NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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venerdì 8 marzo 2019

Cacciari: Filosofia, Letteratura e Arti figurative. Stralci dal capitolo IV del "Saggio sull'umanesimo"


Skopas, Menade
Anticipo un brano del Capitolo IV di La Mente inquieta di Massimo Cacciari di cui sto curando la recensione qui nel blog. Mi piace particolarmente il comparativismo tra due arti diverse presente in questa parte.
Ho molto da imparare. Ieri, commentando le Baccanti di Euripide nel liceo di Faenza, ho paragonato la tensione verso l’alto delle menadi di questa tragedia al collo teso e il viso rivolto al cielo della menade scolpita da Skopas (IV secolo a.C)

 L’occhio albertiano si decide in questo senso con tanta consapevolezza, da non potersi trovare l’uguale in tutto l’Umanesimo, tuttavia il dramma che esso vede è largamente condiviso (…) filologia significa volersi esprimere, voler comunicare; comunicare è possibile soltanto conoscendo l’interlocutore, “quis es, tu, homo?  (Plauto, Amphitruo, IV, 1); fedeltà al testo implica realismo antropologico. Le grandi opere che studiamo non debbono portare ad alcuna adulazione dell’uomo, bensì costringerci a comprenderne la drammatica complessità. Riflettendoci sul loro specchio, anzi, è piuttosto la nostra ‘miseria’ ad apparire: nella grande poesia la inopia del nostro eloquio, nella grande architettura quella del nostro edificare. Esse non devono servire a consolarci, bensì piuttosto a sostenerci nel perseverare nella ricerca, per conferire una forma che duri al nostro presente doverci esprimere e abitare” (p. 56)
Cacciari poi ricorda delle parole di Socrate cui Platone nel Fedone (97 d, 4-5) fa dire che l’ejpisthvmh dell’ottimo (to; bevltiston)  è correlata a quella di ciò che è inferiore (to; ceivron)
“Dal pericolo di un simile descensus nascono le architetture albertiane; tanto più esse stanno, quanto più sfidano l’inesorarabile opera del tempo “da cui son vinte anche le pietre (Lucrezio, De rerum natura, V, 306: denique non lapides quoque vinci cernis ab aevo”) quanto più ad infera affondano le loro fondamenta. Le tonalità che assume la ‘stagione dell’inferno’ albertiana toccano corde varissime, spesso risonanti insieme nel medesimo brano, dal riso (tav. 6) più mordace del Momus, che farà ritorno nei ‘calci’ e negli ‘scherzi’ dell’Asino machiavellico, al sarcasmo più amaro, dalla parodia alla malinconia più luttuosa (p. 57).

La tavola 6 riproduce un affresco di Bramante del 1487. Ora si trova a Milano,  nella pinacoteca di Brera. Mostra Eraclito e Democrito, il primo triste, chiomato aggrottato, l’altro mezzo calvo e ridente, o irrisorio. 
Bramante, Eraclito e Democrito
Cacciari lo commenta facendo riferimento al” riso liberatore” del Momus di Alberti. In questa satira “il filosofo - che ride per eccellenza Democrito, è, a sua volta oggetto di riso, pur distinguendosi con nettezza dagli altri personaggi dell’in philosophos! albertiano,  piú o meno tutti caratterizzati dalla massima delle follie: volere che l’universo sia fatto a misura della propria stultitia. Democrito appare interamente dedito a ricerche naturalistiche, all’apparenza insensate (come vivisezionare un granchio), ma che pure testimoniano della sua consapevolezza dei limiti dell’intelletto umano. Insano, tuttavia, anche lui, poiché dimentica o non intende prendersi cura della realtà che lo circonda, e dunque manca di quella virtus che  il filosofo, architetto e pittore, deve, per Alberti, possedere.
Cacciari menziona come “fonte seria, morale del motivo”, il  De tranquillitate animi di Seneca il quale scrive:
In hoc itaque  flectendi sumus, ut omnia vulgi vitia non invisa nobis sed  ridicula videantur et Democritum potius imitemur quam Heraclitum. Hic enim, quotiens in publicum processerat,
flebat, ille ridebat, huic omnia quae agimus miseriae, illi ineptiae videbantur. Elevanda ergo omnia et facili animo ferenda: humanius est deridere vitam quam deplorare. Adice quod de humano quoque genere melius meretur qui ridet illud quam qui luget: ille ei spei bonae aliquid 
relinquit, hic autem stulte deflet quae corrigi posse desperat; et universa contemplanti maioris animi est qui risum non tenet quam qui lacrimas, quando lenissimum adfectum animi movet et nihil magnum, nihil severum, ne miserum quidem ex tanto paratu putat (15).

