Lettura commentata del Capitolo quarto di
La mente
inquieta
Saggio sull'Umanesimo di Massimo Cacciari
Umanesimo tragico (pp. 52-73)
“Architecti est scientia
pluribus disciplinis et variis eruditionibus formata”, così suona solennemente
l’inizio del De architectura
vetruviano; il Rinascimento vedrà in questo classico ‘risorto’ nel 1414 a Montecassino, la
rivendicazione del valore dell’architettura come autentico sapere (…) e
dell’architetto come colui che, accanto e oltre la sua abilità ed esperienza
tecnica, deve essere anche eruditus
in geometria e nelle lettere, in matematica e negli studi storici. Una
concezione del fare architettonico che nell’Umanesimo si impone già con
Brunelleschi e che troverà nell’Alberti la sua più alta espressione. Se però ci
chiedessimo quale disciplina sia la
fondamentale per l’architetto umanista, dovremmo indicare proprio la filologia, in quel senso che è emerso
dallo studio di Valla (p. 52).
Sentiamo Nietzsche: “Per
filologia qui, in un senso assai generale, si deve intendere l’arte di leggere
bene-di saper cogliere i fatti, senza
falsarli con l’interpretazione, senza
perdere, nell’ansia dì capire, la prudenza, la pazienza, la finezza.
Filologia come ephexis [1]nell’interpretazione:
che si tratti, poi, di libri, di notizie di giornale, di destini o di
avvenimenti meteorologici-per non parlare della “salute dell’anima”[2].
“Senza lo studio del testo
classico, senza la conoscenza diretta del monumento antico, mai potrà nascere
un’architettura cum auctoritate,
capace cioè non solo di funzionare e piacere, ma anche di generare nuove forme
e dare così vita a una nuova, classica,
tradizione”.
Auctoritas
infatti è imparentata etimologicamente con augeo
“accresco”.
“Leon Battista affronta il
campo specifico dell’architettura come Valla quello della filologia”. Bisogna considerare con cura le opere antiche
“misurarle, comparare le une alle
altre (…) poi occorre disegnarle, compierne esatti rilievi. Ciò implica
costanza, pazienza, lungo lavoro, avanzare lento
pede, esercizio filologico”.
Lo stesso che deve essere
fatto con le opere letterarie: leggerle, tradurle, compararne le parti tra
loro, insomma chiarire Omero con Omero e con i successivi, poi chiarire i
successivi tra loro e con Omero.
Buona norma è commentare i poeti con i poeti: il testo
di un autore innanzitutto con altri testi dello stesso autore, secondo il criterio
del filologo Aristarco
di Samotracia[3] per il quale bisogna spiegare Omero con
Omero : “ {Omhron ejx JJOmhvrou safhnivzein"[4];
poi vanno considerati i commenti degli autori ottimi agli autori precedenti.
Si possono utilizzare, per fare solo due esempi, Quintiliano[5]
e Leopardi[6]
come critici.
Più alta, ampia e chiara sarà
la visione della letteratura europea, più accresciuta ne sarà la nostra
educazione e la nostra mente.
Paradossalmente conoscere diversi autori e autori
diversi può essere funzionale all’originalità..
Quintiliano afferma che Demostene è “longe perfectissimus Graecorum”, di gran
lunga il più perfetto dei Greci. Tuttavia, aggiunge, in qualche cosa, in
qualche luogo si esprimono meglio altri, pur se in moltissime il più bravo è
lui (aliquid tamen aliquo in loco melius
alii (plurima ille). Quindi arriviamo
al punto: “Sed non qui maxime imitandus, et solus imitandus est”, non deve
essere imitato in esclusiva quello che più di tutti deve essere imitato. Così
tra il latini non basta Cicerone quale modello: “ Plurium bona ponamus ante oculos, ut aliud ex alio haereat, et quod
cuique loco conveniat aptemus”[7],
mettiamoci davanti agli occhi i gioielli di diversi modelli, perché ci rimanga
qualche cosa dall’uno e dall’altro, e noi possiamo applicare ciò che si confà a
ciascuna opera.
Leopardi dichiara di "aver contratta, a forza di
moltiplicare i modelli, le riflessioni ec. quella specie di maniera o di
facoltà, che si chiama originalità. (Originalità quella che si contrae? e che infatti non si
possiede mai se non s'è acquistata? Anche Mad. di Staël dice che bisogna
leggere più che si possa per divenire originale. Che cosa è dunque
l'originalità? facoltà acquisita, come tutte le altre, benché questo aggiunto
di acquisita ripugna dirittamente al significato e valore del suo nome.) "[8].
“E’ lo stesso hostinato
rigore con cui l’ars deve procedere, che ritroveremo in Leonardo (Motto). E la regola vale universalmente;
in ogni campo, nell’arte come per la ‘roba’ della Famiglia o per gli affari
dello Stato: il fare senza pazienza, ‘in furia’ è rovinoso; saper indugiare bisogna
(“indugio quanto posso”, Alberti, I libri
della famiglia; III), mai cedere alla ‘malattia’ di quel personaggio
rappresentato da Machiavelli nel primo capitolo dell’Asino , vv. 35-36 , “ch’in ogni luogo per la via correva/e d’ogni
tempo sanza alcun rispetto” (p. 53).
O come Lucilio criticato da
Orazio nella Satira I, 4
Di qui[9]
pende completamente Lucilio, che ha seguito costoro
cambiati soltanto i versi e i ritmi, arguto,
di naso fino, duro nel comporre i versi.
Infatti in questo fu difettoso: spesso in un'ora, come se
fosse
una gran cosa, dettava duecento versi (ducentos versus dictabat), stando su un piede solo-(stans pede in uno). 10
Poiché scorreva limaccioso (cum flueret lutulentus), c'era qualcosa che vorresti togliere:
ciarliero e pigro nel sopportare la fatica
dello scrivere bene: infatti, riguardo al molto, non mi
importa (vv.6-.13
“Alberti tratta
l’architettura classica esattamente come Machiavelli gli exempla antichi. La distinzione
è sempre salva; la consapevolezza della grande varietà delle cose, anche nel
campo delle arti, profonda, acuta, ma non vi è spazio per uno scetticismo di
stampo guicciardiniano (“è fallacissimo el giudicare per gli essempli, perché
se non sono simili in tutto e per tutto, non servono…”, Ricordi, 117) (p. 54)
Cito un altro dei Ricordi (110) non meno rivelatore di
tale scetticismo guicciardiniano : “Quanto si ingannano coloro che a ogni
parola allegano e Romani! Bisognerebbe avere una città condizionata come era la
loro, e poi governarsi secondo quello essemplo: el quale a chi ha le qualità
disproporzionate è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino
facessi il corso di uno cavallo”.
Cacciari poi nota che Guicciardini “in fondo, anche si
contraddice: “Insegna molto bene Cornelio Tacito a chi vive sotto a’ tiranni el
modo di vivere e governarsi prudentemente, così come insegna a’ tiranni e modi
di fondare la tirannide”[10].
Il criterio deve essere
comunque quello della discrezione: “E’ grande errore parlare delle cose del
mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola: perché
quasi tutte hanno distinzione e eccezione per la varietà delle circostanze, le
quali non si possono fermare con una medesima misura: e queste distinzione e
eccezione non si truovano scritte in su’ libri, ma bisogna le insegni la
discrezione”[11]
“L’esperienza è maestra (e Guicciardini “è forse il solo storico tra i
moderni, che abbia conosciuto molto gli uomini, e filosofato circa gli
avvenimenri attendendosi alla cognizione della natura umana”, Leopardi, Pensieri, LI), ma esperienza è anche
quella che i Romani ci trasmettono (…) essere all’altezza dei classici, nient’affatto lasciarsi ‘incantare’ da
essi, questo è il Sollen degli umanisti.
E nell’architettura questo ‘dovere’ è sentito con energia forse ancora maggiore
che nelle altre discipline. L’abitare infatti, caratterizza l’uomo quanto il
suo linguaggio. Dobbiamo apprendere a bene parlare come a bene abitare” (p.54)
I classici della letteratura
e della filosofia per lo più biasimano il lusso delle persone e delle
abitazioni.
Faccio un solo esempio: “Qui domum intraverit nos potius miretur quam
supellectilem nostrum (Seneca, Ep.
5, 6).
Alberti, “il massimo
architetto, il massimo ‘filologo’ dell’architettura per eccellenza, quella
romana” capì “la drammatica serietà dell’edificare, quanto improbus labor quest’arte comporti, come estrema sia la difficoltà
di far abitare, e imparare ad abitare (sta qui il rapporto tra il De re aedificatoria e le opere politico-civili dell’Alberti), di dare
casa e città a quel ‘miracolo’ grande e tremendo che è l’uomo”.
Torna in mente lo squillo
iniziale del I stasimo dell’Antigone
di Sofocle.
Trovo ora una affermazione il cui senso ho sempre avuto
presente, nel cervello e nel cuore, da quando mi sono applicato, da educatore,
allo studio dei classici. Ho cercato, e cerco tuttora, di educare me stesso e i
miei allievi di età varia.
La prova più ardua della filologia sta nel
“comprendere con la stessa cura con cui ascolta l’autentica voce dei classici
quel testo che è l’esserci umano nel
suo esprimersi, nei suoi ‘abiti’ effettuali” (…) Se non si ficca l’occhio nell’esserci dell’animale incurabilis, il nostro Umanesimo
diverrà consolante, sedentaria erudizione.
L’occhio albertiano si decide in questo senso con tanta
consapevolezza, da non potersi trovare l’uguale in tutto l’Umanesimo-tuttavia
il dramma che esso vede è largamente condiviso (…) filologia significa volersi esprimere, voler comunicare; comunicare
è possibile soltanto conoscendo l’interlocutore, “quis es, tu, homo? (Plauto, Amphitruo,
IV, 1); fedeltà al testo implica realismo antropologico. Le grandi opere che
studiamo non debbono portare ad alcuna adulazione dell’uomo, bensì costringerci
a comprenderne la drammatica complessità. Riflettendoci sul loro specchio, anzi
, è piuttosto la nostra ‘miseria’ ad apparire: nella grande poesia la inopia del nostro eloquio, nella grande
architettura quella del nostro edificare. Esse non devono servire a consolarci,
bensì piuttosto a sostenerci nel perseverare nella ricerca, per conferire una
forma che duri al nostro presente doverci esprimere e abitare” (p. 56)
Cacciari poi ricorda delle
parole di Socrate cui Platone nel Fedone
(97 d, 4-5) fa dire che l’ejpisthvmh dell’ottimo (to; bevltiston) è correlata a
quella di ciò che è inferiore (to; ceivron).
“Dal pericolo di un simile descensus nascono le architetture
albertiane; tanto più esse stanno,
quanto più sfidano l’inesorarabile opera del tempo “da cui son vinte anche le
pietre (Lucrezio, De rerum natura, V,
306: denique non lapides quoque vinci
cernis ab aevo”) quanto più ad infera
affondano le loro fondamenta.
Voglio commentare queste
parole di Cacciari: “ Le tonalità che assume la ‘stagione dell’inferno’
albertiana toccano corde varissime, spesso risonanti insieme nel medesimo
brano, dal riso (tav. 6) più mordace del Momus,
che farà ritorno nei ‘calci’ e negli ‘scherzi’ dell’Asino machiavellico, al
sarcasmo più amaro, dalla parodia alla malinconia più luttuosa ( p. 57)
Prendo spunto dall’Asino
machiavellico per ricordare un’Operetta morale tra le meno conosciute.
L’Asino di Machiavelli è
menzionato, con quelli di Apuleio e di Firenzuola, da Leopardi nella Proposta di premi
fatta dall’accademia dei sillografi
la quale ha deciso di chiamare il nostro tempo “età delle macchine, non
solo perché gli uomini di oggi vivono forse più meccanicamente di tutti i
passati, ma eziandio per rispetto al grandissimo numero delle macchine
inventate di fresco” al punto “che oramai non gli uomini ma le macchine, si può
dire, trattano le cose umane e fanno le opere della vita”.
Tre premi veranno dati a chi
avrà trovato le macchine che sottentrino agli uomini in determinate funzioni
oramai cadute in disuso.
“L’intento della prima sarà di fare le parti e
la persona di un amico, il quale non biasimi e non motteggi l’amico assente” e
non lo umili, prevarichi, danneggi in nessuno dei vari modi possibili.
“L’inventore di questa
macchina riporterà in premio una medaglia d’oro di quattrocento zecchini di
peso, la quale da una banda rappresenterà le immagini di Pilade e di Oreste,
dall’altra il nome del premiato col titolo: PRIMO VERIFICATORE DELLE FAVOLE
ANTICHE.
La seconda macchina vuol essere un uomo
artificiale a vapore, atto ordinato a fare opere virtuose e magnanime (…) Il
premio sarà una medaglia d’oro di quattro cento zecchini di peso, stampatavi in
sul ritto qualche immaginazione significativa dell’età d’oro, e in sul
rovescio il nome dell’inventore della
macchina con questo titolo ricavato dalla quarta egloga di Virgilio, QUO FERREA
PRIMUM DESINET AC TOTO SURGET GENS AUREA MUNDO.
La terza macchina debbe essere disposta a fare gli uffici di
una donna conforme a quella immaginata, parte dal conte Baldassar Castiglione,
il quale descrisse il suo concetto nel libro del Cortegiano, parte da altri”. Leopardi
ricorda poi il mito di Pigmalione che “in tempi antichissimi ed alieni dalle
scienze si poté fabbricare la sposa colle proprie mani, la quale si tiene che
fosse la miglior donna che sia state insino al presente”.
