Giorgione, Tre filosofi |
Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo (Einaudi, Torino, 2019)
Presenterò l'intero volume l'11 aprile alla Sapienza di Roma (sala Odeion)
Philosophica Philologia (pp. 29-51)
Torniamo a Valla in Cacciari: “E
paradigma di tale eloquenza è quella latina. Ottima messe, ma per produrre nuove
sementa, dirà Valla prefacendo le Elegantiae.
L’oratio esalta, non offusca e
tantomeno sostituisce, la ratio. La
retorica, quando latina, insegna a
rendere compiutamente efficace la ragione, anche certo, per renderla utile alla
vita, perché produca optimas leges”.
Associo a questa idea Cicerone. Agli
studi separati dalla vita allude Cicerone nell'orazione Pro Archia [1]
e proclama la necessario diversità del poeta da tale genìa che ha tutte le
ragioni per vergognarsi: "Ceteros pudeat, si qui ita se litteris
abdiderunt, ut nihil possint ex iis neque ad communem adferre fructum neque in
aspectum lucemque proferre" (6, 12), gli altri si vergognino se si
sono seppelliti negli studi letterari in modo che da questi non possono recare
niente all'utilità comune, né presentare alcunché alla vista e alla luce.
Quindi Tolstoj: "La cultura,
secondo noi, rappresenta l'insieme di tutti gli elementi che contribuiscono
alla crescita dell'individuo, che gli forniscono una più ampia concezione del
mondo, che gli danno nuove conoscenze. Tutto produce cultura: i giochi
infantili, le sofferenze, le punizioni dei genitori, i libri, il lavoro, lo
studio libero e lo studio imposto, l'arte, la scienza, la vita[2]".
Di certo gli studenti proveranno
simpatia per le parole dei grandi autori contro i cattivi maestri. Possiamo
aggiungere queste parole di Mefistofele a Faust:
" Che è questo luogo di martirio? E che vita è questa che consiste
nell'annoiare sé e i giovani?"[3].
La cultura insomma va intesa come
potenziamento della natura
“L’idea di paideia non è riducibile al saper pensare e scrivere. E il parlare? E l’inventio
di immagini efficaci? Si può pensare bene senza immaginare, senza quella
‘gagliardia’ sell’immaginazione, che innalza e gonfia le parole” ritenuta da
Montaigne (Saggi, III, 5), ancora
sulla scia dell’0ratore quintilianeo, virtù fondamentale del discorso? Si può
forse astrattamente separare il coerente ragionamento dall’efficacia con cui
esso si esprime? (p. 34)
Allora torniamo a Quintiliano il
quale vuole escludere l'ombra, la solitudine e la muffa dall'educazione del
ragazzo che deve diventare un buon oratore: "Ante omnia futurus orator,
cui in maxima celebritate et in media rei publicae luce vivendum est, adsuescat
iam a tenero non reformidare homines neque illa solitaria et velut umbratica
vita pallescere. Excitanda mens est et adtollenda semper est, quae in eiusmodi
secretis aut languescit et quendam velut in opaco situm ducit, aut contra
tumescit inani persuasione; necesse est enim nimium tribuat sibi, qui se nemini
comparat "[4],
prima di tutto il futuro oratore che deve vivere frequentando moltissime
persone, e in mezzo alla luce della politica, si abitui fin da ragazzo a non
temere gli uomini e a non impallidire in quella vita solitaria e come
umbratile. Va tenuta sveglia e sempre innalzata la mente che in solitudini di
tal fatta o si infiacchisce, e nella tenebra prende un certo puzzo di muffa, o
al contrario si gonfia di vuoti convincimenti: è infatti inevitabile che
attribuisca troppo a se stesso chi non si confronta con nessuno.
Valla considera il latino un cibo
dell’anima di cui non potremo mai saziarci “Il latino educa, questa la sua funzione: trarci fuori dal parlare
disordinato, incoerente, dalla decadenza in cui è caduto il linguaggio che è il
segno più drammatico della decadenza della cultura tutta” (35)
Lo studio del latino “dovrà servire
ad armarci di un logos capace di significare
con precisione e di comunicare
universalmente” (p. 35).