La fonte satirica invece si può trovare “nel bellissimo dialogo di Luciano di Samosata, Vite all’incanto, dove Giove e Mercurio cercano compratori per le anime di illustri filosofi”. Il compratore trova che le vite di Democrito ed Eraclito siano in grande contrasto: “al primo par tutto ridicolo, perfino gli stessi dèi, all’altro ogni cosa triste e deplorabile!”
Cacciari commenta così: “ Ma è vero contrasto? Alberti lascia capire che si tratta di atteggiamenti diversi di fronte alla stessa visione delle cose. La stessa visione amara, disincantata della realtà può far ridere o piangere il filosofo”.

Questo vale anche per il drammaturgo. Sentiamo Pirandello nel saggio su L’umorismo (1908):
Parte I,
VI Umoristi italiani
Su Machiavelli: “Ed io pensavo alla grandezza nuda di questo Sommo nostro che non andò mai a vestirsi nel guardaroba della retorica, che come pochi comprese la forza delle cose, a cui la logica venne sempre dai fatti, che contro ogni sintesi confusa reagì con l’analisi più arguta e sottile, che ogni macchina ideale smontò con gli strumenti dell’esperienza e del discorso, che ogni esagerazione di forma distrusse col riso”. 
O pure Giordano Bruno che nel frontespizio del Candelajo si firma academico di nulla academia “e che per motto ebbe, come tutti sanno, in tristitia hilaris, in hilaritate tristis, che pare il motto dello stesso umorismo”
Parte II
Essenza, caratteri e materia dell’umorismo
Vediamo il don Chisciotte del Cervantes: “noi vorremmo ridere di tutto quanto c’è di comico nella rappresentazione di questo povero alienato (…) vorremmo ridere, ma il riso non viene alle labbra schietto e facile; sentiamo che c’è qualcosa che ce lo turba e ce l’ostacola;  è un senso di commiserazione turba il riso, di pena e anche di ammirazione, sì, perché se le eroiche avventure di questo povero hidalgo sono ridicolissime, pure non v’ha dubbio che egli nella sua ridicolaggine è veramente eroico”. Il riso diviene amaro. Una rappresentazione veramente umoristica suscita perplessità. Gli scritti umoristici contengono molte digressioni generati dalla riflessione. Ogni vero umorista non è soltanto poeta, è anche critico.
Parte III
“La riflessione scompone l’immagine creata da un primo sentimento per far sorgere da questa scomposizione e presentarne un altro contrario (…) Come ho mostrato nel Sant’Ambrogio di Giusti, la riflessione inserendosi come un vischio nel primo sentimento del poeta, un sentimento di odio verso quei soldatacci, genera a poco a poco il  contrario del sentimento di prima”
Si pensi alle amare risate di Aristofane.
L’uomo che cerca di ribellarsi invano al suo destino è come la lumaca che gettata nel fuoco sfrigola e pare ridere, invece muore. Così Atene muore nell’amara risata di Aristofane.

Bosch, Stultifera navis
Torno a Cacciari che commenta l’affresco: “da qui l’inseparabilità delle due figure, come nell’affresco di Bramante (…) E’ democriteo, il riso albertiano? Gelasto, persona dell’Alberti nel Momus, non sta forse a dimostrarlo? Certo, il suo autore preferisce la maschera di Democrito a quella di Eraclito - come Montaigne (Saggi, I, 50)”.

Non conoscevo questa preferenza di Montaigne e ho consultato i Saggi cercando il passo di cui riferisco alcune parole per chi lo ignora: “Democrito ed Eraclito sono stati due filosofi, dei quali il primo, stimando vana e ridicola la condizione umana, si mostrava in pubblico solo con volto beffardo e ridente; Eraclito, avendo pietà e compassione di questa stessa nostra condizione, ne aveva il volto sempre rattristato e gli occhi pieni di lacrime
Alter
Ridebat quoties a limite moverat unum
Protuleratque pedem. Flebat contrarius alter[1]
Io preferisco l’umore del primo, non perché sia più piscevole ridere che piangere, ma perché è più sprezzante, e ci condanna più dell’altro”.
Bruegel, Il trionfo della morte
Montaigne procede ricordando Diogene il quale canzonando “il grande Alessandro, stimando gli uomini mosche o vesciche piene di vento, era giudice ben più aspro e pungente, e quindi più giusto, secondo me, di Timone, che fu soprannominato l’odiatore degli uomini”.

Di nuovo Cacciari: “Ma l’ironia, lo humor e anche il riso di Gelasto non hanno nulla
dell’indifferenza sovrana per le vicissitudini dei miseri mortali che caratterizzano l’immagine di Democrito. Gelasto è imbarcato anche lui. Non c’è nessuna ostentazione della superiorità dell’‘ironista’ sulla sua materia, come invece sarà palese nell’Elogio erasmiano. In questo Alberti è assai più vicino alla malinconia e al pianto che pervadono le grandi opere dei Bosch e dei Bruegel di fronte allo spettacolo della nostra stultifera navis”.
   



[1] L’ultima parola di un verso e i due successivi (27-29) della Satira X di Giovenale, citati a memoria non precisissimamente.

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