Heinrich Fueger Prometeo porta i fuoco agli uomini |
Le Troiane di Euripide (415 a. C.)
Parte 7
La
Necessità
breve
excursus
Prometeo
si vanta di avere inventato tutte le tevcai e di avere beneficato i mortali: i
quali vivevano sottoterra come labili formiche, in grotte fonde, senza sole.
Prometeo ha insegnato loro tutto: i numeri, le lettere, l’aggiogamento degli
animali, la navigazione. Non avevano farmaci, e io indicai loro miscele e[deixa
kravsei~ di salutari rimedi che tengono lontani tutti i morbi. E ordinai le
molte forme della mantica e l’interpretazione dei sogni (485 - 6) e dei
presagi, i voli degli uccelli, gli auspici, l’aruspicini. Aprii anche gli occhi
dei mortali ai presagi della fiamma. Ho scoperto i metalli.
Isomma
tutte le tecniche ai mortali derivano da Prometeo: "pa'sai tevcnai brotoi'sin ejk
Promhqevw" (Prometeo incatenato, v. 507).
"Questo
sapere è sempre una conoscenza pratica: è il sapere che ha creato la civiltà,
le tevcnai. Egli ha insegnato loro i diversi mestieri, inoltre l'astronomia, i numeri
e le lettere; ma non per allargare la conoscenza del mondo nel senso degli
antichi ionici: al contrario, questo sapere è orientato, alla maniera attica,
verso le tevcnai, verso uno scopo pratico e un'utilità… il fuoco è il simbolo
delle tevcnai, dell'attività pratica"[1].
Questo
Titano è una divinità solo apparentemente benefica. Deve riconoscere: ho infuso
in loro[2] cieche speranze
("tufla;" ejn
aujtoi'" ejlpivda" katw/vkisa",
Prometeo incatenato ,v.250).
Prometeo
del resto sa bene che la forza della Necessità è superiore “ tevcnh d j ajnavgkh"
ajsqenestevra makrw'/ ” (v. 514):, la
conoscenza pratica è molto più debole della necessità.
Cfr.
a questo proposito Curzio Rufo: “Ceterum,
efficacior omni arte, necessitas non
usitata modo praesidia, sed quaedam etiam nova adnovit”( Historiae Alexandri Magni, IV, 3, 24),
del resto la necessità più potente di ogni tecnica, suggerì loro non solo i
soliti mezzi di difesa ma anche dei nuovi. Sono i Tirii che si difendono
dall’assedio di Alessandro Magno nel 332 a. C.
Avanzando
nella Sogdiana Al. si trovò in difficoltà per il freddo e incendiò un bosco: “efficacior in adversis necessitas quam
ratio, frigoris remedium invenit” (8, 4, 11). Ancora la necessità che
prevale sulla ratio (cfr. 7, 7, 10: necessitas ante rationem est).
Il
potere assoluto dell' jjjjAnavgkh è apertamente affermato da Euripide nell'Alcesti. Nel terzo Stasimo della sua
tragedia più antica ( è del 438) tra le diciassette a noi pervenute, il poeta
attraverso il Coro eleva un inno alla Necessità vista come la divinità massima,
quella che vincola e subordina tutti, compresi gli dèi:
"Io
attraverso le muse/mi lanciai nelle altezze, e/ho toccato moltissimi
ragionamenti (pleivstwn
aJyavmeno" lovgwn),/ma non ho trovato
niente più forte/della Necessità né alcun rimedio (krei'sson oujde;n jAnavgka" -
hu|ron oujdev ti favrmakon, 965 - 966)/nelle
tavolette tracie che scrisse la voce di/Orfeo, né tra quanti rimedi/diede agli
Asclepiadi Febo/dopo averli ricavati dalle erbe come antidoti/per i mortali
afflitti dalle malattie"(vv. 962 - 972). Da questi versi si vede che la
Necessità è più forte del lovgo" , della poesia, dell'arte medica.
E
ancora: la Necessità non è meno forte di Zeus: “kai; ga;r Zeu;~ o{ti neuvsh/ - su;n soi; tou'to
teleuta'/” (Alcesti, 978 - 979), e infatti qualunque cosa Zeus approvi, con te
(la Necessità) lo porta a compimento, le dice il coro dei vecchi di Fere.