All’autore di questa
macchina, la donna perfetta, “Assegnasi una medaglia d’oro in pesso di
cinquecento zecchini, in sulla quale sarà figurata da una faccia l’araba fenice
del Metastasio posata sopra una pianta di specie europea, dall’altra parte sarà
scritto il nome del premio col titolo: INVENTORE DELLE DONNE FEDELI E DELLA
FELICITà CONIUGALE”
E veniamo ai fondi dai quali
Sillografi trarranno gli zecchini per i premiati- “L’Accademia ha decretato che
alle spese che occorreranno per questi premi suppliscasi con quanto fu
ritrovato nella sacchetta di Diogene[12],
stato segretario di essa Accademia, o con uno dei tre asini d’oro che furono di
tre Accademici sillografi, cioè a dire di Apuleio, del Firenzuola e del Machiavelli,
tutte le quali robe pervennero ai Sillografi per testamento dei suddetti, come
si legge nelle Storie dell’Accademia.”
Mi sono dilungato su questa
operetta siccome ha previsto il nostro vivere di oggi sempre più “più meccanicamente”. La macchina “inventata
di fresco” a me particolarmente odiosa è quello dei telefonini i quali, usati
come li usano i più, contribuiscono ad annientare i rapporti umani,
l’educazione la cultura e, quindi, lo stesso Umanesimo di cui si tratta in La mente quieta di Cacciari. I cellulari
sono tra i latori del nichilismo che prima trasvaluta, poi annienta tutt i valori, infine annienta la
vita.
Con questo cerco per lo meno
di ricordare i valori che potenziano, abbelliscono e lietificano la vita:
l’amore, l’amicizia, la cultura, la solidarietà, l’aiuto reciproco,
l’attenzione per gli uomini e per la natura.
Io, non essendo capace né
desideroso di una vita egoista, ci metto anche il comunismo in senso
etimologico: vivere con gli altri, per gli altri, fatto che ritorna accresciuto
sul proprio benessere e sulla propria felicità.
Concludo con un’altra
citazione tratta da Leopardi: “così a scuotere la mia povera patria, e secolo,
io mi troverò avere impiegato le armi dell’affetto e dell’entusiasmo e
dell’eloquenza e dell’immaginazione nella lirica; le armi della ragione, della
logica, della filosofia, ne’ Trattati filosofici ch’io dispongo; e le armi del
ridicolo ne’ dialoghi e novelle Lucianee che sto preparando” (27. luglio
1821)
Zibaldone,
1394
Leopardi con la lettera a Giordani del 4
settembre 1820 annunciava l’inizio di composizione delle sue Operette morali: «Consoliamoci della
indegnità della fortuna. In questi giorni, quasi per vendicarmi del mondo, e
quasi anche della virtù, ho immaginato e abbozzato certe prosette satiriche…»
Il riso liberatore. Cacciari,
La mente inquieta Saggio sull’umanesimo, tavola 6
La tavola 6 riproduce un affresco di Bramante del 1487. Ora si trova a Milano, nella pinacoteca di Brera. Mostra Eraclito e
Democrito, il primo triste, chiomato aggrottato, l’altro mezzo calvo e ridente,
o irrisorio.
Cacciari lo commenta facendo riferimento al” riso
liberatore” del Momus di Alberti. In
questa satira “il filosofo- che ride per eccellenza Democrito, è, a sua volta
oggetto di riso, pur distinguendosi con nettezza dagli altri personaggi dell’in philosophos! albertiano, piú o meno
tutti caratterizzati dalla massima delle follie: volere che l’universo sia
fatto a misura della propria stultitia. Democrito appare interamente
dedito a ricerche naturalistiche, all’apparenza insensate (come vivisezionare
un granchio[13]),
ma che pure testimoniano della sua consapevolezza dei limiti dell’intelletto
umano. Insano, tuttavia, anche lui, poiché dimentica o non intende prendersi
cura della realtà che lo circonda, e dunque manca di quella virtus che il filosofo, architetto e pittore, deve, per
Alberti, possedere.
Cacciari menziona come “fonte seria, morale del
motivo”, il De
tranquillitate animi di Seneca il quale scrive:
“ In hoc itaque flectendi sumus,
ut omnia vulgi vitia non invisa nobis sed ridicula videantur et Democritum potius imitemur quam
Heraclitum. Hic enim, quotiens in publicum processerat,
flebat, ille ridebat, huic omnia quae agimus miseriae,
illi
ineptiae –sciocchezze- videbantur. Elevanda-alleggerire-
ergo omnia et facili animo ferenda: humanius est deridere vitam quam deplorare.
Adice quod de humano quoque genere melius meretur
qui ridet illud quam qui luget: ille et spei bonae aliquid
relinquit, hic autem stulte deflet quae corrigi posse
desperat;
et universa contemplanti maioris animi est qui risum
non
tenet-trattiene- quam qui lacrimas, quando lenissimum
adfectum
animi movet et nihil magnum, nihil severum, ne miserum
quidem ex tanto paratu putat” (15).
La fonte satirica invece si può trovare “nel
bellissimo dialogo di Luciano di Samosata , Vite
all’incanto, dove Giove e Mercurio cercano compratori per le anime di
illustri filosofi”. Il compratore trova che le vite di Democrito ed Eraclito
siano in grande contrasto: “al primo par tutto ridicolo, perfino gli stessi
dèi, all’altro ogni cosa triste e deplorabile!”
Cacciari commenta così: “ Ma è vero contrasto? Alberti
lascia capire che si tratta di atteggiamenti diversi di fronte alla stessa
visione delle cose. La stessa visione amara, disincantata della realtà può far
ridere o piangere il filosofo”
Questo vale anche per il drammaturgo. Sentiamo Pirandello
nel saggio su L’umorismo (1908)
Parte I,
VI Umoristi italiani
Su Machiavelli:
“ Ed io pensavo alla grandezza nuda di questo Sommo nostro che non andò mai a
vestirsi nel guardaroba della retorica, che come pochi comprese la forza delle
cose, a cui la logica venne sempre dai fatti, che contro ogni sintesi confusa
reagì con l’analisi più arguta e sottile, che ogni macchina ideale smontò con
gli strumenti dell’esperienza e del discorso, che ogni esagerazione di forma distrusse col riso”
O pure Giordano Bruno che nel
frontespizio del Candelajo si firma academico di nulla academia “e che per
motto ebbe, come tutti sanno, in tristitia
hilaris, in hilaritate tristis, che pare il motto dello stesso umorismo”
Parte seconda-
Essenza, caratteri e materia dell’umorismo
II
Vediamo il don Chisciotte del
Cervantes: “noi vorremmo ridere di tutto quanto c’è di comico nella rappresentazione
di questo povero alienato (…) vorremmo ridere, ma il riso non viene alle labbra
schietto e facile; sentiamo che c’è qualcosa che ce lo turba e ce
l’ostacola; è un senso di commiserazione
turba il riso, di pena e anche di ammirazione, sì, perché se le eroiche
avventure di questo povero hidalgo sono ridicolissime, pure non v’ha dubbio che
egli nella sua ridicolaggine è veramente eroico”. Il riso diviene amaro. Una rappresentazione veramente umoristica
suscita perplessità. Gli scritti umoristici contengono molte digressioni
generati dalla riflessione. Ogni vero umorista non è soltanto poeta, è anche
critico.
III
“La riflessione scompone l’immagine creata da un primo
sentimento per far sorgere da questa scomposizione e presentarne un altro
contrario (…) Come ho mostrato nel Sant’Ambrogio di Giusti, la riflessione
inserendosi come un vischio nel primo sentimento del poeta, un sentimento di
odio verso quei soldatacci, genera a poco a poco il contrario del sentimento di prima”
Si pensi alle amare risate di Aristofane
L’uomo che
cerca di ribellarsi invano al suo destino è come la lumaca che gettata nel
fuoco sfrigola e pare ridere, invece muore. Così Atene muore nell’amara risata
di Aristofane.
Torno a Cacciari che commenta l’affresco: “da qui
l’inseparabilità delle due figure, come nell’affresco di Bramante (…) E’
democriteo, il riso albertiano? Gelasto, persona
dell’Alberti nel Momus, non sta forse
a dimostrarlo? Certo, il suo autore preferisce la maschera di Democrito a
quella di Eraclito-come Montaigne (Saggi,
I, 50)”. E come Seneca
Non conoscevo questa preferenza di Montaigne e ho
consultato i Saggi cercando il passo
di cui riferisco alcune parole per chi lo ignora: “Democrito ed Eraclito sono
stati due filosofi, dei quali il primo, stimando vana e ridicola la condizione
umana, si mostrava in pubblico solo con volto beffardo e ridente; Eraclito,
avendo pietà e compassione di questa stessa nostra condizione, ne aveva il
volto sempre rattristato e gli occhi pieni di lacrime
Alter
Ridebat quoties a limite moverat unum
Protuleratque
pedem. Flebat contrarius alter[14]
Io preferisco l’umore del primo, non perché sia più
piacevole ridere che piangere, ma perché è più sprezzante, e ci condanna più
dell’altro”.
Montaigne procede ricordando Diogene il quale
canzonando “il grande Alessandro, stimando gli uomini mosche o vesciche piene
di vento, era giudice ben più aspro e pungente, e quindi più giusto, secondo
me, di Timone, che fu soprannominato l’odiatore degli uomini”.
Di nuovo Cacciari: “Ma l’ironia, lo humor e anche il riso di Gelasto non
hanno nulla dell’indifferenza sovrana per le vicissitudini dei miseri mortali
che caratterizzano l’immagine di Democrito. Gelasto è imbarcato anche lui. Non c’è nessuna ostentazione della superiorità
dell’ ‘ironista’ sulla sua materia, come invece sarà palese nell’Elogio erasmiano. In questo Alberti è
assai più vicino alla malinconia e al pianto che pervadono le grandi opere dei
Bosch e dei Bruegel di fronte allo spettacolo della nostra stultifera navis”.
Concluso il commento alla tavola 6, torniamo alla p.
57 del testo.
“Camaleonte anche l’Alberti tragico (…) La maschera
più cupamente pessimistica trova forse la sua ‘stazione’ nel secondo libro del Theogenius.
E’ un’opera in volgare come i quattro libri Della famiglia (1437-1441). Insegna a
disprezzare i beni terreni soggetti alla fortuna e a trovare in quel disprezzo congiunto all’esercizio
della virtù, lo scudo contro tutti i colpi del destino e dell’umana malvagità.
L’uomo dunque fa parte, attivamente, della “cosmica vicissitudo”
“Fra tutti gli esseri siamo noi gli infermissimi (…) è l’agitazione invincibile del nostro stesso
animo, l’impotenza a stare che abita in noi, a risultarci fatale. E’ la nostra
stessa natura a colpirci, poiché essa ci ha fatto “animale irrequieto e
impazientissimo di suo stato e condizione”. Sempre mutiamo, senza mai mutare
noi stessi. E tale inquietudine si trasforma necessariamente nell’incapacità di
lasciare in pace (…) La sua violenza
non è errore o vizio emendabile, ma espresssione della sua natura “Vitia erunt donec homines” (Tacito, Historiae,
IV, 74)
Sono parole che fanno parte
del discorso di Ceriale davanti a
Trevĭri e ai Lingŏni. Si rivolge nel
69 ai popoli della Gallia belgica e celtica. C’è la tesi politica e spirituale
della dominazione romana.
I
Romani vogliono impedire l’avanzata di un nuovo Ariovisto. I Romani ai Galli
hanno imposto iure victoriae, per diritto di vittoria, solo ciò che è
necessario a mantenere la pace. Nam neque quies gentium sine armis, neque
arma sine stipendiis, neque stipendia sine tributis haberi queunt (Hist.
IV, 74). Se arriveranno Britanni o Germani, i tributi aumenteranno.
Cacciati
i Romani (quod di prohibeant) rimarrebbe solo una guerra universale. Octingentorum
annorum fortuna disciplinaque compages haec coaluit: quae con velli sine exitio
convellentium non potest” Octingentorum annorum fortuna disciplinaque compages haec coaluit:
quae con velli sine exitio convellentium non potest”, questa mole si è consolidata con la fortuna e la
disciplina di ottocento anni e non può essere abbattuta senza rovina di chi la
abbatte..
Sono
le parole di tutti gli imperialismi commenta Concetto Marchesi nel suo Tacito[15]
“Così possiamo diventare
lupi agli altri (il filologo sa che viene da Plauto l’homo homini lupus…)[16],
volere asservire e soggiogare ogni essente, fare quasi del nostro ventre
“pubblica sepoltura di tutte le cose”.
Dirà
l’amarissimo porco incontrato dall’Asino machiavellico (Asino d’oro, che
attraverso la sofferenza viene iniziato al duro sapere, non afflitto dalla
‘asinità’ bruniana): “Non basta quel che ’n terra si ricoglie, /ché voi entrate
a l’Oceano in seno/ per potervi saziar de le sue spoglie” (L’Asino,
VIII, vv. 100-102). La nostra natura è la vera matrigna, la sua
ontologica stultitia che mai ti rende di alcuna natura contento né
sazio”. Questa colpa è iscritta tragicamente nella costituzione del
nostro esserci, fino a farci apparire gli infelicissimi tra tutti i viventi”
(p. 58)
L’avidità senza fondo degli
uomini
Leopardi in Il pensiero dominante condanna l’ossessione dell’utile da parte
della sua età "superba,/ che di vote speranze si nutrica,/vaga di ciance,
e di virtù nemica;/stolta, che l'util chiede,/e inutile la vita/quindi più
sempre divenir non vede"(vv. 59-64).
