Hieronymus Bosch, Trittico del carro di fieno (fare click sull'immagine per ingrandirla) |
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Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo (Einaudi, Torino, 2019).
Ne farò una presentazione il 28 marzo a Bologna
Presenterò l'intero volume l'11 aprile alla Sapienza di Roma (sala Odeion)
Capitolo V
La
Pace impossibile (pp. 74-111)
Inizio
questo capitolo riferendo il commento di Cacciari al Trittico
del carro di fieno di Hieronymus Bosch, olio su tavola, 1516
circa, Madrid, Museo del Prado.
La
parte iconografia del libro riproduce il pannello centrale nella
Tavola 1.
Alla
fine del Quattrocento si spezza “quella tensione, sempre
drammaticamente vitale nell’Umanesimo, tra presagi apocalittici e
idee di concordia, armonia, pace”. Prevalgono le immagini del
Giudizio e dell’inferno, con accenti radicalmente pessimistici, in
particolare nella pittura nordica e fiamminga. “La nostra natura
qui non solo si rivela ontologicamente vulnerata, ma
addirittura deforme. “Die Zeit kommt…”
scrive nella Nave dei folli Sebastian Brant.
“Arriva il momento. Temo che l’Anticristo sia vicino”. Di
questa nave, il cui albero è insieme quello del peccato e quello
della cuccagna (o carro, carro carnevalesco di un sinistro
carnevale), le raffigurazioni più cupe e potenti sono forse quelle
di Bosch.
Il
carro del fieno, trascinato da mostri e seguìto, come da vassalli,
da papi e imperatori, cui dà l’assalto un’umanità che ha
smarrito ogni misura, ogni civilitas, in preda al
puro eccesso, sembra inesorabilmente destinato
all’inferno, dipinto sul pannello di destra del trittico del Prado.
Tuttavia, sulla cima dell’immenso covone è ancora in corso
una lotta. Un demone-farfalla musicante
contende a un angelo le anime di quelle figure intente ai piaceri
della musica, illudendosi quasi di vivere in un hortus
conclusus. L’angelo invoca l’aiuto del Cristo; è riposta in
Lui l’ultima speranza; mai egli potrebbe acquistare la potenza
seduttiva che esercita il dèmone sulla nostra libertà. Il Cristo,
lontanissimo, dall’alto del cielo, apre le braccia in gesto di
misericordia, che sembra rispondere alla preghiera dell’angelo e
raccogliere in sé, in qualche modo, l’intera scena della nostra
miseria e follia”.
E
ora leggiamo le prime pagine (74-76) del quinto e ultimo
capitolo:
La
Pace impossibile
Pico
della Mirandola nell’Oratio (1486)
mostra “il tentativo , di grande mole davvero[1],
di combinare l’immagine neoplatonica dell’uomo, depurata da ogni
verbosa laudatio,
con quelle stesse problematiche che nell’Alberti si
erano tragice delineate”
(p. 74).
“Mirabile
l’uomo. Magnum
miraculum”.
Ma “questo miracolo è veramente tremendo.”
E
nessuna cosa è più tremenda dell’uomo (koujde;n
ajnqrwvpou deinovteron pevlei, come canta il primo stasimo
dell’Antigone, 332-333).
“Nel
mezzo, in un leonardesco vortice più che al centro della natura, è
stato posto un essente nullis
angustiis cohercitus,
la cui felicitas la
suprema liberalitas divina
ha fatto consistere nell’id
esse quod velit.
L’uomo, unico essente creato al fine di ricrearsi”.
Questo
fine comporta il rovesciamento del “diventa quello che sei” in
“divieni ciò che vuoi, che scegli di essere” (p. 75)
Diventa
quello che sei è la somma del pensiero educativo di Pindaro:
“gevnoio oi|o~ ejssiv"
( Pitica II v. 72).
Ma
la libertà è un dono tremendo: “ciò che vogliamo è vario,
multiforme e cangiante. Due facce dell’universale vicissitudo.
L’uomo è, sì, capax
Dei,
come lo considera il platonismo, capace di ‘indiarsi’
(…) e tuttavia nella sua essenza altri semi, altri germi di vita
rimangono incustoditi e possono in ogni istante ridurlo a strisciare
a terra come un bruto[2] (…)
L’esserci umano è un puramente possibile;
libertà in lui non significa che pura apertura all’essere
possibile. Non ha certa
sede come
gli altri enti, è aoikos,
diremmo, come L’Eros platonico”.
Aggiungo
di nuovo l’uomo tremendo del coro di Sofocle ricordato sopra:
“Possedendo il
ritrovato della tecnologia,/ che è un qualche sapere, oltre
l'aspettativa/ora si volge al male, ora al bene/ e le leggi della
terra unendo/e degli dei la giurata giustizia/è grande nella città;
bandito dalla città è quello con il quale /coesiste la negazione
del bello morale, per la sfrontatezza./Non mi stia accanto sul
focolare/né sia uno che ha lo stesso pensiero/chi compie queste
azioni ( Antigone,
vv. 365-375)
“L’uomo
dunque “non possiede un volto proprio né una figura definitiva (…)
camaleonte l’uomo simboleggiato da Proteo nei misteri, in perenne
metamorfosi” (p. 76)
Nell’Odissea, Menelao
ricorda questo vecchio marino verace "gevrwn
aJvlio" nhmerthv""(IV,
v. 349). Nel poema omerico Proteo sembra una figura assolutamente
rivelatrice, del resto difficile da essere afferrata e consultata.