Platone
scrive che parlare male fa male all’anima: Lo afferma Socrate nel Fedone: "euj ga;r i[sqi (…) a[riste
Krivtwn, to; mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to
plhmmelev", ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'" " (115 e), sappi bene…ottimo Critone che il non parlare bene non è solo un errore, una stonatura in sé, ma mette anche del
male nelle anime[5].
Leggo in un’intervista
rilasciata da Cacciari al quotidiano “la Repubblica” (1 marzo 2019, p. 31):
“Allora-spiega- anche nella lotta tra idee differenti, prevaleva il riconoscimento
reciproco. Si studiava il passato per elaborare il futuro. E si capiva che per
pensare bene si deve pensare bene”.
Allora è il tempo
dell’Umanesimo del Quattrocento che non coincide con l’Humanismus continua Cacciari “cioè con una posizione filosofica che
vuole definire in astratto l’essenza dell’uomo. Io credo invece che l’Umanesimo
sia stato un momento di crisi nell’accezione letterale del termine, pieno di
passione, anche di disperazione. Di grandi figure-Leon Battista Alberti, Pico
della Mirandola. Lorenzo Valla –che guardavano nello stesso tempo indietro e
avanti (…) un’età in cui la filologia, la riflessione sul passato, finisce per
alimentare la profezia, il futuro”.
Quindi l’intervistatrice
Claudia Morgoglione fa una domanda sull’“intreccio unico tra arte e filosofia”
Ecco la risposta di
Cacciari: “Quando ci si trova di fronte, stupefatti, alla facciata di Santa
Maria Novella di Leon Battista Alberti, davanti a tanta bellezza, a tanta
armonia, ci si chiede come è possibile che lui sia stato anche l’autore di
libri come Momus e Theogenius, in cui la riflessione
tormentosa ricorda il Leopardi delle Operette
morali.
Stesso discorso per un
capolavoro che anticipa l’Umanesimo: la Allegoria
del Buon governo di Ambrogio Lorenzetti (1338-1339), opera tutt’altro che
risolta, piena di umori contrastanti come ogni immagine piena di vita. Con una
serie di elementi inquietanti, come la Sicurezza che regge un uomo impiccato.
Anche questa non è semplice arte: è filosofia”
Quindi Cacciari individua
“il vero centro storico dell’Umanesimo” nella “Amicizia come concordia tra
opposti. Qualcosa di molto diverso dalla tolleranza in cui chi “tollera” si
pone in posizione di superiorità. Qui invece abbiamo la lotta, la polemica
anche asperrima, ma nel riconoscimento reciproco, nella scoperta delle
affinità”.
Poi l’autore di La mente inquieta Saggio sull’umanesimo
indica il pericolo attualle dell’omologazione e torna sul problema della lingua
nella cui assenza “oggi le passioni restano libere, inespresse e fanno danni.
Invece, alla disperazione bisogna dare una voce, una forma. E quindi la prima
cosa da fare è coltivare la lingua, perché la lingua è il nostro unico
strumento di elaborazione del pensiero. Bisogna tornare a parlare bene. E a
conoscere il latino: non perché era la lingua di Cicerone, ma perché un’idea
potente esiste solo all’interno di una lingua potente. Il legame tra linguaggio
e idee è indissolubile: un’altra grande lezione dell’Umanesimo. La prima cosa è
smettere di fare strame della lingua (e quindi delle idee), come accade adesso.