Ancora più duramente si esprime nei confronti
delll’avidità del lucro il poeta di
Recanati nella Palinodia al Marchese Gino Capponi :" anzi coverte/fien di
stragi l'Europa e l'altra riva/dell'atlantico mar...sempre che spinga/contrarie
in campo le fraterne schiere/di pepe o di cannella o d'altro aroma/fatale
cagione, o di melate canne,/o cagion qual si sia ch'ad auro torni"(vv.
61-67).
Nel III libro del poema di
Lucrezio troviamo una prosopopea della natura la quale potrebbe chiedere al
querulo ingordo di vita perché si lamenti. Se la vita ti è stata gradita perché
non ti allontani come un commensale sazio (cur
non ut plenus vitae convīva recedis/aequo animoque capis securam, stulte,
quietem?, 938-939)
Se invece tutto ciò che hai
goduto è perito e la vita ti è in odio (vitaque
in offensa est) , perché vuoi indugiare?
Se un vecchio decrepito (grandior iam seniorque) lamenta più del
giusto (amplius aequo) il destino di
morte, la natura avrebbe ragione a gridare: “via le lacrime, ingordo (baratre) e frena le lagne- aufer abhinc lacrimas, baratre, et compisce
querellas,” (III, 955). Hai compiuto la vita e il tuo corpo marcisce.
Sereno arrenditi agli anni: è necessario (iam
annis concede: necessest, 962)
Cfr. Marco Aurelio che vuole congedarsi dalla vita con gratitudine come
un’oliva che una volta matura ( ejlaiva pevpeiroς genomevnh ) cade al suolo benedicendo la terra che l’ha
prodotta e ringraziando l’albero che l’ha generata (IV, 48).
Torno
a Cacciari (p. 58)“Il disincanto che svelle dalle radici, come in Machiavelli
(“Tanto v’inganna il proprio vostro amore,/ch’altro ben non credete che
sia/fuor de l’umana essenza e del valore”, (L’Asino, VIII, vv. 31-33),
ogni possibile finalismo antropocentrico, che abbatte ogni boria o pesunzione,
ha in se stesso, tuttavia, il contraccolpo.
Un’amicizia
stellare lega Alberti a Leopardi anche in questo: quando ti sembra di esser
giunto al fondo del pessimismo, proprio a quel punto devi scavare ancora; e
allora forse vedrai fiorire la
Ginestra”.
Da
una stessa linfa possono maturare contrapposte possibilità.
Cfr.
i dissoi;
lovgoi
e la logica aperta al contrasto dei Greci
L’assoluto
pessimismo è irrealistico come l’ottimismo ad ogni costo. Rimane per lo meno la Virtus di volgere ai
colpi della Fortuna “il viso di lacrime
asciutto” (L’Asino, III, vv. 85-87)”.
Cfr. invece le Troiane con la
consolazione delle lacrime e l’Elena di Euripide con la gioia
addirittura delle lacrime.
Il
Theogenius dell’Alberti insegna che le dissonanze si superano
conoscendole e sopportandole.
“L’agitazione
continua che sconvolge l’uomo “efferatissimo” agli altri e a se stesso è, a un
tempo, necessaria radice del cogitare (…) Elimina le maschere,
l’ipocrisia, il simulare e dissimulare con cui gli uomini reciprocamente si
ingannano ed eliminerai quelle
‘finzioni’ che sono le sue stesse opere più grandi, quasi in lotta con il tempo
che tutto divora”.
Il tempo è il cormorano che
divora nella prima scena di Love’s Labour’ s lost[17],
Ferdinando re di Navarra definisce il tempo “cormorant devouring Time” (I, 1).
“Quella
somma virtus , che si esprime
nell’investigare sempre, nel ricercare instancabilmente le cose” presuppone
l’incontentabilità del presente. Una virtus odissiaca e socratica: Platone fa dire al suo maestro: oJ de; ajnexevtastoς bivoς ouj biwto;ς ajnqrwvpw/ (Apologia 38a), la vita senza indagine non è vivibile per
l’uomo.
Dioniso conferma: una
volta uno rientrava
“Incurabilis
è l’uomo di questo dissidio (…) Homo naturalis è questo-ma se è questo,
ciò significa che nella vicissitudo
che lo costituisce sussiste realmente anche la possibilità del cogitare,
dell’operare, del produrre, non solo di denaturare
la natura, ma di conoscerla e rappresentarla, non solo di essere peste all’altro, ma anche civis solidale con l’altro, riconoscente lui, nella polifonia della res publica”. (p. 59).
Non vivere da schiavo questa vicissitudo, né rimanere in preda alle
tempeste della Fortuna, “invece stare desti, “mai partirsi dal Timone” (Alberti[18])
(…). Questa libertà è l’altra faccia del Necessario. Nessuno nell’umanesimo
riconosce più di Alberti e Machiavelli la potenza della Fortuna. Senza Fortuna
propizia neppure l’impero romano si sarebbe costituito e avrebbe potuto così a
lungo durare. Proprio quello Stato che si tempra nella più dura disciplina
innalza meravigliosi templi alla Fortuna”.
Per rispettare la disciplina
dei Romani Tito Manlio Torquato giunse a far decapitare il proprio figliolo che
l’aveva trasgredita
Questo console durante la guerra contro i
Latini (340-338 a.
C.) condannò a morte il figlio che aveva osato combattere contro il suo ordine,
di capo e di padre, dopo averlo accusato in questo modo:"tu, T. Manli, neque imperium consulare neque
maiestatem patriam veritus, adversus edictum nostrum extra ordinem in hostem
pugnasti, et,quantum in te fuit, disciplinam
militarem, qua stetit ad hanc diem Romana res solvisti
" (Tito Livio, VIII, 7) tu, Tito Manlio, senza riguardo per il comando dei
consoli e per l'autorità paterna, hai combattuto il nemico contro le nostre
disposizioni, fuori dallo schieramento, e, per quanto è dipeso da te, hai
dissolto la disciplina militare, sulla quale sino ad ora si è fondata la
potenza romana.
“Il vento che spinge le nostre vele, come nell’emblema di casa Rucellai,
non è potenza che appartenga loro. Un drammatico timbro tacitiano domina le
pagine sul nesso virtù –fortuna in Alberti e Machiavelli-del Tacito che sarà
carissimo a Vico.
“Impiger
mens quella dell’uomo, aveva detto Lucrezio (De rerum natura, V, v. 1452).
Sono parole che, in genitivo-impigrae mentis- fanno parte della
conclusione de canto: l’uso e l’esperienza dell’alacre mente ha insegnato
l’impiego di navi, coltivazione dei campi,
mura, leggi, armi, strade, poi i vantaggi e tutti i raffinati piaceri della vita
praemia, delicias quoque vitae funditus omnis (1450) e pure carmi,
pitture, statue rifinite con arte
La
ragione spingeva gli uomini in alto, finché con le arti raggiunsero la vetta
suprema artibus ad summum donec venere cacumen ( 1457).
Trascrivo
qui di seguito delle parole che Cacciari mette nella nota 11 di p. 60: “Da
quando nel 1418 Poggio Bracciolni inviò al Niccoli il manoscritto, ora perduto, del De rerum
natura, il confronto con
l’epicureismo lucreziano è diventato fattore imprescindibile del pensiero
umanistico e rinascimentale. E ciò vale per lo stesso neoplatonismo, che
con Ficino ‘tradusse’ la voluptas-libertas di Lucrezio in divina voluptas
(già con i giovanili Commentariola in Lucretium e nel De voluptate).
Anche nella definizione della ‘concordia’ tra platonismo e teologia cristiana
potevano essere fatti rientrare motivi lucreziani, come, ad esempio, quello
riguardante la non eternità o divinità del mondo (…) Il ruolo che giocherà
Lucrezio, fin nello ‘stile’, nel pensiero del Bruno sarà ancora più
determinante”.
A proposito della insaziabilità umana, Lucrezio dà questa
spiegazione: Gli uomini, credendo di sfuggire al terrore della morte, gonfiano
gli averi col sangue civile (sanguine
civili rem conflant III, 70), e raddoppiano avidi le ricchezze (divitiasque conduplicant avidi),
accumulando strage su strage, godono crudeli dei tristi lutti fraterni-crudeles gaudent in tristi funere fratris-
"et consanguineum mensas odere
timentque " (De rerum natura
, III, 73) e odiano e temono le mense dei consanguinei.
Torniamo
alla impiger mens di Lucrezio (V, 1452) di p. 60: “Mente che può risolversi in
mera incostanza, in una vana instabilità, preda della Fortuna e delle passioni,
così come, all’opposto, immaginare e costruire le supreme misure del
Sant’Andrea” dell’Alberti”
A Mantova, costruzione iniziata nel 1472
“Sempre
instancabile, sempre incapace di quiete. Plastes et fictor sia quando
inscena il carnevale tragico grottesco del Momus, sia quando dà forma e
organizza la propria esistenza, i propri nec-otia nel febbrile tumulto,
nella competizione che segna la vita cittadina, e che in ogni momento può
trasformarsi in guerra, in stasis”. (p. 61)
La
stavsi" è la guerra civile che secondo Tucidide trasvaluta ogni valore, perfino
quello delle parole. In un libro precedente Cacciari ha commentato il capitolo
di Tucidide a proposito di questa che è la più crudele delle guerre. La guerra
civile di corcira andò dal 427 al 425.
"Sinistro carnevale, mondo a rovescio, in cui è
necessario lottare con ogni mezzo per superarsi e in cui nessuna neutralità è
ammessa. Così appare, a Corcira, per la prima volta tra gli Elleni, la più
feroce di tutte le guerre (Tucidide, III, 82-84). Il commento di Nietzsche (che
riteneva autentico anche il cap. 84) rappresenta un illuminante rovesciamento
del testo greco: ciò che in esso suonava come il macabro scatenarsi della più bassa
filotimiva (III, 82, 8), diviene per
Nietzsche espressione del fatto che l'"uomo superiore" non può essere
trattenuto dal portare offesa, né dal logos né dal giuramento (o{rko"), che l'uomo superiore in tanto può dirsi tale, in
quanto nulla di superiore a sé riconosce. L' a[risto"
cui pensa Tucidide è, all'opposto, colui che rispetta il Nomos divino e rifugge
perciò dalla stavsi"[19].
Ma il realismo tucidideo non separa in
alcun modo, principialmente, stavsi" da povlemo" . Se consideriamo le due forme di guerra nel grande
complesso dell'opera, esse si presentano indissolubilmente intrecciate. Così
anche nella pagina appena citata: è povlemo" che
eliminando l' eujporiva (la facilità a procacciarsi ciò che occorre) del
tempo di pace, si fa violento maestro (bivaio" didavskalo") dell'animo dei molti, del plh'qo" , e getta la città in preda alla guerra civile (III,
82, 2-3). Pòlemos-e non si dà polis senza pòlemos, neppure nell'idea di Platone
- è qui maestro di stavsi"
. Davvero padre di tutto, allora, potremmo,
'ironicamente', aggiungere.
Ma pòlemos può generare stasis soltanto perché ha già
in sé quella u{bri" che giunge alla sua 'perfezione' in quest'ultima. Il
più freddo e sobrio discorso di guerra, il più calcolato, il più lontano da
ogni "tovlma…ajlovgisto" "[20],
irragionevole audacia, sta sempre in 'tremendo dialogo' con la violenza
devastante "finché la fuvsi" degli uomini
resterà quella che è" (III, 82, 2)"[21].
Torniamo a La mente inquieta: “Un camaleonte l’animale uomo, sia quando
inventa maschere per travestirsi e ingannare, che quando ‘ri-vela’ in forme
sempre nuove, dietro facciate come quella di Palazzo Rucellai, i propri
interessi, i propri affari e le proprie cure. Plasmare, fingere, bisogna sempre, se si vuole affrontare il mestiere che
Leon Battista, come poi Machiavelli e lo stesso Guicciardini, sanno per
personale esperienza essere il più faticoso di tutti: il vivere-e per
affrontarlo non basterà industria, consiglio, arte, saranno necessari mani, piedi e nervi”[22].
(p. 61)
Per quanto riguarda “un
camaleonte l’animale uomo”, possiamo pensare ad Alcibiade, a Catilina e allo
Sperelli di D’Annunzio che li imita
Plutarco scrive di Alcibiade che per accalappiare le
persone era capace di imporsi trasformazioni più rapide del camaleonte ("ojxutevra"...tropa;" tou' camailevonto""), il quale infatti non è
creatura altrettanto versatile in quanto non in grado di assumere il colore
bianco, mentre per quest'uomo, che passava con uguale disinvoltura attraverso
il bene e il male, non c'era niente di inimitabile né di non
provato:" jAlkibiavdh/ de; dia; crhstw'n
ijovnti kai; ponhrw'n oJmoivw" oujde;n h\n ajmivmhton oujd j
ajnepithvdeuton":
a Sparta viveva da sportivo (gumnastikov"), si comportava da persona semplice e sobria (eujtelhv"), perfino austera (skuqrwpov"); in Ionia invece appariva
raffinato (clidanov"),
gaudente (ejpiterphv"), indolente (rJav/qumo");
in Tracia si ubriacava (mequstikov") e andava a cavallo ( iJppastikov"); e quando frequentava il satrapo Tissaferne superava nel fasto e nel lusso la magnificenza persiana ("uJperevballen o[gkw/ kai;
poluteleiva th;n Persikh;n megaloprevpeian"[23]). Insomma assumeva di volta in
volta le forme e gli atteggiamenti più consoni a quelli cui voleva piacere, o
per dirla con Cornelio Nepote era "temporibus
callidissime serviens "[24] abilissimo nell'adattarsi alle
circostanze.
