Skopas, Menade |
Anticipo un brano del Capitolo IV di La
Mente inquieta di Massimo
Cacciari di cui sto curando la recensione qui nel blog. Mi piace
particolarmente il comparativismo tra due arti diverse presente in questa
parte.
Ho molto da imparare. Ieri, commentando le Baccanti di
Euripide nel liceo di Faenza, ho paragonato la tensione verso
l’alto delle menadi di questa tragedia al collo teso e il viso
rivolto al cielo della menade scolpita da Skopas (IV secolo a.C)
L’occhio albertiano si decide in
questo senso con tanta consapevolezza, da non potersi trovare l’uguale in tutto
l’Umanesimo, tuttavia il dramma che esso vede è largamente condiviso (…)
filologia significa volersi esprimere, voler comunicare; comunicare
è possibile soltanto conoscendo l’interlocutore, “quis es, tu,
homo? (Plauto, Amphitruo, IV, 1); fedeltà al testo
implica realismo antropologico. Le grandi opere che studiamo non debbono
portare ad alcuna adulazione dell’uomo, bensì costringerci a comprenderne la
drammatica complessità. Riflettendoci sul loro specchio, anzi, è piuttosto la
nostra ‘miseria’ ad apparire: nella grande poesia la inopia del
nostro eloquio, nella grande architettura quella del nostro edificare. Esse non
devono servire a consolarci, bensì piuttosto a sostenerci nel perseverare nella
ricerca, per conferire una forma che duri al nostro presente doverci esprimere
e abitare” (p. 56)
Cacciari poi ricorda delle parole di Socrate cui
Platone nel Fedone (97 d, 4-5) fa dire che l’ejpisthvmh dell’ottimo
(to; bevltiston) è correlata a quella di ciò che è
inferiore (to; ceivron)
“Dal pericolo di un simile descensus nascono le
architetture albertiane; tanto più esse stanno, quanto più
sfidano l’inesorarabile opera del tempo “da cui son vinte anche le pietre
(Lucrezio, De rerum natura, V, 306: denique non lapides
quoque vinci cernis ab aevo”) quanto più ad infera affondano
le loro fondamenta. Le tonalità che assume la ‘stagione dell’inferno’
albertiana toccano corde varissime, spesso risonanti insieme nel medesimo
brano, dal riso (tav. 6) più mordace del Momus, che farà ritorno
nei ‘calci’ e negli ‘scherzi’ dell’Asino machiavellico, al sarcasmo più amaro,
dalla parodia alla malinconia più luttuosa (p. 57).
La tavola 6 riproduce un affresco di Bramante del
1487. Ora si trova a Milano, nella pinacoteca di Brera. Mostra
Eraclito e Democrito, il primo triste, chiomato aggrottato, l’altro mezzo calvo
e ridente, o irrisorio.
Bramante, Eraclito e Democrito |
Cacciari lo commenta facendo riferimento al” riso
liberatore” del Momus di Alberti. In questa satira “il
filosofo - che ride per eccellenza Democrito, è, a sua volta oggetto di riso,
pur distinguendosi con nettezza dagli altri personaggi dell’in
philosophos! albertiano, piú o meno tutti caratterizzati
dalla massima delle follie: volere che l’universo sia fatto a misura della
propria stultitia. Democrito appare interamente dedito a ricerche
naturalistiche, all’apparenza insensate (come vivisezionare un granchio), ma
che pure testimoniano della sua consapevolezza dei limiti dell’intelletto
umano. Insano, tuttavia, anche lui, poiché dimentica o non intende prendersi
cura della realtà che lo circonda, e dunque manca di quella virtus che il
filosofo, architetto e pittore, deve, per Alberti, possedere.
Cacciari menziona come “fonte seria, morale del
motivo”, il De tranquillitate animi di Seneca il quale
scrive:
“In hoc itaque flectendi
sumus, ut omnia vulgi vitia non invisa nobis sed ridicula videantur
et Democritum potius imitemur quam Heraclitum. Hic enim, quotiens in publicum
processerat,
flebat, ille ridebat, huic omnia quae agimus miseriae,
illi ineptiae videbantur. Elevanda ergo omnia et facili
animo ferenda: humanius est deridere vitam quam deplorare. Adice quod de humano quoque genere melius meretur qui ridet illud quam qui luget: ille ei spei
bonae aliquid
relinquit, hic autem stulte deflet quae corrigi posse
desperat; et universa contemplanti maioris animi est qui risum
non tenet quam qui lacrimas, quando lenissimum adfectum animi movet et nihil magnum, nihil severum, ne miserum quidem ex tanto paratu putat (15).