E poi dobbiamo recuperare la consapevolezza culturale che siamo fatti di
passioni, di affetti, fino alla follia. Lo sapevano gli uomini dell’Umanesimo,
ma anche quelli del Rinascimento: Leonardo, Michelangelo. E infine dobbiamo
riallacciare, attraverso la memoria, il passato al futuro. Altrimenti non
guariremo”
La domanda successiva
riguarda Machiavelli, se si debba tornare a lui
“Certo. Ed è molto
importante che siano usciti proprio ora due saggi cruciali su di lui: uno di
Michele Ciliberto, l’altro di Alòberto Asor Rosa” Cacciari li considea affini
alla sua riflessione sull’Umanesimo. “Ad esempio nell’idea di un disincanto che
per Machiavelli non è affatto ozio, ma che al contrario ci spinge ad agire di
più”.
Quindi una domanda sulla
storia che, nota l’intervistatrice, “viene ridimensionata sia a scuola che
all’università”
Cacciari risponde: “La
scuola dovrebbe essere il luogo della memoria: se la si perde anche il futuro
viene schiacciato dalla realtà onnipervasiva del presente, da una banale
attualità. Quella che adesso sembra prevalere nella didattica di tutte le
materie”.
Ultima domanda: “Come vive
in un’Italia che lascia annegare i nostri simili nel Mediterraneo?
Cacciari risponde evocando
Foscolo: “Mai come ora ci vorrebbe un nuovo Foscolo che scriva dei nuovi Sepolcri. Per non farci dimenticare che
noi i morti li seppelliamo, non li lasciamo in fondo al mare. E che li
seppelliamo per ricordarli, non per dire”finalmente ce ne siamo liberati”.
Cacciari preannuncia un suo
prossimo libro sulla costituzionalizzazione della crisi di disperazione,
ricordando il tentativo di Weber che fu
consulente dei redattori della Costituzione della Repubblica di Weimar.
Valla Pico e Poliziano concordano
sull’unità di verba e res.
“La parola, approfondita
nel suo etymon, sotto il profilo sia
linguistico che semantico, vale in quanto esprime la più ferma intenzione a designare ordinate le cose” (35).
Ordinato è antonimo di
cofuso e la confusione, il caos è sinonimo di infelicità e anche di truffa.
Cfr. I Cavalieri di Aristofane o pure le Anime
morte di Gogol.
La confusione danneggia,
l’ordine aiuta, a partire dalle parole.
“De re agitur. E tuttavia
nessuna cosa, mai, potrà essere conosciuta dall’uomo se non attraverso la
potenza del linguaggio, dono divino” (p. 35)
Isocrate è arrivato alla
celebrazione quasi religiosa della parola, senza la quale non ci sarebbe
umanità né civiltà: "ejggenomevnou dj hJmi'n
tou' peivqein ajllhvlou~ kai; dhlou'n pro;~ hJma'~ aujtou;~ peri;
w|n a]n boulhqw'men, ouj movnon tou' qhriwdw'~ zh'n ajphllavghmen, ajlla; kai;
sunelqovnte~ povlei~ w/jkivsamen kai; novmou~ ejqevmeqa kai; tevcna~ eu{romen,
kai; scedo;n a{panta ta; di j hJmw'n memhcanhmevna lovgo" hJmi'n ejstin oJ
sugkataskeuavsa" "( Nicocle[6],
6), ma siccome è connaturata in noi la capacità di persuaderci a vicenda e di
rendere chiaro a noi stessi quello che vogliamo, non solo ci siamo allontanati
dalla vita selvaggia, ma ci siamo riuniti, abbiamo fondato città, dato leggi e
inventato arti, e quasi tutto quanto è stato costruito da noi è stata la parola
a organizzarlo.
La sapientia , sostiene Seneca "res tradit, non verba"[7]
insegna ad agire, non solo a parlare. E in un'altra Epistula: "Sic
ista ediscamus ut quae fuerint verba sint opera" (108, 35), cerchiamo
di apprendere la filosofia in modo che quelle che furono parole diventino
azioni.
Infatti "Soltanto il pensiero
vissuto ha valore"[8].