Anche
Montaigne mette in rilievo questo aspetto di Alcibiade:"Ho spesso notato
con grande ammirazione la straordinaria facoltà di Alcibiade di adattarsi tanto
facilmente a usanze così diverse, senza danno per la sua salute: oltrepassando
ora la sontuosità e la pompa persiana, ora l'austerità e la frugalità spartana;
così moderato a Sparta come dedito al piacere nella Ionia"[25].
Cicerone attribuisce a Catilina nell'orazione Pro Caelio[26]
aspetti del carattere simile a questo e ad altri di Alcibiade.
Questa
indole multiforme sapeva adeguarsi alle circostanze :" Illa vero, iudices, in illo homine
admirabilia fuerunt, comprehendere multos amicitia, tueri obsequio, cum omnibus
communicare quod habebat, servire temporibus suorum omnium pecunia, gratia,
labore corporis, scelere etiam, si opus esset, et audacia, versare suam
naturam et regere ad tempus atque huc et illuc torquere et flectere, cum
tristibus severe, cum remissis iucunde, cum senibus graviter, cum iuventute
comiter, cum facinerosis audaciter, cum libidinosis luxuriose, vivere "
(Pro Caelio, 6,13), quei famosi aspetti invero, giudici, fecero stupire
in quell'uomo: afferrare molti con l'amicizia e conservarli con la compiacenza,
mettere in comune con tutti ciò che aveva, venire incontro alle circostanze
critiche di tutti i suoi amici con il denaro, la sua influenza, la fatica
corporale, e se ce n'era bisogno anche con il delitto e l'ardimento, modificare
la sua indole e indirizzarla secondo le circostanze, volgerla e piegarla di
qua e di là, vivere con gli austeri severamente, con i gioviali allegramente,
con i vecchi seriamente, con i giovani benevolmente, con i criminali
temerariamente, con i libidinosi dissolutamente.
Il protagonista del romanzo Il
Piacere[27] può
trovare un antenato in Alcibiade, soprattutto in quello della
decadenza:"Il senso estetico aveva sostituito il senso morale. Ma codesto
senso estetico appunto, sottilissimo e potentissimo e sempre attivo, gli
manteneva nello spirito un certo equilibrio.... Gli uomini d'intelletto,
educati al culto della Bellezza, conservano sempre, anche nelle peggiori
depravazioni, una specie di ordine. La concezione della Bellezza è, dirò così,
l'asse del loro essere interiore, intorno al quale
tutte le passioni gravitano"[28]. L'esteta dannunziano pensa di
sè:"Io sono camaleontico ,
chimerico, incoerente, inconsistente. Qualunque mio sforzo verso l'unità
riuscirà sempre vano. Bisogna omai ch'io mi rassegni. La mia legge è in una
parola: NUNC . Sia fatta la volontà
della legge"[29].
Alcibiade quindi anticipa Catilina, Sperelli, e anche l'esteta-seduttore di Kierkegaard , il
seduttore sensuale ed estensivo, don
Giovanni, "l'incarnazione della carne ovvero la spiritualizzazione
della carne da parte dello spirito proprio della carne"[30] che vive di preda e ama "il
casuale, l'accidentale", poiché "il sensuale è il momentaneo. Il
sensuale cerca la soddisfazione istantanea, e quanto più è raffinato, tanto più
sa trasformare l'istante del godimento in una piccola eternità"[31].
Torno a Cacciari: “Tutte le
‘ragioni del corpo’ dovranno allearsi a quelle della diligenza, della
sollecitudine, della cura per navigare il fiume della Vita, sfidarne tempeste e
naufragi (Fatum et fortuna)[32]”
(…)
La pazienza che occorre nel
navigare il fiume Bios è altrettanto impiger
dell’impazienza di quelli che si affannano a sopravvivere trascinati dalla
corrente. Virtus sarà costruire bonae artes come naviculae, cui aggrapparsi,
per giungere alla sponda ultima, ‘contenti’ soltanto di avere così bene vissuto” p. 62.
Molto
frequenti sono le metafore nautiche nei classici greci e latini. Ne ricordo una
relativa alla città di Tebe desolata dal mivasma che si
rivela essere Edipo, il suo re ::"la città infatti, come anche tu stesso
vedi,troppo/già ondeggia (saleuvei) e di sollevare il
capo /dai gorghi del fluttuare insanguinato non è più capace" (Edipo re, vv.22-24).
I
limiti della nostra libertà “non sono semplicemente quelli dell’universale
Fato, bensì quelli che derivano dal
nostro intimo essere contraddizione:
creatori e perturbatori, artefici e contraffattori, lupi gli uni agli altri e
insieme ‘animali politici’, pronti perfino a “soffrire le fatiche della patria”
(Alberti[33])”.
Al nostro “essere
contraddizione” si può aggiungere essere segni di contraddizione come Cristo[34]
“Complexio oppositorum, da cui si origina il meglio e il
pessimo del thauma che è l’uomo (…) Thauma, insomma, che occorre guardare e
dipingere secondo la “dolce prospettiva”[35].
(p. 62)
Marzol 27
“Come
messer Filippo ha insegnato. Ma all’interno di tale spazio palpita in tutta la
sua concretezza il dramma di quella summa
di opposti che è l’uomo -e tale dramma
occorre anche saper rendere secondo i suoi colori, le sue ombre., in tutta la
gravità delle sue masse, dei suoi pesi. Questo vedrai, fermissima
immagine, alla cappella Brancacci[36],
o scolpito per sempre da Donatello sul volto dei suoi profeti” (p. 62).
Cacciari
rimanda alle tavole 7-8 poste nell’ultima parte del suo libro
La
tavola 7 riproduce un affresco di Masaccio: Distribuzione
dei beni ai fedeli e morte di Anania . affresco, 1425-1428 circa,
particolare. Firenze, Santa Maria del carmine, cappella Brancacci.
Il
commento nota che l’atto di carità vi appare come un grande dovere, scevro da
ogni sentimentalismo, compiuto da figure che sono “spazio concentrato” (Argan),
grande architettura capace di sopportare immensi carichi, espressione di
un’antica virtus, che qui rivive,
nella città reale fatta dai suoi cittadini, quelli che Masaccio aveva
ritratto volto per volto , “in infinito numero” (Vasari), sopra la porta che
andava in convento (anche questo dipinto è andato distrutto) in occasione della
loro partecipazione alla festa per la consacrazione del Carmine”.
Vasari:
E’ un miracolo che Fiorenza”abbia prodotto in una medesima età Filippo, Donato,
Lorenzo, Paolo Uccello e Masaccio eccellentissimo ciascuno nel genere suo”.
Tommaso
era detto Masaccio “non perché e’ fusse
vizioso, essendo egli la bontà naturale, ma per la tanta trascurrataggine”
Vasari il quale ne nette in risalto la naturalezza: “perché invero le cose
fatte innanzi a lui si possono chiamare dipinte, e le sue vivaci e naturali,
allato a quelle fatte dagli altri”
La
tavola 8 mostra il Profeta Abacuc (detto
lo Zuccone) di Donatello, marmo,
1423-35, particolare. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo
Riferisco
parte del commento: “Sono contemporanei alla cappella Brancacci i profeti
Geremia e Abacuc di Donatello. Movimento e animazione, la manifestazione, cioè,
in sembianze fisiche dell’agitazione interna della figura, travolge ogni
tardo-gotica suavitas, si oppone alla
misura ghibertiana , “fino alla terribilità” (Chastel) (…) Donatello resterà
fedele a questa immagine dell’uomo : ciò che dona vita è la stessa energia che
inquieta e non dà pace, che agita sempre corpo e pensiero , come il pathos che sconvolge le menadi ai piedi della croce sul pulpito
di San Lorenzo. E’ questa energia a dover essere classicamente espressa; questo significa conoscere, sapere, in tutti i sensi, le opere dei
classici (…) resta forse insuperata la violenza espressiva dello ‘Zuccone’, di
questa figura cui Donato, mentre la lavorava, si rivolgeva dicendo: “favella,
favella, che ti venga il cacasangue!” (Vasari).
Nell’XI
canto dell’Odissea Alcinoo dice a
Odisseo che ha morfh; ejpevwn, bellezza di parole kai; frevne~ ejsqlaiv e saggi pensieri e che il suo racconto è fatto con
arte-ejpistavmeno"-, come quello di un aedo wJ" ajoidov" (vv. 367-368).
A
proposito della necessità di “sapere,
in tutti i sensi, le opere dei classici” cito l’incipit della Vita di Leon Battista Alberti architetto
fiorentino di Giorgio Vasari:
“Grandissima comodità arrecano le lettere universalmente a tutti quegli
artefici che di quelle si dilettano, ma particolarmente agli scultori, pittori
ed architetti, aprendo la via alle invenzioni di tutte le opere che si fanno;
senza che non può essere il giudizio perfetto in una persona (abbia pur naturale
a suo modo) la quale sia privata dell’accidentale, cioè della compagnia delle
buone lettere; perché chi non sa che nel situare gli edifizi bisogna
filosoficamente schifare la gravezza dei venti pestiferi, la insalubrità
dell’aria, i puzzo e i vapori dell’acque crude e non salutifere? (…) sì perché
l’arte col mezzo della scienza diventa molto più perfetta e più ricca, sì perché
i consigli e gli scritti de’ dotti artefici hanno in sé maggior efficacia e
credito, che le parole e l’opere di coloro che non sanno altro che un semplice
esercizio, o bene o male che se lo facciano. E che queste cose siano vere, si
vede manifestamente in Leon Battista Alberti, il quale, per avere atteso alla
lingua latina e dato opera all’architettura, alla prospettiva, ed alla pittura,
lasciò i suoi libri scritti di maniera (…) che egli abbia avanzato tutti coloro
che hanno avanzato lui con l’operare”.
Torniamo
alla pagina 62 di La mente inquieta.
“Vedrai nell’opera di quei sommi che sono davvero tutt’uno con l’opera che
realizzano, pur sapendola peritura, e che mai fuggono da tale dolorosa
coscienza. Pittori e filosofi tutti, come lo sarà ancora il protagonista del
Candelaio bruniano”
Cacciari prosegue scrivendo che “questo timbro tragico
dell’Umanesimo albertiano” ha nel Petrarca del Secretum e di tante Epistulae
la sua fonte prima” (p. 63)
La volontà albertiana
è “consapevole quanto quella del Petrarca
della fragilità delle proprie intenzioni
“quotiens volui nec potui”, Secretum, I, 40), però manca della fede religiosa dell’Aretino,
siccome non ha un Agostino a sorreggerla. E tuttavia uguale è il loro
“desiderium vehemens surgendi” (Secretum,
I, 34), e se l’anelito alla renovatio
è inteso da Petrarca anzitutto come metanoia-conversio,
neppure in Alberti manca la nostalgia per il colloquio dell’anima con sé sola,
per la solitudine contemplativa (la sua figura nelle Disputationes camaldulenses[37]
non è affatto un’invenzione. L’Agostino del Petrarca è quello del tormentato
itinerario delle Confessioni (…) Come nell’Alberti, l’uomo non può
pervenire ad alcuno stato: “ si a stando status dicitur, nullus hic
homini status est, sed fluxus et lapsus” Familiari XIX, 16)” (p. 64)
Cacciari associa queste parole ad alcune del Canto del destino di Iperione di
Hölderlin “ Ma a noi non è dato in nessun luogo trovar pace”
“L’irreparabile
tempus[38](…)
che sembra aver travolto la stessa Roma, che pare produrre, più che mutatio, ruina, è nostro segno e
carattere. Tempo è l’esserci stesso, che tutto muta e perturba, che non può in
nessuna opera trovare quiete, insaziabile, mal-contento sempre, perfino nelle
espressioni somme della propria potenza. Anche le nostre opere più ‘virtuose’
avranno, allora, il timbro dell’incompiutezza, del tentativo, dell’inizio” Noi
siamo gli interroganti, nos interrogantes.
“Chi interroga non dà risposta, non produce risultati, ma soltanto (…) una
grande quantità di cominciamenti “tanta
coeptorum moles” (Familiari XIX, 16, 5). Ma che di vera
mole allora si tratti! Che l’opera appaia davvero un monumento alla nostra capacità di dare inizio, , di procedere
sempre oltre, di interrogare ancora. Segno di inopia, certamente, ma anche di indomita volontà di inaccessa tentare (come Petrarca dice in
una famosa lettera al Boccaccio, Familiari,
XXII, 2, 21), ‘armandoci’ dei classici del passato proprio per essere in grado
di affrontare la navigazione a noi destinata” (p. 64)
Eppure “per Petrarca la stessa grandezza del passato
che egli venera è sempre anche vissuta come periculosum
maxime, come energia capace di ‘sedurci’(…) da quella conversio integrale di tutto il nostro essere, cui il Cristo ci
chiama” p.65) .
Del resto è compresa nel pensiero del Petrarca “l’idea
che proprio il ‘ritorno’ al classico possa rivitalizzare , ‘ringiovanire’ la
cristianità, o almeno frenarne la decadenza”.
“soltanto l’eloquenza dei Padri dispone, per Petrarca,
dell’energia necessaria per convincere alla conversio.
L’eloquenza dei Padri versus la verbositas degli scolastici, non solo
dei detestati averroisti”
La forza di questa eloquenza non sta “nel costruire
sillogismi. Ma nell’affermazione che amare vale più di ogni sapere” (p. 65)
Si può pensare a quanto afferma il personaggio
Socrate nell’Alcibiade II di Platone.“Vedi dunque quando dicevo che il possesso delle altre scienze se uno non possiede la scienza di quanto è ottimo (l'idea del Bene), di rado giova, mentre per lo più danneggia chi ce l'ha, non ti sembra che io parlavo dicendo quanto è sostanzialmente corretto?”
