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mercoledì 13 marzo 2019

"La mente inquieta. Saggio sull'Umanesimo" di Massimo Cacciari. Parte 6

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Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo (Einaudi, Torino, 2019).
Presenterò l'intero volume l'11 aprile alla Sapienza di Roma (sala Odeion)

Philosophica Philologia (pp. 29-51)


Torniamo a Cacciari: “Erasmo, ammiratore incondizionato del Valla Filologo, riprenderà anche molti temi del suo epicureismo e della sua polemica contro l’ascetismo religioso, ‘imborghesendone’ tuttavia alquanto la vis polemica (lo stesso potrebbe dirsi dell’Elogio della follia rispetto alle più ‘maledette’ tra le Intercenales [1]albertiane o al Momus[2]” (p. 47).

nell’Operetta morale La scommessa di Prometeo[3] gli uomini usano il fuoco per uccidersi e uccidere, e Momo, il vincitore della scommessa, domanda al Titano: “Avresti tu pensato, quando rubavi con tuo grandissimo pericolo il fuoco dal cielo per comunicarlo agli uomini, che questi se ne prevarrebbero, quali per cuocersi l’un l’altro nelle pignatte, quali per abbruciarsi spontaneamente?”.

“Antropologie filosofiche quasi opposte quelle della linea Alberti-Machiavelli e quella così ‘temperata’ erasmiana” (p. 47)
“Con il nuovo Epicuro di Valla, inizia la via disincantata della moderna scepsi[4]il lungo cammino che anche attraverso Erasmo conduce a Montaigne, al Raymond Sebond”.

L’uomo dunque visto come problema nel vivente e drammatico confliggere in lui di logos e pathos, ratio e oratio e in tale prospettiva dipingerlo.

Cfr. Medea e lo qumov" per il conflitto logos pathos o Fedra dell’Ippolito o quella di Seneca.
Una confutazione della supposta[5] sintonia e complicità razionalistca tra Euripide e Socrate[6] la fornisce Fedra quando nell'Ippolito dice:"bisogna considerare questo:/il bene lo conosciamo e riconosciamo,/ma non lo costruiamo nella fatica (oujk ejkponou'men: il bene topicamente costa povno", fatica), alcuni per infingardaggine (ajrgiva" u{po),/ alcuni anteponendogli qualche altro piacere./ E sono molti i piaceri della vita:/lunghe conversazioni, l'ozio, diletto cattivo[7], (scolhv, terpno;n kakovn) l'irrisolutezza (aijdwv" te, una forma brutta di aijdwv" ) "(vv.379-385).

Passiamo furor della Fedra di Seneca:"Quid ratio possit? Vicit ac regnat furor,/potensque tota mente dominatur Deus" (vv. 185-186), cosa potrebbe fare la ragione? Ha vinto e domina il furore, e sulla mente intera domina il Dio in tutta la sua potenza. Questo Dio è Amore, uno dei tanti aspetti assunti dal furor. Il furor di Fedra è talmente protervus spudorato che costringe la nutrice a cedere all'alumna accettando perfino che ella deturpi la propria reputazione:"si tam protervus incǔbat menti furor:/contemne famam" (vv. 269-270), se un furore così violento ti cova dentro, disprezza pure il tuo buon nome.

“Lo scetticismo seguente guarderà come a un sogno al tentativo di educare l’uomo, trarlo fuori[8] dall’interiore conflitto che lo marca.
Leon Battista alberti, come vedremo, è su questo punto un giano bifronte.
 “Il De bono[9] pensa ancora, invece, che questo fine sia realizzabile (p. 48)

Come Alberti, Euripide su questo punto è un Giano bifronte
Pessimismo pedagogico
Poi Teseo nella tragedia di Euripide pronuncia parole di pessimismo pedagogico; voi uomini errate in molte cose: tutto escogitate e insegnate, ma c’è una sola cosa che non sapete e nemmeno cercate-fronei'n didavskein oi|sin oujk e[nesti nou'" (Ippolito, 920), insegnare saggezza a quelli che non hanno senno.
Il kakw'" fronei'n è indicato tra i mali peggiori nell’Antigone e nelle Baccanti.