Nella
Prefazione al romanzo Notre - Dame de
Paris, Victor Hugo scrive che “rovistando all’interno di Notre - Dame…trovò
in un recesso oscuro di una delle torri, questa parola incisa a mano sul muro: ANAGKH
Ebbene,
conclude la prefazione: “Proprio su quella parola si è fatto questo libro.
Marzo
1831”. E’ l’anno di pubblicazione del romanzo
Delle
mie sciagure non c’è misura né numero e i mali gareggiano con i mali ( w|n g j ou[te mevtron ou[t j
ajriqmov" estiv moi: - kakw'/ kako;n ga;r eij" a{millan e[rcetai), Troiane, vv.
620 - 621), dice ancora Ecuba.
Nell’Edipo re, il Coro nella Parodo canta: “ajnavriqma ga;r fevrw phvmata ” (268
- 170) e : “nosei` dev moi provpa~ stovlo~”.
Pavese
10 giorni prima di uccidersi scrisse: “più il dolore è determinato e preciso,
più cade l’dea del suicidio” (18 agosto, 1950).
Andromaca
annuncia la morte di Polissena e cerca di consolare la suocera dicendo che la
propria vita sarà peggiore della morte.
Ma
Ecuba replica che nel vivere ci sono sempre delle speranze (tw'/ de; e[neisin ejlpivdeς, 632) ribaltando così la sapienza silenica. Cfr. Achille
nella Nevkuia.
Andromaca
ribadisce che è meglio essere morti piuttosto che vivere nelle pene (637). Lei
era un’ottima moglie, stava in casa (650), eppure ha fallito.
La
moglie di Ettore fa il ritratto della buona sposa, casalinga, silenziosa e
sottomessa.
Tale
autoelogio si trova già nell’Andromaca
(del 427) dove la moglie di Ettore arriva a dire che offriva perfino il proprio
seno ai bastardi del marito per compiacerlo
"O carissimo Ettore, io
per compiacerti / partecipavo ai tuoi amori[3], se in qualche
occasione Cipride ti faceva scivolare,/e la mammella ho offerto già molte volte
ai tuoi bastardi /, per non darti nessuna amarezza. / E così facendo attiravo a
me lo sposo / con la virtù; tu neppure una goccia di celeste rugiada/ lasci che
si posi sul tuo sposo per paura" (vv. 222 - 228).
L'abnegazione di Andromaca arriva al punto di
accettare le amanti di Ettore condividendo gli amori di lui, ossia amandole. Se
questo le dava amarezza (pikrovn , v. 225) non importa: bastava
toglierla allo sposo. Con tali parole la vedova di Ettore cerca di istruire la
giovane Ermione.
Andromaca
dunque racconta che offriva allo sposo silenzio di lingua e volto calmo (Troiane, 654). E non lasciava entrare in
casa scaltre chiacchiere di femmine: e[sw te melavqrwn komya; qhleiw`n[4] e[ph - oujk
eijsefrouvmhn (vv. 651 - 652)
La
corifea dell’ Elettra di Euripide
dice a Clitennestra che le donne devono cedere in tutto allo sposo: gunai`ka ga;r crh; pavnta sugcwrei`n
povsei (v. 1052).
Ettore
per Andromaca era tutto ( come nel VI dell’Iliade).
Ora
nella sua vita non c’è più la speranza. Polissena dunque sta meglio di lei,
conclude la vedova dell’eroe. Io infatti sarò schiava in casa di assassini
(v.660)
Ecuba
raffigura la propria disperazione con un’altra metafora marina: il flutto
funesto scatenato dagli dèi la vince ( nika'/ ga;r oujk qew'n me duvsthno" kluvdwn , 696) come succede ai marinai quando il mare grosso e
perturbato (polu;~
taracqei;~ povnto~, 692) ha il sopravvento.
Cfr.
il prologo dell’Edipo re dove povli~ saleuvei, la città fluttua e non riesce più a sollevare il capo dai
vortici del flutto insanguinato.