Alcibiade dà ragione a Socrate il quale aggiunge
“E chi possiede la cosiddetta conoscenza enciclopedica e politecnica , ma sia privo di questa scienza (del Bene), e venga spinto da ciascuna delle altre, non farà uso sostanzialmente di una grande tempesta senza un nocchiero, continuando a correre sul mare, non a lungo del resto? Sicché mi sembra che anche qui capiti a proposito quello che dice il poeta criticando uno che effettivamente sapeva molte cose ma le sapeva tutte male (Alcibiade II 147b)”
“Amare soltanto
può vincere la miseria della volontà che fa il male pur vedendo il bene”
“Non si supera l’angoscia che da tale miseria ci viene
con il ragionamento, ma in forza di caritas,
e a una tale misura di amore non si
perviene se non gratia adiuvante” (p.
66)
Un’ idea del genere oltre che in Paolo[39] si trova
nel discorso finale del film di Chaplin The great dictator (1940): il barbiere, sosia di Hynkel-Hitler,
scambiato per il grande dittatore deve parlare alla folla con parole che legittimino e anzi esaltino la prepotenza
del tiranno, presentato come il futuro
imperatore del mondo dal ministro della propaganda Garlitsch-Goebbels. Ebbene
il piccolo grande uomo non rispetta la parte che gli hanno assegnato e dice di
non volere comandare su nessuno, ma aiutare tutti. Poi continua così: “Our knowledge has made us cynical, our
cleverness hard and unkind. We think to much and feel to little. More than
machinery we need humanity. More than cleverness we need kindness and gentleness”, la nostra conoscenza ci ha resi cinici, la nostra
intelligenza duri e scortesi. Noi pensiamo troppo e sentiamo troppo poco. Più
che di macchinari abbiamo bisogno di umanità. Più che di intelligenza abbiamo
bisogno di bontà gentilezza.
“L’eloquenza dei padri ci ha comunicato tale principio
con le parole più appassionate e
appropriate, lo ha reso davvero suavis
grazie alla copiosità delle invenzioni e immagini con cui lo ha espresso, e
cioè grazie, in fondo, alla sua natura poetica. L’Alberti non condivide questa fede nella
predicazione dell’amore (…) e tuttavia affonda in quella del Petrarca la sua
visione dell’inesorabile contrasto nell’anima tra posse e velle e
dell’instancabile anelito della volontà (…) nel dar forma comunque al proprio esistere, per riuscire ad abitare, nonostante tutto, nella propria
stessa inquietudine”. Alberti non crede “che l’in-sana natura umana possa giungere a scoprire un balsamo per le
proprie ferite, ma a conoscerle sì. La sofferenza produce questo sapere, ed
esso è segno del più alto grado di virtù cui sia possibile ambire.
Tragicamente, anche il sapere genererà, poi, sofferenza”. Dunque “i termini dell’assioma tragico classico, pathei mathos, possono essere in ogni istante invertiti” (p. 66). (maqei, paqo")
I termini sono
associati e costitutivi del nostro essere.
E’ nella parodo dell’Agamennone di Eschilo che si
trova questa espressione. Il concetto avrà un lunghissimo seguito nella
letteratura europea.
Goccia invece del sonno[41]
davanti al cuore la pena che ricorda il male
(stavzei d’ ajnq j u[pnou pro; kardiva~-mnhsiphvmwn
povno~ , Agamennone, 179-180) e anche a chi non vuole giunge l’essere
saggio.
Arriva con violenza la grazia
degli dèi (182).
Una voce contraria è quella di Cesare
Pavese: “Non bastano le disgrazie a
fare di un fesso una persona intelligente”[42].
“Questo
circolo è evitabile solo ignorando la nostra essenza, gettandoci nel fiume
della Vita come rottami, serrando il nostro sguardo alla realtà e il nostro
orecchio a quella voce che chiama dal fondo della coscienza a essere liberi, tanto da edificare la nostra
dimora, entrare in colloquio con il classico che sfida il tempo, marcare
attraverso questo colloquio con ‘l’immortale’ la vicissitudo che siamo. L’occhio emblema dell’Alberti rimane in-sanamente insonne di fronte allo
‘spettacolo’ dell’esistenza, nell’infinita varietà delle figure e maschere in
cui essa si esprime, della follia che la scuote, senza la quale, tuttavia,
neppure sarebbero mai nate le divine manie poetiche, poetico-profetiche e
filosofiche” (p. 67).
Esistono forme di manìa più sagge della saggezza del mondo
Socrate vuole dimostrare, a proposito della pazzia
amorosa:"wj"
ejp j eujtuciva/ th'/ megivsth/ para; qew'n hJ toiauvth maniva[43]
devdotai" (Fedro,
245c) che tale follia è concessa dagli dèi per la nostra più grande fortuna.
Il
filosofo nel Fedro sostiene che agli
uomini i beni più grandi derivano da una mania data dagli dèi (244a): infatti
la profetessa di Delfi, quella di Dodona e la Sibilla procurano benefici
agli uomini quando si trovano in stato
di mania, mentre in stato di senno non ne procurano alcuno. Gli antichi che
hanno coniato i nomi hanno chiamato manikhv la più bella delle arti che prevede il futuro[44].
Sono stati i moderni, ajpeirokavlw~, con ignoranza del bello, che
mettendoci dentro una tau
Platone
assimila la follia erotica a quella religiosa:
nel Fedro ricorda che il tema dell'irrazionalità della
passione amorosa è stato già trattato da Saffo e Anacreonte, ed elenca quattro modi di essere fuori
di sé: quello dei profeti come la
Pizia di Delfi, quello dei fondatori di religione, quello dei
poeti, e quello degli innamorati.
Il tema degli occhi
“L’emblema
albertiano dell’occhio alato e saettante (tav. 9) non può perciò essere letto
attraverso le lenti di un Umanesimo-Humanismus
e così ridotto a immagine dell’acutezza dello sguardo unita alla rapidità
dell’ala” (p. 67)
La tavola 9 è divisa in due parti: 9a Matteo de’
Pasti, Medaglia di Leon Battista Alberti,
bronzo, 1446-50, verso con occhio
alato. Firenze, Museo del Bargello.
(9b) Leon
Battista Alberti, L’occhio alato, emblema
albertiano e il motto “Quid tum” , disegno 1450 circa. Firenze, Biblioteca
Nazionale Centrale, ms Magl. II IV 38, c. 119v.
Leggiamo il commento di Cacciari. “E’ Alberti stesso a
dirci che gli Egizi usavano il segno dell’occhio per indicare il Dio e il
geroglifico dell’avvoltoio per designare la paura. I due elementi vengono
combinati nella Hypnerotomachia
Poliphili[45]
(ricchissima di riferimenti all’Alberti teorico dell’architettura) per
significare “Deo naturae sacrifica”. Ma il topos dell’Occhio simbolo del sole,
a sua volta manifestazione visibile del sommo Dio, fornisce forse la chiave per
risolvere l’enigma albertiano? Certo, quello della vista è il più spirituale
dei sensi. Certo, veloce come la luce vola
l’occhio e raggiunge gli oggetti più lontani (“come l’occhio e il razzo del
sole e la mente sono i più veloci moti che sieno”, dirà Leonardo). Ma se è
anche nostro questo occhio, quid tum? Quale pallida immagine dell’onnipotenza
solare dell’Occhio infinito di Dio! Che cosa possiamo vedere realmente?
Soltanto l’ombra dell’intelligibile,
mai il vero in sé. E lo stesso ‘occhio della mente’ che rende possibili le
operazioni dell’intellectus resterà
sempre connesso a quello dei sensi: “oculus
in carcere tenebrarum”, lo definirà Giordano Bruno, fornendo quasi
un’interpretazione, a mio avviso, dell’Alberti, in quanto occhio dell’intelletto in potenza, illuminato
dal sole di quello agente, unico per tutti e unico immortale”.
Mi viene in mente il mito platonico della caverna e il
sole che corrisponde nel visibile all’idea del Bene nell’intelligibile
Giuliano Augusto l'imperatore calunniato dai
Cristiani con l'infamante epiteto di "Apostata" riassume questi elogi
dell'antichità in termini neoplatonici nella orazione A Helios re dedicata a
Salustio. Questo "sermone natalizio" fu redatto alla fine del 362 d.
C. per celebrare il 25 dicembre, dies natalis Solis invicti . Elio è visto come il signore del mondo
intelligente e viene definito dio mediatore e potentissimo assai simile al Bene
preesistente a tutte le cose. Giuliano cita
la Repubblica di Platone dove (508c) si dice che il Sole è
figlio del Bene ("tou'
ajgaqou' e[kgonon")
che il Bene generò simile a sè ("oJ;n tajgaqo;n ejgevnnhsen ajnavlogon eJautw'/") e ciò che è il Bene nel
mondo intellegibile rispetto all'intelletto e agli intellegibili è Helios nel
mondo visibile rispetto alla vista e alle cose visibili (5, 17-21). L’Uno (e{n) o il Bene (tajgaqovn), come lo chiama Platone, ha
rivelato da sé Elios dio potentissimo del tutto simile a sé. Quindi Elios viene
identificato con Zeus e con Apollo (31)
Alla fine
(44) Giuliano prega Elio, to;n basileva tw̃n o{lwn, di accordargli una vita virtuosa,
una intelligenza più piena e una mente divina. E alla fine della vita di
congiungersi a lui.
Virgilio,
nella Georgica I (vv. 463-464),
afferma la sincerità del sole nel dare segni:"Solem quis dicere falsum/audeat? ", il sole chi oserebbe
chiamarlo falso?
Torniamo al testo di Cacciari
(p. 67)
“L’emblema non contrasta con
la venerabile tradizione che vede nell’occhio un dio tra le membra. Ma la
inquieta e interroga. Quid tum? Che
vedi dunque? A quale realtà può rivolgersi la tua luce?”.
Sulla maggiore spritualità
dell’occhi rispetto agli altri organi corporei insiste T. Mann in La montagna incantata.
L’autore spiega, a ragione, che l'amore è suscitato e mantenuto soprattutto
dall'attrazione del volto, e in questo degli occhi, siccome significativi del
carattere della persona: "C' era stato uno spazio non più lungo di due
palmi fra il suo viso e quello di lei, quel viso dalla forma strana eppure nota
da tanto tempo, una forma che gli piaceva come null'altro al mondo, una forma
esotica e piena di carattere...ciò che lo aveva colpito ancora maggiormente
erano stati gli occhi, quegli occhi sottili, quegli occhi da Kirghiso dal
taglio schiettamente affascinante, occhi d'un grigio azzurro o d'un azzurro
grigio come i monti lontani, che, a volte, con un curioso sguardo di traverso
non destinato certo a vedere, potevano oscurarsi, fondersi in una tinta velata
notturna"[46].
Cfr. Properzio: Si nescis, oculi sunt in amore duces "[47].
Lo sguardo “dipinge vera mente ciò che vede, ne comprende i
rapporti. Non è visio Dei , ma pittura sì, pittura che analizza e commisura, dolorosa e
vera, della condizione umana” (p. 68)
L’occhio umano del resto non
arriva a vedere tutto. E ci colleghiamo “al disincanto dell’Alberti. Tutto
vedi, mio occhio, tutto? “Tutto”?! Soltanto sulla tua stessa realtà ti è stato
concesso di volare. Sovra-umanarti non puoi; aspetta un poco e ascolterai ‘l’ultima’
parola di Montaigne (o è Momo che parla?): “e sul più alto trono del mondo non
siamo seduti che nel nostro culo” (Saggi,
III, 13). E trovi forse pace al colmo della tua potenza? Insonnia soltanto è il
dono concessoti” (p. 68).
Si può pensare a quanto dice Riccardo II di Shakespeare: “
Il potere è un bene apparente
Riccardo II[48]
deposto da Bolingbroke che sarà Enrico IV espone “le tristi storie delle morti
dei re”
For God’sake let us sit upon
the ground per amor di Dio, sediamoci sulla terra
And
tell sad (–lat. satur) stories of the death of kings:
How some have been deposed,
some slain in war, uccisi in guerra
Some haunted by the ghosts
they have deposed, ossessionati dai fantasmi di quelli che avevano
deposto
Some poisoned by their wives,
some sleeping kill’d,
All murdered (lat.
mors). For within the hollow la vuota corona
crown-corona-korwvnh- cornacchia e coronamento/
That
rounds-rotundus- the mortal temples (lat. tempora) of a king
Keeps death his court; and there the
antic sits, sedēre, e[zomai- siede la beffarda, grottesca Scoffing his state and grinning
at his pomp-pomphv invio,
seguito- pompa seguito, processione, schernendo il suo stato e ghignando alla sua pompa[49]
Allowing-late latin. ad e locare-. him a breath, a little scene-scena-skhnhv-, concedenogli un breve respiro, una particina
To monarchize, be fear’d-lat. periculum, and kill
with looks, fare il re, incutere timore fulminare con lo sguardo-
Infusing him with self and
vain conceit
riempiendolo di sé e di vuote
illusioni,
As if this flesh which walls-vallum palizzata- about our life
Come se questa carne che
cinge di mura lo spirito
Were brass impregnable; and humour’d-lat. umor- umorem umidità- thus,
Fosse bronzo indistruttibile
e dopo averlo lusingato così
Comes at the last, and with a
little (pin lat- pinna penna, ala, freccia)
Viene alla fine e con un
piccolo spillo
bores(-lat.
forare)- through his
castle wall, and farewell king!