Altre espressioni di pessimismo pedagogico in Pindaro e precedentemente in Euripide
Pindaro nell’ Olimpica II chiarisce il suo pessimismo pedagogico: "sofo;" oJ polla; eijdw;" fua'/ :-maqovnte" dev, lavbroi-pagglwssiva/ kovrake" w{" a[kranta garuveton--Dio;" pro;" o[rnica qei'on ” (vv. 86-89), saggio è chi sa molto per natura, voi due[10] addottrinati invece, intemperanti, vaghi di ciance, come corvi di fronte al divino uccello di Zeus, gracchiate parole vuote.

Nell’Ecuba (del 424) di Euripide la protagonista sente raccontare da Taltibio il sacrificio di Polissena e prova “una strana consolazione” per la nobiltà con la quale la ragazza è morta, splendendo di bellezza, come un’opera d’arte, e parlando con il coraggio di un eroe: “Non è strano che, se la terra è cattiva,/ma ottiene buone condizioni dagli dèi, produce buona spiga,/mentre se è buona, ma non riceve quanto essa deve ottenere,/ dà cattivi frutti; tra gli uomini invece, sempre/il malvagio non è nient'altro che cattivo / mentre il buono è buono, né per una disgrazia/guasta la sua natura, ma rimane sempre onesto? (“oJ me;n ponhro;" oujde;n a[llo plh;n kakov",-oJ d j ejsqlo;" ejsqlov", oujde; sumfora'" u{po-fuvsin dievfqeir j , ajlla; crhstov" ejst j ajeiv;”)/Dunque i genitori fanno la differenza o l'educazione?/Certamente anche essere educati bene, porta/ un insegnamento di onestà; e se uno l’ha imparato bene,/ sa che cosa è turpe, avendolo appreso con il metro del bello. /Ma questi pensieri la mente li ha scagliati invano", (Ecuba, vv. 592-603). In questa tragedia dunque prevale il pessimismo, come nell’ode di Pindaro.

Ottimismo pedagogico in Euripide, due anni dopo
Nelle Supplici, del 422, un dramma che è tutto un encomio degli Ateniesi, leggiamo invece l'espressione di un incondizionato ottimismo pedagogico, forse per il fatto che si stava preparando la pur malsicura pace di Nicia: Adrasto fa l'elogio funebre dei Sette caduti nella guerra contro Tebe, poi conclude rivolgendosi direttamente a Teseo: “ Non ti stupire dopo quanto ho detto,/ Teseo, che questi abbiano avuto il coraggio di morire davanti alle torri./Infatti essere educati non ignobilmente comporta il senso dell'onore:/e ogni uomo che ha esercitato il bene/si vergogna di diventare vile. Il coraggio è/ virtù insegnabile (hJ eujandriva-didaktovn), se è vero che il bambino impara/a dire e ad ascoltare quello di cui non ha cognizione./Ma quello che uno abbia imparato, suole conservarlo/fino alla vecchiaia. Così educate bene i vostri figli"(vv. 909-917).

Valla dunque ritiene “che sia possibile non solo apprendere ciò che per noi è bonum, ma anche vivere in coerenza alla sua idea. L’operari delle arti, la potenza della Filologia connessa a Ermete e informante di sé le bonae artes, sembrano a Valla testimoniare che un nuovo ordine umano sia possibile. Comunque, tale possibilità deve essere detta senza verbositas, senza alimentare vuote illusioni. La natura umans è vulnerata- Agostino docet- ma altresì vulnerante” Essa può offendere il linguaggio e calpestare l’antico. “E qui Valla davvero ‘si sposa’ con il pensiero di Alberti” (p. 48). Valla[11] e Alberti[12] vengono definiti “i due sommi dell’Umanesimo” ai quali si devono comparare e contrapporre “in inimicizia fraterna” Ficino e Pico.
Il nesso tra i due sommi possiamo forse vederlo nel De libero arbitrio (1439) di Lorenzo Valla. Qui la polemica si scolge contro Boezio”maestro della tradizione umanistica, potente fattore di congiunzione tra Medioevo e Umanesimo”
La risposta su come il libero arbitrio umano si concili con la prescienza divina non c’è “o meglio, la risposta, tragice, è quella albertiana: “desine, inepte, nam res divinae carcere mortali nusquam detinentur” (Apologo, LIV).