Ecuba
del resto consiglia alla nuora di offrire al padrone presente fivlon devlear sw`n trovpwn (Troiane, 700)
la cara esca dei tuoi costumi. Andromaca stessa aveva detto che la sua
reputazione di donna per bene l’ha resa desiderabile tra gli Achei (v. 657).
Rientra
Taltibio a portare oujc eJkwvn (710), non volentieri, una notizia orrenda. E’
prevalso il parere di Odisseo di ammazzare Astianatte. Taltibio consiglia la
madre di non ribellarsi, se vuole che il bambino venga almeno seppellito.
Andromaca
nota che il mondo va a rovescio: è proprio la nobiltà del padre che lo ucciderà:
hJ tou` patro;~ dev s j
eujgevnei j ajpoktenei` (v. 742), quella
nobiltà che per altri è stata la salvezza.
E’ l’acta retro cuncta dell’Oedipus (367). L'ordine è stato
rovesciato e la profetessa Manto, figlia di Tiresia, dice:" Mutatus
ordo est, sed nil propria iacet;/ sed acta retro cuncta (vv. 366 - 367).
nel Macbeth di Shakespeare
la moglie di Macduff, invitata a fuggire da un messaggero, prima che arrivino i
sicari del tiranno, risponde: “Whither
should I fly? - I have done no harm. But I remember now. - I am in this earthly world where to do harm - is
often laudable; to do good, sometime - accounted dangerous folly” (IV,
2), dove dovrei scappare? Io
non ho fatto del male. Ma ora ricordo. Io sono in questo basso mondo dove fare
il male è spesso lodevole; fare il bene, talora è considerata pericolosa
follia.
Il
bambino piange e cerca rifugio neosso;~ wJseiv (751), come un
uccellino sotto le ali della madre. Tutte le fatiche per partorirlo e allevarlo
sono state spese a vuoto (dia;
kenh`~, 758) e invano (mavthn,
760).
La
madre chiede al bambino di abbracciare th;n tekou`san (v. 761) colei che
lo ha partorito.
Il
parto breve excursus
La
fatica del parto è spesso rievocata dalle donne della tragedia greca.
Le
sofferenze della donna nel dare alla luce sono ricordate nell' Elettra
di Sofocle da Clitennestra quando l’adultera assassina tenta di giustificarsi
per il trattamento riservato al marito il quale non era incolpevole: egli
sacrificò Ifigenia dopo averla seminata, senza avere passato il travaglio della
madre quando la partorì: "oujk i[son kamw;n ejmoi; - luvph", o{t' e[speir' , w{sper hJ
tivktous' ejgwv" ( vv. 531 - 532). Qui il
seminare conta meno del partorire. Cfr. viceversa Apollo nelle Eumenidi.
Nelle
Fenicie di Euripide, la Corifea commenta la pena di Giocasta per
Polinice dicendo:"deino;n
gunaixi;n aiJ di' wjdivnwn gonaiv, - kai; filovteknovn pw" pa'n
gunaikei'on gevno"" (vv. 355 - 356),
sono terribili per le donne i parti attraverso le doglie, e tutta la razza
femminile è in qualche modo amante dei figli.
Giocasta
lo è stata anche troppo; Medea evidentemente fa eccezione.
In
ogni caso anche lei ricorda il dolore del parto.
“Dicono di noi che viviamo una vita senza pericoli/
in casa, mentre loro combattono con la lancia,/ pensando male: poiché io tre
volte accanto a uno scudo/ preferirei stare che partorire una volta sola. (Medea, vv. 248 - 251).
Nell'
Ifigenia in Aulide la Corifea comprende la pena di Clitennestra per la
figliola, ricordando quale prova terribile sia il parto: "deino;n to; tivktein kai; fevrei
fivltron mevga - pa'sivn te koino;n w{sq' uJperkavmnein tevknwn" (vv. 917 - 918), tremendo è partorire e comporta una
grande magia d’amore comune a tutte, tanto da soffrire per i figli.
Partorire
dunque è una delle cose tremende (ta; deinav Cfr. Antigone di Sofocle I stasimo).
Fine
parto
CONTINUA
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