Perfora le mura e addio re!
Cover your heads, and mock not- L. muccare, soffiarsi il naso-
flesh and blood
Copritevi le teste e non
canzonate un impasto di carne e di sangue
With solemn reverence, throw
away
gettate via respect lat. ,respicio respectus -riguardo
Tradition, form, and ceremonious-lat cerimonia- duty; tradizione formalità e il dovere dell’etichetta
For you have but mistook me
all this while, poiché mi avere frainteso per tutto questo tempo.
I live with bread, like you;
feel want, vivo di pane come voi, sento
desideri
Taste-( Late latin taxitare forma iterativa di
taxare intensive di tangere)- grief-gravis-,
need friends. Subjected-subiectus-
thus ,assaporo il dolore ho bisogno
di amici. Così asservito
How can you say to me I am a
king? (Riccardo II, III, 2, 155-177)
Nelle Troiane
di Euripide, Ecuba constata che il polu;~ o[gko~ , il grande
vanto degli antenati era oujdevn, niente, era un gonfiore
che si è dissolto.
“O
grande vanto umiliato
Degli
avi, come davvero eri un nulla!” (vv. 108-109)
“Che voluptas ti viene dal tuo essera alato? E, ancora più, ora che vedi
‘tutto’, sei giunto finalmente a vedere te stesso? O hai incontrato quella pupilla di un altro dove specchiarti,
che Socrate invita Alcibiade a scoprire (Alcibiade
Maggiore, 132 d-133c)?-p. 68
Guardando nella pupilla di un’altra persona
vedremo riflessi noi stessi, e mirando in Dio vedremo lo specchio più bello
delle cose umane che tendono all’eccellenza dell’anima e così potremo vedere e
conoscere meglio noi stessi
AL. 'AlhqÁ lšgeij.
Al. Dici il vero
SW. 'OfqalmÕj ¥ra ÑfqalmÕn qeèmenoj, kaˆ ™mblšpwn
e„j toàto Óper bšltiston
aÙtoà kaˆ ú Ðr´, oÛtwj ¨n aØtÕn
‡doi.
So Dunque un occhio guardando un altro occhio, e
osservando la sua parte migliore con la
quale lui stesso vede, in questo modo può vedere se stesso
AL. Fa…netai.
AL. sembra
SW. E„ dš g' e„j ¥llo tîn toà ¢nqrèpou
blšpoi ½ ti
tîn Ôntwn, pl¾n e„j ™ke‹no ú toàto tugc£nei Ómoion, oÙk
Ôyetai ˜autÒn.
SO. Ma se guarda altra parte del corpo umano , o delle
cose presenti, tranne ciò cui questo si trova a essere simile, non vedrà se
stesso
AL. 'AlhqÁ lšgeij.
Al. Dici il vero
SW. 'OfqalmÕj ¥r' e„ mšllei „de‹n aØtÒn, e„j Ñfqal-
mÕn aÙtù bleptšon, kaˆ toà Ômmatoj e„j ™ke‹non tÕn tÒpon
™n ú tugc£nei ¹ Ñfqalmoà
¢ret¾ ™ggignomšnh· œsti d
toàtÒ pou Ôyij;
SO. Allora se un occhio vuole vedere se stesso, deve
fissare un occhio, e dell’occhio il luogo dove si trova la virtù dell’occhio, e
non è questa la vista?
AL. OÛtwj.
Al. E’ così.
SW. ’Ar' oân, ð f…le 'Alkibi£dh, kaˆ yuc¾ e„ mšllei
gnèsesqai aØt»n, e„j yuc¾n aÙtÍ bleptšon, kaˆ m£list'
e„j toàton aÙtÁj tÕn tÒpon
™n ú ™gg…gnetai ¹ yucÁj ¢ret»,
sof…a, kaˆ e„j ¥llo ú toàto tugc£nei Ómoion Ôn;
SO. Allora, Alcibiade, anche l’anima, se vuole conoscere
se stessa, dovrà fissare l’anima e soprattutto questo luogo dell’anima nel
quale sta la sua virtù, la sapienza, e fissare altro cui questa cosa sia
simile?
AL. ”Emoige doke‹, ð Sèkratej.
AL. Certo Socrate, così mi sembra
SW. ”Ecomen oân e„pe‹n Óti ™stˆ tÁj yucÁj qeiÒteron
À toàto, perˆ Ö tÕ e„dšnai te kaˆ frone‹n ™stin;
SO. possiamo dunque dire che c’è una parte dell’anima
più divina di questa che riguarda la conoscenza e il pensiero?
AL. OÙk œcomen.
Al. Non possiamo
SW. Tù qeù ¥ra toàt' œoiken aÙtÁj, ka… tij e„j toàto
blšpwn kaˆ p©n tÕ qe‹on
gnoÚj, qeÒn te kaˆ frÒnhsin,
oÛtw kaˆ ˜autÕn ¨n gno…h
m£lista.
So. Dunque questa parte dell’anima è simile al divino
, e osservandola e conoscendo il divino, dio e pensiero, così uno può conoscere
anche se stesso nel modo migliore.
AL. Fa…netai.
Al. Sembra
<SW. ’Ar' oân, Óq' ésper k£toptr£ ™sti safšstera toà
™n tù Ñfqalmù ™nÒptrou kaˆ
kaqarètera kaˆ lamprÒtera,
oÛtw kaˆ Ð qeÕj toà ™n tÍ
¹metšrv yucÍ belt…stou kaqa-
rèterÒn te kaˆ lamprÒteron
tugc£nei Ôn;
So. Ma come lo specchio è più chiaro dello specchio
del nostro occhio e più puro e luminoso, così anche il dio, sarà più chiaro e
luminoso della parte migliore della nostra anima?
AL. ”Eoikš ge, ð Sèkratej.
Al. Mi pare, Socrate
SW. E„j tÕn qeÕn ¥ra blšpontej ™ke…nJ kall…stJ
™nÒptrJ crómeq' ¨n kaˆ tîn ¢nqrwp…nwn e„j t¾n yucÁj
¢ret»n, kaˆ oÛtwj ¨n m£lista Ðrùmen kaˆ gignèskoimen
¹m©j aÙtoÚj.
So. Quindi mirando in dio, ci avvaliamo di quello
specchio bellissimo, più bello anche delle cose umane relative alla virtù
dell’anima, e così potremmo vedere e conoscere anche noi stessi nella maniera
più esatta
AL. Na….
Al. Sì
SW. TÕ d gignèskein aØtÕn æmologoàmen swfrosÚnhn
ei\nai;
So. Ma non ci siamo trovati d’accordo che conoscere se
stesso sia saggezza?
AL. P£nu ge.
Al. Assolutamente
(Alcibiade I, 1332b-133c)
Torniamo a Cacciari:” chi è colui che mi guarda dal
dipinto in cui mi sono ritratto? Quis
est? Quis es, tu? In quale spaventosa notte si penetra quando si fissa
negli occhi un uomo? In quale mondo di fantasmagoriche ed enigmatiche
rappresentazioni-si chiederà Hegel? Malinconia del simbolo dello Specchio e
della grande ritrattistica del manierismo, che già qui si annuncia.
Inquietudine dell’immagine, agitarsi nella inventio
dell’emblema albertiano di diverse e dissonanti interrogazioni” (p. 69)
A proposito degli occhi e dei loro
misteriosi significati aggiungo qualche altra citazione
Sant' Agostino nel Secretum ricorda a Francesco Petrarca[50] la pericolosità dello sguardo femminile: se
contemplare un bel corpo infiamma la lussuria, un leggero volger d'occhi risveglia l'amore che si era assopito: "spectata corporis species, luxuriam incendit;
levis oculorum flexus, amorem dormitantem
excitat " ( III, 50).
Il tovpo" dell'amore
ispirato solo o soprattutto dagli occhi si trova anche in Pene d'amore perdute di Shakespeare[51]: Biron in preda a un amore "pazzo come
Aiace" cerca di resistergli per non finire ammazzato come una pecora, ma
nella donna che lo ha stregato, Rosalina, c'è qualche cosa di irresistibile:
"Oh, ma il suo occhio... per la luce del giorno, se non fosse per il suo
occhio io non l'amerei; sì, per i suoi due occhi!... Dagli occhi delle donne io traggo questa dottrina: essi scintillano senza posa di un vero fuoco prometeico (From women’s eyes this doctrine I derive:
they sparkle still the right Promethean fire),, e rappresentano i
libri, le arti, le accademie che mostrano, contengono e alimentano il mondo
intiero; senza di loro nessuno può eccellere in cosa alcuna" (IV, 3).
“Espressione degli occhi. Perché si ha cura fino ab antico di
chiudere gli occhi ai morti? Perché con gli occhi aperti farebbero un certo
orrore. E questo orrore da che verrebbe? Non da altro che da un contrasto tra
l’apparenza della vita, e l’apparenza e la sostanza della morte. Dunque la
significazione degli occhi è tanta, ch’essi sono i rappresentanti della vita, e
basterebbro a dare una sembianza di vita agli estinti” (Leopardi, Zibaldone,
2102).
Sicché l'amore viene attivato e tenuto vivo soprattutto
dagli occhi.
Proseguo con una una lettera di Guy de Maupassant (1850-1893) :" Vorrei, soprattutto,
rivedere i vostri occhi, i vostri due occhi. Perché il nostro primo pensiero è
sempre per gli occhi della donna che amiamo? Come ci ossessionano, come ci
rendono felici, o infelici, questi piccoli enigmi chiari, impenetrabili e
profondi, queste piccole macchie blu, nere o verdi, che senza cambiare forma né
colore, esprimono, volta a volta, l'amore, l'indifferenza e l'odio, la dolcezza
che placa ed il terrore che agghiaccia più di tante parole in eccesso e meglio
dei gesti più espressivi"[52].
Gli occhi delle donne che ci
attirano non sono solo delle cose belle secondo Proust (1871-1922) insomma non sono soltanto materia:"Se
pensassimo che gli occhi di una ragazza come quella non sono che una brillante
rotella di mica, non saremmo così avidi di conoscere e di unire a noi la sua
vita. Ma sentiamo che quel che riluce in quel disco pieno di riflessi non è
dovuto unicamente alla sua composizione materiale; che sono, ignote a noi, le
nere ombre delle idee che quell'essere si fa a proposito delle persone e dei
luoghi che conosce…le ombre, anche, della casa in cui rientrerà, i progetti
ch'essa fa o altri han fatti per lei; e soprattutto che è lei, con i suoi
desideri, le sue simpatie, le sue repulsioni, la sua oscura e incessante
volontà"[53].
Anche Svevo (1861-1928) ha capito che l'attrazione
più forte esercitata dalla donna deriva dal fulgore dei suoi occhi:
"Quand'egli le parlò, essa levò rapidamente gli occhi e glieli rivolse
sulla faccia così luminosi, che il mio povero principale ne fu proprio
abbattuto…Non so se a questo mondo vi siano dei dotti che saprebbero dire
perché il bellissimo occhio di Ada adunasse meno luce di quello di Carmen e
fosse perciò un vero organo per guardare le cose e le persone e non per
sbalordirle"[54].
Sentiamo di nuovo Thomas
Mann“Rachele era bella e graziosa. Lo era in una maniera nello stesso tempo
mansueta e birichina, che veniva dall’anima, ma si vedeva-e anche Giacobbe lo
vedeva perché lei lo guardava-che spirito e volontà trasformati in senno e
coraggio muliebri, erano le segrete sorgenti che alimentavano quella grazia;
tanto espressiva era la sua persona, tanto aperta e pronta alla vita nella
fermezza dello sguardo…la cosa più bella e graziosa era il suo modo di
guardare, era lo sguardo dei suoi occhi neri, dal taglio lievemente obliquo,
uno sguardo che la miopia stranamente trasfigurava e addolciva, in cui, lo
diciamo senza esagerazione, la natura aveva raccolto tutte le attrattive che
essa può dare a uno sguardo umano: una notte profonda, liquida, mite,
dolcissima, una notte eloquente, piena di serietà e di ironia, uno sguardo che
Giacobbe non aveva o credeva di non avere ancora mai visto…Era giunto alla
meta, e la fanciulla con gli occhi pieni di dolce oscurità che pronunciava il
nome di suo padre lontano era la figlia del fratello[55] di sua madre[56]” [57]
Gli
occhi sono comunque legati all'amore e al sesso
Gli
occhi che Edipo si colpisce da solo sono, secondo Freud, il simbolo dei
genitali:"l'accecamento con cui Edipo si punisce dopo aver scoperto
il proprio crimine è, a quel che testimoniano i sogni, un sostituto
simbolico dell'evirazione"[58].
"Si deve tenere presente che, nella mitologia classica, gli occhi
presentano spesso un legame con l'amore e con la sessualità, e in particolare
con i genitali maschili: numerose sono le rappresentazioni vascolari di falli
con occhi. Forse il gesto dell'autoaccecamento di Edipo racchiude anche un
significato di simbolica castrazione, di autopunizione per i delitti sessuali
commessi. Infliggendo una punizione ai suoi occhi, Edipo punisce la parte del
suo corpo che si è macchiata di colpa nei confronti della madre"[59].