“Abbiamo a che fare soltanto con
fatti, e cioè eventi, situazioni, drammi
che sono in quamto da noi espressi, interpretati, agiti. Si tratta della cosa
che il greco chiama pragma” (p. 35)
“Verso entrambi , logos e sophia, rivolgiamo il cammino”, metodicamente “proprio nel cammino, nell’aprirsi la strada, più
terso e vivo diviene il linguaggio, più critico
il modo in cui ne affrontiamo la storia e gli autori (modello di tale filologia
critica, e della sua straordinaria vis
polemica sarà il Discorso sulla falsa e
menzognera donazione di Costantino- autentico omaggio di Valla alla lotta
teologico-politica di Dante!), più forte il nesso tra ratio e oratio , più
feconda l’invenzione di motivi e immagini con cui esprimerlo” (p. 36)
Quindi Cacciari passa all’inventio: “Sul tema dell’inventio rimane fortissima anche
l’influenza della topica aristotelica: trovare il ‘luogo’ dell’argomento viene
prima di ogni argomentazione e di ogni conclusione logica”.
Aristotele ha scritto Ta;;
topikav [9]
che Cicerone ha rielaborato (molto) in forma epistolare all'amico Trebazio nel
breve trattato Topica ad Trebatium[10].
La topikhv è l'arte dei luoghi,
ossia di reperire gli argomenti[11].
Un'arte necessaria in quasi tutte le circostanze della vita.
Cicerone la definisce:" disciplinam
inveniendorum argumentorum…ab Aristotele inventam" (I, 2), il sistema
per trovare gli argomenti scoperto da Aristotele.
Questa disciplina è mediata da Cicerone: il giovane oratore nel De
inventione [12]
aveva definito i loci communes:
"argumenta quae transferri in multas causas possunt" (2, 48),
argomenti che si possono utilizzare per molte cause. Sono strumenti del parlare
e dello scrivere.
Sono luoghi comuni agli auctores
da contrapporre ai luoghi comuni dei dectractores dell'humanitas
.
Curtius chiama la topica "deposito delle
scorte"[13]
seguendo le indicazioni di Quintiliano[14]:"in greco si chiamano koinoi; tovpoi, in latino loci
communes (...)
originariamente mezzi ausiliari per l'elaborazione di discorsi; essi sono, come
dice Quintiliano (V 10, 20), "miniere di argomenti per l'elaborazione del
pensiero" ( argumentorum sedes )
e sono quindi utilizzabili per un fine pratico"[15].
Curtius allega un paio di esempi:"topos diffusissimo è
"l'accentuazione della propria incapacità di trattare degnamente un
tema"; nel panegirico, "la lode degli antenati e delle loro
gesta" è un topos".
L'autore di Letteratura europea e Medio evo latino aggiunge che
"Nell'Antichità si approntarono intere raccolte di simili topoi. L'insegnamento dei topoi, chiamato topica, venne trattato in scritti appositi"[16].
Insomma:"nell'insegnamento della retorica, anticamente la topica
costituiva il deposito delle scorte"[17].
“E inventio,
a sua volta, non può non collegarsi a
ingenium e immaginazione, , e perciò, appunto, a poesia, ai caratteri
‘geniali’ dell’arte. Filologia si configura così come amore per la parola che
vive, che inventa, metaforizza, presagisce, che si avverte e ascolta come voce
dello spirito. Divina natura del linguaggio, quando la si intenda, poiché in
sé, immediatamente, contrasta con il mero opinare, la doxa, la Meinung, come la
traduce Hegel nella Fenomenologia”
(p. 36).
Cacciari poi considera “un’opera
straordinariamente fortunata, fin dall’età carolingia, il De nuptiis Philologiae et Mercurii del retore cartaginese Marziano
Capella, di cui abbiamo le prime citazioni tra il 440 e il 480” (p. 37) E’ un
trattato didattico misto di prosa e di versi in metro vario indirizzato al
figlio. Quest’opera ebbe una grande importanza in tutto il Medio Evo. Venne
commentata da Giovanni Scoto
Il De nuptiis Philologiae et Mercurii ha
esercitato un’influenza determinante “sull’iconografia delle artes liberales, dai rilievi del
campanile di Giotto fino, in pieno Umanesimo, a quelli di Agostino di Duccio
nel tempio albertiano di Rimini. A noi qui interessa brevemente analizzarla
come possibile icona di quel nesso
tra filologia e filosofia che ci sembra centrale per intendere il pensiero
dell’Umanesimo” (p. 37).