Ignoriamo perché Dio voglia così: “scientia ignorationis, docta ignorantia. “Ignoranza che proviamo esistenzialmente ogni volta che, pur vedendo il bene, operiamo il male” (p. 49). Cfr. quanto dice Fedra nell’Ippolito di Euripide citato sopra
“Anche in questo l’uomo è ‘grande miracolo’.
Boezio “appartiene a quella odiosa schiatta di filosofi e teologi che fanno gli avvocati di Dio, pretendendo di ‘razionalizzarne’ gli atti.”
“Nessuna verbositas può aiutarci a mascherare questa essenziale ignoranza riguardo a Dio, così come riguardo a noi stessi. Non c’è scienza delle cose divine, e neppure dal fondo della nostra anima. Questo il punto fondamentale: theologia non est scientia, “scenica meretricula” (De vero falsoque bono (III, 12) i tentativi di fondare sulla ragione l’atto di fede”
Si può tuttavia tentare un commento alla parola di Dio, al Vangelo “e proprio a partire dal suo punto più scabroso, enigmatico: la traduzione-interpretazione di Logos” p. 50.
In nota Cacciari scrive: “Anche in questo campo teologicamente periculosum maxime occorre contrapporsi a ogni concetto astratto: Logos è Verbum, ma, di più, Vox reale, la Voce-che chiama e ci parla: Sermo
Nel De consolatione dell’antico maestro, invece, “non si trova nemmeno un segno della nostra religione” (p. 50)
Valla sembra affermare che l’essere libero non è dimostrabile. “Però posso affermare con assoluta certezza che voglio essere libero, che la mia natura mi impone di volerlo essere” (p. 51). Questa sua idea “si accompagna in politicis a un’istanza di giustizia (…) L’idea di libertà è la forma trascendentale del nostro agire, l’indimostrabile presupposto su cui esso si regge e assume senso e valore. Anche la virtus machiavellica si reggerà su questo fondamento teoretico, altrimenti si dovrebbe sostenere che la Fortuna soltanto tiene l’uomo “sotto el giogo suo” (Lettera al Soderini)

Nel prologo del Prometeo incatenato Kratos dice a Efesto che libero di fatto non è nessuno tranne Zeus (“ejleuvqero" ga;r ou[ti" ejsti; plh;n Diov", v.50), ma Prometeo nel secondo episodio, risponde al coro delle Oceanine che gli ha domandato se Zeus è meno potente delle tre parche e delle Erinni dalla forte memoria: “ certo neppure Zeus può sfuggire per lo meno al destino” (ou[koun a]n ejkfuvgoi ge thn; peprwmevnhn, v. 518)
La vecchia regina protagonista dell'Ecuba considera la tuvch una dei tiranni di un'umanità rimasta senza fedi né valori, una specie di creature materialiste, sanguinarie, idolatre:"non c'è tra i mortali chi sia libero:/infatti siamo schiavi delle ricchezze oppure della sorte, inoltre la folla o le leggi scritte della polis impediscono avvalersi delle inclinazioni secondo il giudizio "(vv. 864-867).

Concludiamo la visione del III capitolo
Libertà e linguaggio sono “massimi doni entrambi, anche se non entrambi, per Dante, immediate a Deo. Questo tombro paradossale e drammatico che lega i termini di volontà e libertà percorre tutto l’Umanesimo, a partire da Petrarca. Ciò che m’è dato sostenere con rigore è che non so le cause ultime del mio agire, né la causa agente né quella finale, e mi credo perciò libero-so che mi credo libero anche grazie a questa ignoranza.
Di nuovo, si tende qui un arco tra Valla e Pomponazzi[13]. L’esserci dell’uomo ‘miracolo grande’ vive di questa drammatica interrogazione, ne cerca la soluzione e continuamente naufraga di fronte al problema della libertà (…) forse che l’uomo di Pico, ‘gettato’ nel possibile, si muove secondo una prospettiva così diversa e lontana?”