Torniamo a Cacciari: “Lezione antidogmatica, skepsis autentica, che ancora potrebbe
trovare in una rilettura del Petrarca la propria fonte. Troppo spesso se ne è
interpretato il pensiero come un semplice ‘rigetto’ di scienza e filosofia
rigorose’” (p. 69) . Cacciari ricorda la Senile da Venezia (V, 2) nella quale Petrarca narra del suo incontro
polemici “con uno dei tanti intellettuali padovani averroisti, teologi e
religiosi solo per l’abito, ma pronti a ‘latrare’ in privato “contra Christum et coelestem Christi
doctrinam”. Costui disprezza la fede del poeta e arriva a infamare Paolo
quale “seminator verborum et insanus”. Averroè è di gran lunga superiore “tuis his nugatoribus”! E Petrarca lo
caccia con sdegno. Cacciari se chiede si si tratti di un “atteggiamento
antiscientifico, funzionale all’esaltazione della poesia” (p. 69)
Una filosofia ridotta a logica arriva a dire poco su
ciò che è specificamente umano.
I maestri Stoici Zenone, Cleante e Crisippo
consideravano la logica solo il muro del giardino, la fisica erano le piante e
l’etica i frutti.
Del resto un’etica meramente intellettuale non può
suscitare amore per la virtù né muovere ad essa. “Non vi è felicità nella mera
coerenza dell’agire a imperativi razionali (…) La critica all’intellettualismo
dell’etica classica nelle sue varie espressioni, fermenterà lungo tutto il
pensiero dell’umanesimo, i quella sua direzione critica, antidogmatica, che ne
fa un’alba tutt’altro che incompiuta nel pensiero moderno ” (p. 70)
Io penso all’antiintellettualismo che va da Eraclito
alle tragedie, in particolare le tragedie di Sofocle e le Baccanti di Euripide, e per
i moderni, in particolare Svevo e Musil.
“Un’etica inellettualistica non può corrispondere al
bisogno supremo dell’esserci umano: la felicità. Essa fallisce, cioè, nel suo
stesso dichiarato obiettivo: quello dell’eudaimonia”
(p. 70)
Eujdaimoniva è un buon rapporto con il proprio demone, con il proprio
destino-carattere
"Poiché la felicità alla sua antica fonte era eudaimonia,
cioè un daimon contento, soltanto un daimon che riceve ciò che gli
spetta può trasmettere un effetto di felicità all'anima"[60].
“E qui di nuovo filologia e filosofia si sposano. Valla si interroga nel De vero bono su come tradurre l’Agathon , il sommo mathema per Platone?”
Mevgiston mavqhma, il massimo oggetto di scienza è
l'idea del Bene. cfr.Platone, Repubblica,
505a:"hJ tou'
ajgaqou' ijdeva mevgiston mavqhma".
“Se il bene deve essere sommo, non
potrà intendersi che nella forma di un perfetto ’indiarsi’, di una compiuta omoiosis theoí.
Felicità allora non potrà trovarsi che in Deo”. (p. 70)
Platone consiglia
l’assimilazione a Dio (oJmoivwsiς qew' , Teeteto (176b).
Sulla
eudaimonia sentiamo anche dei versi
della prima srofe della parodo delle Baccanti di Euripide-
Str a. O beato colui che va d’accordo con se stesso w\ mavkar, o{sti" eujdaivmwn-72
conoscendo i misteri degli
dèi,
santifica la vita e
entra nel tiaso con l’anima, 75
baccheggiando nei monti
con sacre purificazioni,
e celebrando secondo il rito
le orge della grande madre
Cibele
alto scuotendo il tirso, 80
e incoronato di edera
venera Dioniso.
Del resto “Felicità è impossibile alla finitezza
mortale”. (p. 70)
Allora di nuovo Euripide, con
questi versi della Medea: “
Tra i mortali infatti non c'è nessun uomo che sia felice (ejdaivmwn ajnhvr),
quando passa un'ondata di prosperità, uno può diventare
più fortunato
di un altro (eujtucevstero~ a[llou), ma felice
nessuno (eujdaivmwn d j a]n ouj)
(vv.1228- 1230)
La felicità dunque è un
assaggio, è passeggera.
“La voluptas propriamente umana (voluptas, e non “turpis voluptas” , spiegherà Ficino
annotando il commento all’Etica
Nicomachea di Donato)
sta nell’inquisitio, nel godimento per l’apprendere. L’indagare, lo
scoprire, nel piacere che viene dal saper
fare opere che soddisfano intelletto e sensi”.
Seneca
difende Epicuro dalla taccia di propugnare una turpis voluptas e vuole togliere
al filosofo greco Epicuro tale reputazione, Nel De vita beata (13) dice che virtus
e voluptas sono inconvenientia, inconciliabili. L’uomo effusus in voluptates,
ructabundus semper atque ebrius, dà ai suoi vizi il titolo di virtù,
e si autorizza con Epicuro. Ma la voluptas
di Epicuro era sobria ac sicca e
usurpa il nome di epicureo chi vola al richiamo di quel nome cercando un
patrocinio e una copertura per le loro libidini quaerentes libidinibus suis patrocinium aliquod ac velamentum. Dunque la voluptatis
laudatio è perniciosa, ma questa
non si trova in Epicuro il quale prescrive norme rette e anche severe (recta et tristia).e il suo piacere è
riportato a una piccola ed esile misura voluptas
enim illa ad parvum et exile revocatur ed egli impone al piacere la
medesima legge che noi diamo alla virtù: iubet
illam parere naturae , ordina alla voluptas
di obbedire alla natura e ciò che basta alla natura è troppo poco per la
lussuria.
La
setta di Epicuro male audit, infamis est,
et immerito, è malfamata a torto.
Del resto “si tratterà sempre anche di un
piacere sensibile. La voluptas non è
disincarnabile”
“Non l’auctoritas ci soccorre, ma l’insaziata curiositas (da cura!),
l’osservazione instancabile della realtà, senza ‘idealizzarrne’ alcun aspetto.
Fondamentale
già in Odisseo è della curiosità , notata da Apuleio che fa di Ulisse una
prefigurazione del suo Lucio, il protagonista delle Metamorfosi :" Nec ullum
uspiam cruciabilis vitae solacium aderat, nisi quod ingenita mihi curiositate
recreabar (...) Nec immerito priscae
poeticae divinus auctor apud Graios summae prudentiae virum monstrare cupiens
multarum civitatium obitu et variorum populorum cognitu summas adeptum virtutes
cecinit " (IX, 13), né vi era da qualche parte alcun conforto di
quella vita tribolata se non il fatto che mi sollevavo con la mia innata
curiosità (...) e non a torto quel divino creatore dell'antica poesia dei Greci
volendo raffigurare un uomo di somma saggezza, narrò che egli raggiunse i sommi
valori visitando molte città e conoscendo popoli diversi.
‘L’ occhio’ dell’Alberti
introduce a quello leonardesco, alla sua “bramosa voglia” di ficcarsi
nell’ignoto, di penetrare nella “mirabil necessità” che tutto anima e tutto
collega, nella ‘caverna’ del mondo, della “artifiziosa natura”. Potrebbe
essere, io credo, l’occhio del più giovane dei ‘tre filosofi’ del Giorgione,
fiducioso della propria forza, fisso di fronte alla caverna-ingens sylva, pronto a esplorarla e
rappresentarla: abissi di ignoto, sì, gli si presentano dinanzi-ma nulla di
inconoscibile (tav. 10)” p. 72
Vediamo allora la tavola 10 che riproduce Giorgione, I
tre filosofi, olio su tela,
1506-1508, Vienna Kunsthistoriches Museum.
“Dall’humus fertilissimo
veneziano, in cui le correnti neoplatoniche dal più deciso timbro ermetico ed
esoterico si intrecciano con radicali presenze averroistiche, in particolare
come noto a Padova, sorge e si afferma la presenza non solo artistica, ma
intellettuale del Giorgione. Epoche della civiltà, cioè del sapere e della scienza,
i Tre, disposti su gradi diversi, fino alla più giovane, fiore dell’intero sviluppo (altro che ‘apprendista’, come vaneggia
qualcuno!) Molto rimane di enigmatico nella grande opera, ma è del tutto certo
che debba essere interpretata nel senso indicato da Bruno Nardi nel 1955 (I tre filosofi del Giorgione e Postilla giorgionesca, ora in ID, Saggi sulla cultura veneta, Padova
1971).
Il gran vecchio a destra
(Tolomeo (o Pitagora?); al centro un esponente della grande
astronomia-astrologia araba (mediatrice tra quella classico-antica e la
nostra-e, terzo, chi se non Copernico, o uno che con lui ‘sale’, mentre gli
altri tramontano, intento a considerare con nuovi strumenti e nuova, ben
fondata, fiducia, il cielo che la luce dell’alba va dischiudendo (tuttavia gli
resta oscura e minacciosa di fronte anche l’ingens
sylva della natura –materia-mater-
dunque non solo matematico, come Bruno rimprovererà a Copernico di essere
stato?) Quale messaggio? Che l’astronomia matematica
soltanto può esprimere la verità del cosmo?
(…) L’astrologia andrebbe dunque bandita? Difficile affermarlo. Il
contrasto luce-tenebra domina il grande capolavoro, impedendoci di ignorare la
sua stretta affinità con quel ‘mito solare’ di chiara ascendenza neoplatonica,
che costituisce la imprescindibile filosofia
alla base della rivoluzione della scienza astronomica (e. Garin, La rivoluzione copernicana e il mito solare)”.
Torniamo a p. 72
“Inquieta la natura, energia
in ogni suo atomo, e tuttavia sempre in moto, in perenne trasformazione-dove
prima era roccia, ora è mare, dove montagna pianura, dove acqua terra-,
inquieto l’occhio che vuole penetrarla. Se non lo fosse, nulla avrebbe in
comune con il suo oggetto e nessuna relazione potrebbe prodursi. Le forme con
cui l’occhio di Leonardo comprende la natura sono quelle con cui Dio stesso
crea “numero, pondere et mensura” (Sap.
11, 20); la Sua
scienza non può essere letta da chi non sia ‘matematico’; e tuttavia quella
“divina proporzione” che egli apprende dal grande Luca Pacioli[61],
del quale illustrerà mirabilmente l’opera, affonda le sue radici nel De pictura (Alberti, 1435) , è parente
strettissima del De re aedificatoria (Alberti,
1450), riprende quel pro veritate
laborare, che è il motto della Dialectica del Valla, contemporanea
delle prime, e forse più drammatiche opere albertiane. Verità effettuale, non
rivelata. Verità semper indaganda da philo-sophia
e philo-logia indissolubilmente unite (…) E da un tale thaumazein, da una tale tremenda
meraviglia, si rianima anche sempre il senso religioso dell’esistere, fino ad
assumere timbri apocalittici: “nulla rimarrà sulla terra che non sia tormentato
o distrutto”, “o terra che cosa aspetti a spalancarti e precipitare gli uomini
nella profonda apertura dei tuoi abissi?” (tav. 11)
La tavola 11
contiene due riproduzioni: 11a Leonardo da Vinci, Studi astronomici, penna e inchiostro su carta, 1504-1508,
particolare. Collezione privata, codice Leicester 8già codice Hammer), c. 23.
11b
Leonardo da Vinci, Studio per la
battaglia di Anghiari con scontro di fanti e cavalieri, penna e inchiostro
su carta, 1504-506, Venezia, Gallerie dell’Accademia, Gabinetto dei disegni e
delle stampe.
Leggiamo il commento: “Hobstinato rigore il pittore nel suo
operare vuole riunite in sé geometria e
dinamica, geologia e psicologia, trova il suo massimo scoglio nella
rappresentazione non tanto del movimento, quanto dell’intersecarsi , del
compenetrarsi e confondersi delle figure. Come esprimere prospetticamente-geometricamente la qualità della natura e dei suoi
fenomeni, che raggiunge il suo apice nelle grandi catastrofi, nelle inondazioni, nei turbini, nello scroscio delle
acque, così come nelle battaglie, nella furiosissima
pazzia della guerra: questo il problema, questa la sfida”.
Ecco come Lucrezio evidenzia
questa furiosissima pazzia
La
storia delle arti belliche mette in
rilievo il carattere perverso della guerra la quale uccide non solo i nemici ma
anche gli amici.
Prima
combatterono a cavallo, poi sulle bighe, poi i carri falcati falciferi
currus (De rerum natura, V, 1301)
la
funesta discordia produsse una cosa dall’altra
Sic aliud ex alio peperit
discordia tristis (1305) e inventò ordigni sempre nuovi per accrescere gli orrori della
guerra.
Scagliarono
anche tori, leoni e cinghiali.
I
leoni sconvolgevano tutte le schiere senza distinzione.
Et validos partim prae se
misere leones
Cum doctoribus armatis
saevisque magistris
Qui moderarier his possent
vinclisque tenere
Nequiquam, quoniam
permixta caede calentes
Turbabant saevi nullo
discrimine turmas
terrificas capitum
quatientes undique cristas (1310-1315)
Le
leonesse avventavano i corpi infuriati a salti da ogni parte
irritata leae iaciebant
corpora saltu
Undique et adversum
venientibus ora petebant (1318-9) assalivano al volto
Mentre
altri li dilaniavano da tergo
morsibus adfixae validis atque unguibus uncis (1322)
avvinghiandosi
con morsi forti e artigli adunchi
I
tori sbalzavano via i conduttori poi
incornavano dal basso i cavalli,
i
cinghiali con forti zanne straziavano anche gli alleati
et validis socios caedebant dentibus apri
(1326)
e
facevano strage di fanti e di cavalieri.
Anche
la guerra dunque fa parte dell’irrazionalità umana
Non
si fanno queste battaglie tanto con la speranza di vincere
“Sed
facere id non tam vincendi spe voluerunt-
quam dare quod gemerent
hostes, ipsique perire
qui numero diffidebant
armisque vacabant” (1347-8) mancavano di armi
Fromm
assimila il genocidio di Cartagine perpetrato dai Romani ad altri scempi
commessi dai vincitori nei confronti dell’umanità: “The history of civilization, from the destruction of Carthage and
Jerusalem to the destruction of Dresden, Hiroshima, and the people, soil, and
trees of Vietnam, is a tragic record of sadism and destructiveness” (The anatomy of human destructiveness, p. 192), la storia della “civiltà” dalla distruzione di Cartagine e Gerusalemme,
alla distruzione di Dresda, Hiroshima, e del popolo, del suolo, degli alberi
del Vietnam, è un documento tragico di sadismo e distruttività.