L'Atride minore dunque era pericolosamente bloccato dalla bonaccia
nell'isola di Faro, davanti all'Egitto, quando suscitò la pietà
della figlia del vecchio Proteo, Eidotea, la quale gli insegnò come
bloccare l'uomo che "conosce gli abissi del mare tutto"
(vv. 385-386) e costringerlo a parlare.
“Che
è come dire: simulatore e dissimulatore”.
Torna
in mente Catilina cuius rei lubet simulator ac
dissimulator (Sallustio, Bellum Catilinae, 5)
del quale in un capitolo precedente abbiamo ricordato anche la
versatilità camaleontica, messa in rilievo questa da Plutarco,
Cornelio Nepote, Cicerone e Montaigne. Ripeto qui sotto tali giudizi
per quanti arrivano solo ora a leggermi
Plutarco aveva
scritto di Alcibiade che per accalappiare le persone egli era
capace di imporsi trasformazioni più rapide e radicali del
camaleonte ("ojxutevra"...tropa;" tou'
camailevonto""),
il quale infatti non è creatura altrettanto versatile, in quanto non
è in grado di assumere il colore bianco, mentre per quest'uomo, che
passava con uguale disinvoltura attraverso il bene e il male, non
c'era niente di inimitabile né di non provato:" jAlkibiavdh/
de; dia; crhstw'n ijovnti kai; ponhrw'n oJmoivw" oujde;n h\n
ajmivmhton oujd j ajnepithvdeuton"
: a Sparta viveva da sportivo (gumnastikov"),
si comportava da persona semplice e sobria (eujtelhv"),
perfino austera (skuqrwpov");
in Ionia invece appariva raffinato (clidanov"), gaudente
(ejpiterphv"),
indolente (rJav/qumo"); in
Tracia si ubriacava (mequstikov")
e andava a cavallo ( iJppastikov");
e quando frequentava il satrapo Tissaferne superava nel fasto e
nel lusso la magnificenza persiana ("uJperevballen o[gkw/
kai; poluteleiva/ th;n Persikh;n megaloprevpeian"[3]).
Insomma assumeva di volta in volta le forme e gli atteggiamenti più
consoni a quelli cui voleva piacere, o, per dirla con Cornelio
Nepote[4],
era "temporibus
callidissime serviens "[5] abilissimo
nell'adattarsi alle circostanze.
Anche Montaigne mette
in rilievo questo aspetto di Alcibiade:"Ho spesso notato con
grande ammirazione la straordinaria facoltà di Alcibiade di
adattarsi tanto facilmente a usanze così diverse, senza danno per la
sua salute: oltrepassando ora la sontuosità e la pompa persiana, ora
l'austerità e la frugalità spartana; così moderato a Sparta come
dedito al piacere nella Ionia"[6].
Cicerone nell'orazione Pro
Caelio[7] attribuisce
a Catilina dati del carattere simile a questi e
ad altri di Alcibiade . La sua indole multiforme sapeva
adeguarsi alle circostanze : "Illa
vero iudices, in illo homine admirabilia fuerunt, comprehendere
multos amicitia, tueri obsequio, cum omnibus communicare quod
habebat, servire temporibus suorum omnium pecunia, gratia, labore
corporis, scelere etiam, si opus esset, et audacia, versare[8] suam
naturam et regere ad tempus atque huc et illuc torquere et flectere,
cum tristibus severe, cum remissis iucunde, cum senibus graviter, cum
iuventute comiter, cum facinerosis audaciter, cum libidinosis
luxuriose, vivere "
(Pro
Caelio,
6,13), quei famosi aspetti invero, giudici, fecero stupire in
quell'uomo: afferrare molti con l'amicizia e conservarli con la
compiacenza, mettere in comune con tutti ciò che aveva, venire
incontro alle circostanze critiche di tutti i suoi amici con il
denaro, la sua influenza, la fatica corporale, e se ce n'era bisogno
anche con il delitto e l'ardimento, modificare la sua indole e
indirizzarla secondo le circostanze, volgerla e piegarla di qua e di
là, vivere con gli austeri severamente, con i gioviali allegramente,
con i vecchi seriamente, con i giovani benevolmente, con i criminali
temerariamente, con i libidinosi dissolutamente. Alcibiade, Catilina
e Cesare sono seduttori tipici. Hanno un antecedente in Odisseo, con
l’aggiunta della bellezza.
“Su
tonalità diverse, come non avvertire in lontananza l’acre musica,
se non addirittura del Momus,
di tante Intercenales?
Come un
compito ci appare l’uomo, “se non addirittura un perenne
esperiment. Altro che fondata copula del mondo!
Anche l’anima di Pico è sempre “in tirocinio, in prova” come
quella dell’Alberti, come lo sarà, senza più il pensiero che
questo essere in prova possa aver fine, quella di Montaigne. Amicizie
stellari tutte, dove le dissonanze partecipano necessariamente di una
stessa armonia” (p. 76)
A
queste amicizie stellari aggiungo Marziale, almeno per quanto
riguarda il tirocinio: “semper homo bonus tiro est" (12,
51, 2), l'uomo onesto fa tirocinio per tutta la vita.
CONTINUA
[2] Uomini
e donne “veluti pecora
quae natura prona atque ventri oboedentia finxit "
che la natura foggiò chini a terra e al servizio del ventre
(Sallustio,
De coniuratione Catilinae ,
1). n.dr.
[4] 99
ca-24 ca a. C.
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