Vediamo dunque
il De nuptiis Philologiae et Mercurii
Filologia ha nascita
terrena ma ha preso dalla madre Phronesis l’intento di salire alle stelle come
riuscì a Omero e Orfeo. Filologia simbolizza l’umano capax dei. Quindi ella deve rappresentare l’insieme delle arti
liberali. Filologia è amore per ogni forma del logos.
Scoto legge le nozze in
chiave neoplatonica e vede Mercurio come interprete della mente divina, colui
che conduce al Nous.
Invece la filosofia è una
“gravis insignisque femina”, dalla folta chioma, colei che intercede presso
Giove perché il dio conceda agli uomini eccellenti “ascensum in supera”. Filologia dovrà sposare l’interprete
che conduce a comprendere la Mente (nous).
Tale comprensione sarà opus e labor di Filosofia la quale condurrà
Filologia alla corte di Giove dove avverranno le nozze.
Per ascendere attraverso i
circoli dei pianeti fino al sole, platonicamente chiamato “prima propago”
dell’eccelsa potenza del padre inconoscibile, Filologia dovrà bere la bevanda
dell’immortalità che Atanasia custodisce, prima però deve vomitare “coactissima
egestione” tutto ciò di cui è piena,
ossia della erudizione umana, troppo umana. Poi quella nausea ac vomitio si trasforma
in un’abbondanza di lettere, volumi che le Arti e le Muse raccolgono. Il sapere
di Filologia diventa sapienza “passa, per così dire, da potenza ad atto
soltanto allorché Filologia inizia il cammino con Filosofia in supera, soltanto nel momento in cui
ella desidera ardentemente l’immortalità”. (p. 38)
Dunque Filologia corre da
Filosofia omni studio affectuque, e
Filosofia la affida a Mercurio perché le faccia da guida e da sposo.
Scoto commenta “Nemo intrat
in caelum nisi per philosophiam”.
Filologia subisce una
metamorfosi dalla facies terrestre
che vomita la disordinata congerie di tecniche a colei che riceve il dono delle
arti dalle Muse. Mercurio interpreta le arti con una esegesi orientata verso la
filosofia. Dal cumulo di saperi le arti si trasfigurano in Armonia. E Filologia
terrestre diventa celeste. Ermete è metaxuv tra Filologia e Filosofia “dialettizza l’ordine dei grammata con quello della philìa o eros per la sapienza del Bene, che costituisce la timé di Donna filosofia” (p. 39).
CONTINUA
[1] Del
62 a. C.
[4] Institutio
oratoria I, 2, 18.
[6] Del
368 a. C. Le stesse parole tornano nell’Antidosis
(254-255) del 354 a. C.
[9] Iniziati
nel tempo del primo soggiorno ad Atene (366-347) e conclusi ad Asso dove il
filosofo si recò dopo la morte di Platone (347 a. C.).
[10] Del
44 a. C.
[11] In
inglese topic significa appunto
“argomento”.
[12] Trattato
in due libri, dell'84 a. C.
[14] Maestro
di retorica, tenne la prima cattedra statale di eloquenza per volontà di
Vespasiano. Visse fra il 35 e il 97 ca d. C. L' Institutio oratoria in
dodici libri uscì nel 96 d. C.
[15]E. R. Curtius, Letteratura
europea e Medio Evo latino, p. 81. Più precisamente Quintiliano definisce i
loci in questo modo"loos
appello argumentorum sedes, in quibus latent, ex quibus sunt petenda "
(V, 10, 20), sedi di argomenti dove essi sono riposti e dai quali si devono
ricavare.
[16] Curtius,
Op. cit., p. 81
[17] Curtius,
Op. cit. p. 93.
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