La fonte satirica invece si può trovare “nel
bellissimo dialogo di Luciano di Samosata, Vite all’incanto, dove
Giove e Mercurio cercano compratori per le anime di illustri filosofi”. Il
compratore trova che le vite di Democrito ed Eraclito siano in grande
contrasto: “al primo par tutto ridicolo, perfino gli stessi dèi, all’altro ogni
cosa triste e deplorabile!”
Cacciari commenta così: “ Ma è vero contrasto? Alberti
lascia capire che si tratta di atteggiamenti diversi di fronte alla stessa
visione delle cose. La stessa visione amara, disincantata della realtà può far
ridere o piangere il filosofo”.
Questo vale anche per il drammaturgo. Sentiamo
Pirandello nel saggio su L’umorismo (1908):
Parte I,
VI Umoristi italiani
Su Machiavelli:
“Ed io pensavo alla grandezza nuda di questo Sommo nostro che non andò mai a
vestirsi nel guardaroba della retorica, che come pochi comprese la forza delle
cose, a cui la logica venne sempre dai fatti, che contro ogni sintesi confusa
reagì con l’analisi più arguta e sottile, che ogni macchina ideale smontò con
gli strumenti dell’esperienza e del discorso, che ogni esagerazione di forma
distrusse col riso”.
O pure Giordano Bruno che nel frontespizio del Candelajo si
firma academico di nulla academia “e che per motto ebbe, come
tutti sanno, in tristitia hilaris, in hilaritate tristis, che pare
il motto dello stesso umorismo”
Parte II
Essenza, caratteri e materia dell’umorismo
Vediamo il don Chisciotte del Cervantes: “noi vorremmo
ridere di tutto quanto c’è di comico nella rappresentazione di questo povero
alienato (…) vorremmo ridere, ma il riso non viene alle labbra schietto e
facile; sentiamo che c’è qualcosa che ce lo turba e ce l’ostacola; è
un senso di commiserazione turba il riso, di pena e anche di ammirazione, sì,
perché se le eroiche avventure di questo povero hidalgo sono ridicolissime,
pure non v’ha dubbio che egli nella sua ridicolaggine è veramente eroico”. Il
riso diviene amaro. Una
rappresentazione veramente umoristica suscita perplessità. Gli scritti
umoristici contengono molte digressioni generati dalla riflessione. Ogni vero
umorista non è soltanto poeta, è anche critico.
Parte III
“La riflessione scompone
l’immagine creata da un primo sentimento per far sorgere da questa
scomposizione e presentarne un altro contrario (…) Come ho mostrato nel Sant’Ambrogio di
Giusti, la riflessione inserendosi come un vischio nel primo sentimento del
poeta, un sentimento di odio verso quei soldatacci, genera a poco a poco
il contrario del sentimento di prima”
Si pensi alle amare
risate di Aristofane.
L’uomo che cerca di
ribellarsi invano al suo destino è come la lumaca che gettata nel fuoco
sfrigola e pare ridere, invece muore. Così Atene muore nell’amara risata di
Aristofane.
Bosch, Stultifera navis |
Torno a Cacciari che commenta l’affresco: “da qui
l’inseparabilità delle due figure, come nell’affresco di Bramante (…) E’
democriteo, il riso albertiano? Gelasto, persona dell’Alberti
nel Momus, non sta forse a dimostrarlo? Certo, il suo autore
preferisce la maschera di Democrito a quella di Eraclito - come Montaigne (Saggi,
I, 50)”.
Non conoscevo questa preferenza di Montaigne e ho
consultato i Saggi cercando il passo di cui riferisco alcune
parole per chi lo ignora: “Democrito ed Eraclito sono stati due filosofi, dei
quali il primo, stimando vana e ridicola la condizione umana, si mostrava in
pubblico solo con volto beffardo e ridente; Eraclito, avendo pietà e
compassione di questa stessa nostra condizione, ne aveva il volto sempre
rattristato e gli occhi pieni di lacrime
Alter
Ridebat quoties a limite moverat unum
Protuleratque pedem. Flebat contrarius alter[1]
Io preferisco l’umore del primo, non perché sia più
piscevole ridere che piangere, ma perché è più sprezzante, e ci condanna più
dell’altro”.
Bruegel, Il trionfo della morte |
Di nuovo Cacciari: “Ma l’ironia, lo humor e
anche il riso di Gelasto non hanno nulla
dell’indifferenza sovrana per le
vicissitudini dei miseri mortali che caratterizzano l’immagine di Democrito.
Gelasto è imbarcato anche lui. Non c’è nessuna ostentazione
della superiorità dell’‘ironista’ sulla sua materia, come invece sarà palese
nell’Elogio erasmiano. In questo Alberti è assai più vicino alla
malinconia e al pianto che pervadono le grandi opere dei Bosch e dei Bruegel di
fronte allo spettacolo della nostra stultifera navis”.
[1] L’ultima parola di un verso e i due
successivi (27-29) della Satira X di
Giovenale, citati a memoria non precisissimamente.
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