CONTINUA



[1] Dialoghi da leggersi durante le cene, 1440
[2] Satira dell’Alberti 1450.
[3] Del 1824.
[4] skevyi" esame e dubbio
[5] Da Nietzsche appunto che definisce il maestro di Platone un logico dispotico:" Basta pensare alle conseguenze delle proposizioni socratiche:"La virtù è il sapere; si pecca solo per ignoranza; il virtuoso è felice"; in queste tre forme fondamentali di ottimismo sta la morte della tragedia" (La nascita della tragedia, p. 96). Alla fine delle Rane di Aristofane, dopo che Dioniso ha attribuito la vittoria a Eschilo nella contesa con Euripide, il Coro afferma che è una bella cosa non stare seduto a cianciare (lalei'n) con Socrate disprezzando la musica e trascurando la grandezza dell'arte tragica (vv. 1491-1495)
[6] Il quale nell'opera di Platone sostiene che facciamo il male per ignoranza del bene, e, se solo conosciamo il bene. non possiamo fare il male.
[7] Il piacere dell'ozio come sirena che distoglie dal fare cose egregie è denunciato anche da Tacito nell'Agricola:"subit quippe etiam ipsius inertiae dulcedo, et invisa primo desidia postremo amatur " (3), infatti si insinua anche il piacere della stessa passività, e alla fine si ama l'accidia dapprima odiosa.
L'ozio che fa male si trova pure nel carme 51 di Catullo: "Otium, Catulle, tibi molestum est (v.13), lo star senza far niente ti fa male, Catullo.
[8] edūco-ere di cui edǔco-are è intensivo
[9] De vero falsoque bono del Valla 1441
[10] Simonide e Bacchilide, secondo gli scoliasti
[11] Nel De voluptate (titolo della prima redazione, 1431, nuova redazione col titolo De vero bono) Valla svolge una vivace polemica contro l'etica stoica e l'ascetismo cristiano, in difesa della natura, ministra di Dio; di qui la celebrazione di una morale che è impegno e gioia di vivere, ricerca di piaceri giustamente equilibrati secondo il loro minore o maggiore valore. Ma dove più forte appare l'influenza dell'etica epicurea (V. rifiuta però l'atomismo e la fisica di Epicuro) si inserisce senza contrasto l'insegnamento etico cristiano: anche questo indirizza al conseguimento del piacere, del più alto e più puro che si realizza nella vita futura presso Dio, ma che non è necessariamente in contrasto con il godimento di beni terreni; questa posizione ispira l'assidua polemica antiascetica e la celebrazione del piacere sino alla divina voluptas. Nello scritto posteriore De libero arbitrio (1439), è in primo piano la polemica contro la ragione dialettica e sofistica, per celebrare il primato della fede, sulla scorta dell'insegnamento di s. Paolo. Il bersaglio è Aristotele e la teologia scolastica aristotelica, soprattutto il tomismo. Sulla linea della polemica antiaristotelica si svolgono anche le Dialecticae disputationes (1439), dove si ribadisce la condanna di Aristotele per la sua astrattezza, per l'incapacità di offrire insegnamenti validi nella vita associata, nelle scienze pratiche; ma la polemica si allarga contro il dogmatismo, contro le futilità della logica, contro un sistema che sostituisce le parole alle cose. Sullo sfondo della polemica antiscolastica si comprendono meglio la difesa della lingua come strumento di comunicazione e di conoscenza, la difesa della grammatica e della retorica come scienza del pensiero e del linguaggio. Le Elegantiae linguae latinae (1435-44) sono da questo punto di vista un testo esemplare: la lingua latina offre, nella sua purezza, lo strumento per conoscere quello che è il patrimonio di cultura più elevato della storia umana e un mezzo di comunicazione e trasmissione dei valori proprî di quella cultura. Ma soprattutto in V. lo strumento linguistico si presenta come strumento critico e storico: di qui l'importanza delle sue Annotazioni sul testo del Nuovo Testamento (1444; pubbl. da Erasmo nel 1505) e del De falso credita et ementita Constantini donatione in cui V. dimostra, con ragioni filologiche e storiche, la non autenticità (del resto già sostenuta da Niccolò da Cusa) del documento che avrebbe comprovato la donazione di territorio fatta da Costantino alla Chiesa, e quindi il diritto dei pontefici al potere temporale. Polemico contro gli ecclesiastici è il De professione religiosorum (1442; pubbl. 1869). Acuto critico della tradizione anche storiografica, non fu però egli stesso storiografo eccelso: i tre libri Historiarum Ferdinandi regis Aragoniae (1444-45; pubbl. 1521) sono, più che una storia del regno, una biografia aneddotica del re, padre di Alfonso. Tutta l'attività di V. e le sue aspre polemiche (con Antonio da Rho, con B. Fazio, col Panormita e soprattutto quella con Poggio Bracciolini) significarono l'affermazione d'un metodo filologico e storico, in stretta connessione con le esigenze di una nuova comprensione del mondo latino e della elaborazione di strumenti idonei a una vita nella città terrena.
