onesto giovanni intelligente, colto, buono e leale.

Dalla sua espressione era sparito quel confidente immaginare un amore grande, pieno di mito e poesia tra noi due. Sentivo che la gioia, l’allegria e l’orgoglio della coppia illegittima stavano cadendo nel buio che oscurava ogni ambiente poco prima della metà del giorno.

Mi venne in mente una bella sentenza di Seneca che avevo imparato da poco per insegnare il latino e la morale agli allievi: “ego enim nego quemquam posse iucunde vivere nisi simul et honeste vivit[2], io infatti credo che nessuno può vivere piacevolmente se nel contempo non vive onestamente. Predicavo l’etica ma ero immorale. Nemmeno razionale né pragmatico ero,  poiché le menzogne che suggerivo e imponevo alla mia compagna danneggiavano e addoloravano entrambi.

 

 

Ifigenia XXXVI. Il repertorio di frasi e di gesti utili nelle “donnesche imprese”.

 

 

Ifigenia aveva capito e soffriva l’ignobile proposito mio di non prendermi alcuna responsabilità pretendendo che lei se la cavasse da sola con il marito, grande grosso e magari infuriato. A un tratto però la ragazza sfoderò la sua bella fierezza di femmina abituata a essere desiderata dagli uomini, e, non senza disprezzo, disse: “Non avere paura per te: ieri mi sono chiusa in camera senza parlare, oggi a casa mia non torno,  e tanto meno verrò nella tua”.

Rimasi spiazzato e le domandai: “Dove pensi di andare? Se non sono indiscreto”

“Non ti riguarda”-rispose, volgendosi di nuovo verso la caligine esterna che le abbuiava completamente il viso già cupo per la disillusione provata davanti a tanta meschinità.

 

In seguito alla dura risposta fui preso dalla paura di perdere il piacere  di tale femmina umana, bellissima e fiera, un piacere che tenevo in maggior conto dei sentimenti, soprattutto dei suoi.

Sicché cambiai tono e dal mio repertorio tirai fuori alcune battute piene di compassione e di promesse.

Ma Ifigenia non si lasciò commuovere né incoraggiare: continuava a fissare la tenebra esterna come se fosse più interessante delle parole che le andavo dicendo. Del resto nemmeno queste erano chiare.

 

Allora la paura di perdere il godimento della sua bella forma corporea, il desiderio di fare l’amore con lei tante altre volte, e forse anche la remota coscienza che perderla troppo presto era andare contro il destino in quanto con lei dovevo creare qualche cosa di grande e meraviglioso, prevalsero sulla paura di prenderla ancora per mano e aiutarla.

Mi venne in mente la sera dell’agosto del 1971 quando riuscìi a trattenere  Helena che mi stava lasciando, la più nobile e bella delle mie donnesche imprese e, ripetendo tanto le parole quanto i gesti di allora, riuscìi a mettere di nuovo insieme parole di sollecitudine autentica che riconquistarono la sua attenzione. Questo l’ho già raccontato.

Sicché le feci un sorriso non stirato dall’angoscia né capovolto dall’ironia e Ifigenia mi rivolse una sguardo benevolo, quasi a significarmi che poteva capire e compatire la mia vigliaccheria.

Quindi cominciai ad azzardare il gesto di una carezza mentre le dicevo che avrei voluto baciarla e asciugare le sue lacrime con i baci lacrimasque per oscula siccare.  Mi ero ricordato quanto il latino piaceva a Kaisa.

Dai dolori sofferti si impara ma dai successi goduti ancora di più.

Avevo ripetuto un’altra mossa giusta:  piacque pure a Ifigenia  che mi domandò: “ E questo chi è?”

E’ Ovidio nei Fasti  (III, 509), lo scrivo per te lettore. A lei invece non potei dirlo perché alle nostre spalle era arrivato il preside nostro certamente non per dirci “bravi!”

 

Pesaro 15 settembre  2024 ore 16, 45 giovanni ghiselli

 

p. s

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[1] Cfr. Pirandello, Dal fanale (1902)

[2] De vita beata, X, 1,

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