[12] Studiò a Venezia e Padova (ove fu allievo di G. Barzizza) e passò poi a Bologna ove (1428) conseguì la laurea in diritto canonico; alla corte di Eugenio IV, che seguì nelle varie tappe del suo avventuroso pontificato, ebbe numerosi incarichi e poté godere di benefici ecclesiastici. La sua situazione nella curia migliorò sotto Niccolò V e Pio II, fino al 1464, quando Paolo II soppresse il collegio degli abbreviatori. Cominciò con una commedia moraleggiante latina, Philodoxeos (1424); e questo moralismo si precisa nelle bizzarre Intercoenales latine, satira della discorde e traviata convivenza umana (cfr. anche il dialogo Pontifex, 1437, sulla dignità del sacerdozio, e soprattutto il Momus o De principe, 1443 circa). Tutte volgari le opere maggiori, dal Teogenio (1440 circa), dialogo in cui è ripreso il motivo urbanistico della virtù che si inpone all'avversa fortuna, al dialogo Della tranquillità dell'animo (1442), e al De Iciarchia (1468), ultima opera dell'A., che in tre libri riprende e conclude il discorso sul governo della casa (οκεαρχα) come d'un regno autonomo e libero che l'uomo costruisce a sua misura/">misura in contrapposto allo stato. Ma nell'opera letteraria dell'A. eccelle il trattato dialogico Della famiglia: i primi tre libri (1433-34) trattano dell'educazione dei figli, della vita coniugale e domestica, ascendendo al ritratto dell'uomo virtuoso che accentra e conforma a sé il nucleo familiare; il quarto (1441) tratta dell'amicizia, tema dall'A. proposto quell'anno per il certame coronario. Anche con questa iniziativa l'A., studioso della lingua e dello stile, aprì la questione di una letteratura volgare che gareggiasse con la classica. Alla formazione ed esperienza letteraria dell'A. è strettamente connessa la sua attività artistica e tecnica, per la quale ebbe decisiva importanza il suo soggiorno a Roma, di cui prese a studiare le rovine antiche, misurandole secondo il metodo appreso dal Brunelleschi, ma apprezzandole soprattutto da un punto di vista umanistico: un risultato ne fu una latina Descriptio urbis Romae. A Roma sembra che dirigesse i lavori di restauro dell'acquedotto dell'Acqua Vergine, del Ponte Molle e della basilica di S. Pietro, mentre nei Ludi mathematici tentava la soluzione d'importanti problemi e la descrizione dei varî strumenti da lui inventati o perfezionati: dall'"equilibra", o livella a pendolo, all'"odometro", o compasso itinerario, alla "bolide albertiana", per sondare la profondità del mare. Venuto a Firenze, l'A. si accorse che un'arte nuova vi era sorta, rappresentata da innovatori come Brunelleschi, Donatello, Masaccio, Paolo Uccello, ecc. Di qui il trattato De pictura (1435) da lui composto in latino e poi tradotto in volgare, e dedicato al Brunelleschi, suo amico già da alcuni anni. Dello stesso tempo è anche il De statua. Il De pictura può dirsi la teorizzazione della concezione dell'arte del primo Rinascimento fiorentino, per cui essa non è più imitazione naturale ma conoscenza della natura, fondata sul nuovo concetto della prospettiva raggiunta scientificamente. L'entusiasmo per l'arte fiorentina va poi attenuandosi col ritorno a Roma (nel 1452 compie il trattato latino De re aedificatoria completato dall'opuscolo sui Cinque ordini architettonici, dove appare chiara la reverenza per l'insegnamento di Vitruvio). Dell'atteggiamento dell'A. di fronte alla "pratica" dell'architettura è indice il fatto che egli non diresse mai di persona l'esecuzione dei suoi progetti, interessandosi soprattutto alla loro ideazione. Così, circa il 1443, dava consigli per la costruzione del campanile del Duomo di Ferrara e per l'"Arco del Cavallo" (monumento a Nicolò III d'Este). Accettato l'incarico di Sigismondo Pandolfo Malatesta di ampliare e arricchire con un grande rivestimento marmoreo l'esterno della chiesa di S. Francesco a Rimini (Tempio malatestiano), ne dava da Roma un progetto che conosciamo attraverso la celebre medaglia del 1450 di Matteo de' Pasti. Costruita nel sec. 13°, S. Francesco era stata trasformata all'interno (1447 segg.) da Matteo de' Pasti: l'A. non tenne conto dell'interno, e impresse all'esterno un poderoso senso di romanità: nella facciata tre grandi archi, ispirati a quello d'Augusto in Rimini stessa, e le colonne sorgenti da un alto stilobate; in vetta, un ampio nicchione; in ciascun fianco, sempre sullo stilobate, una vigorosa serie di nicchie. Il monumento rimase incompiuto; tra l'altro la parte alta della facciata non fu condotta a termine e la cupola che doveva sorgere all'incrocio del transetto con la navata e che ne sarebbe stata il tratto saliente, non fu mai eseguita. Nelle chiese di S. Sebastiano (prime idee, 1460 circa) e di S. Andrea (id., circa 1470) di Mantova - progettate da quando l'A. divenne consigliere, in materia d'architettura, di Ludovico Gonzaga - l'A. può sviluppare unitariamente esterno e interno: nella prima chiesa, a croce greca, il rapporto dei volumi interni sarà esemplare per il tipo della chiesa a pianta centrale (Bramante); nella seconda, costituita da una grande navata coperta da volta a botte, con cappelle laterali, innovando nella tradizionale forma basilicale, l'A. dà, com'è noto, il maggior contributo alla soluzione di quel tipo di chiesa che diverrà poi usuale nella 2a metà del sec. 16°. A Firenze l'A. aveva intanto, con il palazzo e la loggia Rucellai, la cappella del S. Sepolcro nella chiesa di S. Pancrazio, e la facciata della chiesa di S. Maria Novella, dati altrettanti esempî importantissimi della sua personale visione architettonica. Il rinnovamento portato dall'A. nel palazzo Rucellai (1447-51 circa). che deriva direttamente dallo studio dei monumenti romani, è profondo: i pilastrini dividono per la prima volta la fronte di una casa fiorentina in pause regolari, chiudendo nei loro intervalli le finestre dei piani superiori, vaste, maestose. Con caratteri assolutamente nuovi si presenta il tempietto del S. Sepolcro, di forma rettangolare, tutto rivestito di marmo, con pilastri scanalati e capitelli corinzî. Per la facciata di S. Maria Novella (1455 ?-70), rimasta incompiuta e decorata nella parte inferiore in schietto stile romanico fiorentino (fine sec. 13°), ideò la parte superiore, ricollegandovi l'inferiore, cui aggiunse il portale. Chiuse l'ordine inferiore tra due robusti pilastri che ripeté ai lati del portale; vi posò sopra un ricco cornicione e su questo innalzò l'attico, di struttura assai originale, fiancheggiato da due volute e sormontato da un timpano triangolare. Nella "rotonda" dell'Annunziata l'A. sviluppa ancora il tema della costruzione longitudinale terminata da una struttura a pianta centrale.
[13] (latinizz. in Petrus Pomponatius). - Pensatore italiano del Rinascimento, nato a Mantova il 16 settembre 1462, morto a Bologna il 18 maggio 1525. Dopo avere studiato all'università di Padova, dove fu scolaro dell'Achillini (contro il cui averroismo ebbe più tardi a polemizzare), vi si addottorò in medicina ...
nel De immortalitate P. afferma nettamente l'impossibilità di dimostrare l'immortalità dell'anima nell'ambito della filosofia aristotelica, confutando così sia la tesi averroistica sia quella tomistica. L'anima umana per P. è per sé mortale (in quanto connessa nella sua attività alla vita vegetativo-sensitiva) e solo secundum quid immortale: essa non è immortale ma «profuma» (odorat) d'immortalità. Né questa tesi, sottolinea P., è dannosa per la morale, giacché la virtù non è legata a un premio ultraterreno, bensì è «premio a sé stessa», mentre «la speranza del premio e il terrore della pena comportano un certo atteggiamento servile che è contrario alla virtù». Esclusa la possibilità di «dimostrare» con i principi della filosofia aristotelica l'immortalità dell'anima, P. dichiarava che il problema è «neutro» e la sua soluzione può essere data solo da Dio ed essere quindi oggetto di fede.

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