Lo studio per la Battaglia di Anghiari di Leonardo può rendere con le figure disegnate le
parole di Lucrezio
E torniamo al commento di
Cacciari: “Come dominare, cioè, col numero
la complessità dei fenomeni, come ritmarne
la vita, anima e corpo indissolubilmente uniti. Visione ancora ‘qualitativa’
della natura? Ma niente affatto estranea a mostrarne il ‘linguaggio matematico’
(…) con Leonardo il neoplatonismo fiorentino perde i suoi tratti più
marcatamente ermetici e astrologici (evoluzione del tutto analoga a quella di
Pico), non per essere dimenticato, ma, anzi, per assumere nuovo valore
all’interno della visione di una Vita sempre
in-forma, anche là dove gli elementi appaiono massimamente dis-cordi.
Armonia che ha nel concerto del cielo stellato e del sole al suo centro-armonia
che solo l’astronomo può legittimamente
affermare di conoscere e che lui solo può disegnare-la
propria rivelazione”.
Visto il commento alla tavola
11, sentiamo la conclusione del Capitolo quarto: “Scienza, misura e senso
tragico dell’esistenza, si fondono in questi autori, nella ‘catena’ che essi
formano; non una vaga Stimmung, ma
una filosofia li accomuna, che cerca di costruire un logos capace di guardare al “carattere enigmatico, temibile,
distruttivo, che si cala nel fondo dell’essere” con il rigore e la potenza
della costruzione prospettica” (p. 73)
[2] L’anticristo,
52
[3] 217 ca-145 a. C.
[4] Schol. B a Z 201.
[5] 35 ca-95 ca d. C.
[6] 1798-1837.
[7] Institutio
oratoria, X, 2, 24-26.
[9]
Dalla commedia antica ateniese
[10] Ricordi,
18. La redazione definitiva dei Ricordi
è del 1530.
[11] Ricordi, 6.
[12] Cioè nulla data la povertà di diogene ndr.
[13] L’aggressività umana. Anche questo motivo è ben
presente nel Momus albertiano e ha anzi un suo rilievo molto
particolare verso la fine del terzo libro, là dove vediamo il filosofo
Democrito intento a sezionare un granchio per scoprirvi il luogo dove abbia
sede, come s’esprime l’Alberti stesso, «il male originario degli esseri
viventi», vale a dire quell’«iracundia»
produttrice di «tanti sommovimenti e tanti ardori che, bruciando l’intelletto
umano, sconvolgono e distruggono ogni forma di razionalità.
[14] L’ultima parola di un verso e i due successivi (27-29) della Satira X di Giovenale, citati a memoria
non precisissimamente
[15] Milano Messina, 1944, p. 136
[16] Lupus est homo
homini, non homo, quom qualis sit non novit” (Asinaria, 495), quando non si sa di che tipo sia, dice un mercante.
Contro questa sentenza abbiamo la menandrea a[nqrwpo" ajnqrwvpw/ qeov" e Cecilio Stazio (230-167 a. C): “homo
homini deus si suum officium sciat” (Plocium,
fr. 265 Ribbeck
[17] Del 1594-1595.
[18] I libri della famiglia, in Opere volgari, a cura di C. Grayson, Bari 1960-73vol I, p.
[19] Anche Tucidide, dunque, come già Erodoto, riconosce
ancora il novmo"
basileuv". Cfr. V. Ehrenberg, Sofocle
e Pericle, Brescia, 1959, che affronta la questione dal punto di vista della 'legge non scritta'
dominante l'Antigone.
[20] :"Kai; th;n eijwqui'an ajxivwsin tw`n ojnomavtwn ej" ta; e[rga ajnthvllaxan
th'/ dikaiwvsei. Tovlma me;n ga;r
ajlovgisto" ajndreiva filevtairo" ejnomivsqh" (III, 82, 4), e cambiarono arbitrariamente
l'usuale valore delle parole in rapporto ai fatti. Infatti l'audacia
irrazionale fu considerata coraggio devoto ai compagni di partito (ndr)
[21] M. Cacciari, Geofilosofia dell'Europa, pp.
42-43.
[22] Refrain, quasi, dei Libri della famiglia. “Siendo
ogni vita (…) grieve e laboriosa”, anzi, non trovandosi “niuna cosa (…) più
faticosa del vivere”, occorrerà affrontarla “colle mani e co’ piedi, con tutti
e’ nervi, con ogni industria e consiglio”
[23]Plutarco, Vita di Alcibiade, 23, 4- 5.
[25] Montaigne, Saggi,
p. 221.
[27] Del 1889.
[28]D'Annunzio, Il
Piacere , pp. 42-43.
[29]D'Annunzio, Il
Piacere , p. 278.
[30] S. Kierkegaard, Enten-Eller (del 1843), Tomo Primo, p. 158.
[32] Per le Intercenales
disponiamo ora dell’eccellente edizione di F. Bacchelli e L. D’Ascia (a cura
di), “Delusione” e “Invenzione” nelle
intercenali di Leon Battista Alberti, Bologna 2003, che ne hanno steso
anche un’ampia e importante introduzione,
[33] Cfr. L A, Alberti I
libri della famiglia, in Opere volgari cit. p. 183
[34] "Ecce positus est hic in ruinam multorum in
Israel et in signum cui contradicetur (...) ut revelentur ex multis cordibus
cogitationes". Nuovo Testamento (Luca, 2, 34)
[35] “Paulo stava nello scrittoio per trovar i termini
della prospettiva, e che quando ella (moglie) lo chiamava a dormire, egli le
diceva: “Oh che dolce cosa è questa prospettiva!”.
Giorgio
Vasari, Le vite de’ più
eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’
tempi nostri (1568)
[36] Di santa Maria del carmine a Firenze ndr.
[37] Le Disputationes
sono un trattato in forma di dialogo di contenuto filosofico, in cui il Landino
tende a superare la dimensione grammaticale dell'analisi dei testi letterari, e
in particolare dell'Eneide,
per affrontare, anche attraverso l'analisi allegorica del testo virgiliano, la
questione del rapporto tra vita attiva e vita contemplativa e della possibilità
della felicità per l'uomo. Protagonisti del dialogo, ambientato nell'estate del
1468 presso il monastero di Camaldoli, sono lo stesso Landino, suo fratello
Piero, Giuliano e Lorenzo de' Medici, Alamanno Rinuccini, Pietro e Donato
Acciaiuoli, Leon Battista Alberti,
Marsilio Ficino e altri che, durante quattro giorni di conversazioni,
corrispondenti ai quattro libri in cui è divisa l'opera, trattano del rapporto tra vita attiva e vita contemplativa, della
questione della felicità (de summo bono)
e dell'illustrazione di allegorie virgiliane utili a meglio definire la
questione del rapporto tra vita attiva e vita contemplativa. Al termine della
composizione, le Disputationes
Camaldulenses furono presentate nell'esemplare di dedica
(Biblioteca apost. Vaticana, Urb. lat.,
508) a Federico da Montefeltro, che inviò al Landino una lettera di
ringraziamento, mentre l'editio princeps
fu pubblicata probabilmente nel 1480
a Firenze per Niccolò della Magna; precedente al 1481 è
la traduzione di Andrea Cambini, che non ci è pervenuta. L'opera fu accolta
piuttosto freddamente dagli ambienti vicini al Landino e di ciò è testimonianza
una lettera del Ficino a Bartolomeo Scala (Lettere,
I, n. 119).
Cristoforo
Landino, Umanista (n. Firenze 1424 - m.
nel Casentino 1498). Lettore di poesia e oratoria nello Studio dal 1458, dal
1467 fu cancelliere di parte guelfa, poi scrittore di lettere pubbliche presso la Signoria. Imbevuto
di neoplatonismo, la sua opera maggiore sono le Disputationes camaldulenses.
[38] Cfr. Virgilio, Georgica
III, 284
[39] (:"
jEa;n tai'" glwvssai" tw'n ajnqrwvpwn lalw' kai; tw'n ajggevlwn,
ajgavphn de; mh; e[cw, gevgona calko;" hjcw'n h] kuvmbalon ajlalavzon". Paolo I Lettera ai Corinzi: 13, 1)
(Paolo I Lettera Ai Corinzi, 3, 18): “si quis videtur sapiens esse inter vos in hoc saeculo, stultus fiat, ut sit sapiens, Sapientia enim huius mundi stultitia est apud Deum jH ga;r sofiva tou kovsmou touvtou mwriva para; tw/`` qew/`/ ejstin
[40] Il concetto diventerà topico.. Cfr., per esempio,
Cfr. il Creso di Erodotro pavqhmata maqhvmata (I, 207)
[41] Il tiranno non dorme. Cfr., p. e. Edipo e Macbeth.
[42] Il mestiere di
vivere, 2
novembre 1938.
[43] C'è da notare che maivnomai,
"sono pazzo", maniva, "follia" e mavnti" , profeta, hanno la radice comune man(t) -/mhn-.
[44] La mantica.
[45] Hypnerotomachia
Poliphili (ipnerotomàkia polìfili), letteralmente
"Combattimento amoroso di Polifilo in sogno", è un romanzo allegorico,
stampato a Venezia
da Aldo
Manuzio il Vecchio nel dicembre 1499, con 169 illustrazioni xilografiche.
Il testo è stato attribuito a diversi autori (tra cui, oltre allo stesso
tipografo Aldo Manuzio, a Leon Battista Alberti, a Giovanni Pico della Mirandola, e a Lorenzo
de Medici). Un acrostico contenuto nel testo però, formato dalle iniziali
dei 38 capitoli, indicherebbe l'autore dell'opera in un Francesco Colonna, secondo alcuni il frate
domenicano dei Santi Giovanni e Paolo, secondo altri il principe
romano, dal 1484
signore di Palestrina,
forse "frater" dell'Accademia di Pomponio
Leto.
Il racconto descrive un sogno erotico del suo protagonista, Polifilo. Si tratta di un viaggio iniziatico che ha per tema centrale la ricerca della donna amata, metafora di una trasformazione interiore alla ricerca dell'amore platonico. Il viaggio iniziatico richiama alla mente quello di un altro grande romanzo dell'antichità, le Metamorfosi di Apuleio. I continui richiami alle divinità dell'antica Roma fanno del romanzo un'opera dichiaratamente pagana (si veda, ad esempio, in Polifilo 15 la preghiera a Diespiter, che è l'appellativo con il quale veniva chiamato Giove nelle preghiere pronunciate dai sacerdoti di Stato nell'antica Roma), il che spiega come mai fu stampata anonima e perché recentemente si sia cercato di attribuirla ad altri, ben più noti, umanisti rinascimentali in odore di paganesimo.
Il libro è arricchito da 169 splendide xilografie, in gran parte ispirate all'idea di giardino rinascimentale.
Il racconto descrive un sogno erotico del suo protagonista, Polifilo. Si tratta di un viaggio iniziatico che ha per tema centrale la ricerca della donna amata, metafora di una trasformazione interiore alla ricerca dell'amore platonico. Il viaggio iniziatico richiama alla mente quello di un altro grande romanzo dell'antichità, le Metamorfosi di Apuleio. I continui richiami alle divinità dell'antica Roma fanno del romanzo un'opera dichiaratamente pagana (si veda, ad esempio, in Polifilo 15 la preghiera a Diespiter, che è l'appellativo con il quale veniva chiamato Giove nelle preghiere pronunciate dai sacerdoti di Stato nell'antica Roma), il che spiega come mai fu stampata anonima e perché recentemente si sia cercato di attribuirla ad altri, ben più noti, umanisti rinascimentali in odore di paganesimo.
Il libro è arricchito da 169 splendide xilografie, in gran parte ispirate all'idea di giardino rinascimentale.
[47] Properzio, II 15, 12. Se non lo sai, gli occhi nell’
amore sono gli occhi a dirigere
[48] Riccardo II
Plantageneto (Bordeaux, 6 gennaio 1367 – Pontefract, 14
febbraio 1400)
è stato re d'Inghilterra dal 1377 al 1399. La tragedia di
Shakespeare è del 1595.
[49] Cfr. il gatto del Cheshire, lo stregatto che Alice
vede appollaiato in cima a un albero scomparire a poco a poco cominciando dalla
punta della coda, finché rimane solo un grin,
una sorta di ghigno in forma di riso (Alice
nel paese delle meraviglie, di Lewis Carrol, 1865).
“all right”, said the Cat, and
this time it vanished quite slowly, beginning with the end of the tail, and
ending with the grin, which remained some time after the rest of it had gone.
“Well I’ve often seen a cat
without a grin” thought Alice;
“but a grin without a cat! It’s the most curious thing I evere saw in all my
life!” (capitolo VI Pig
and pepper, porco e pepe). Il nonsense e la morte
[50] Arezzo 1304-Arquà 1374.
[51] Stratford
on Avon 1564-Warwickshire 1616. Love's labour's lost è del 1594-1505.
[52] Le plus belles lettres d'amour , tratto da Lunario
dei giorni d'amore, p. 502.
[53] All'ombra delle fanciulle in fiore, p. 397.
[55] Labano ndr
[56] Rebecca ndr
[57] T. Mann, Giuseppe
e i suoi fratelli, La storia di Giacobbe, pp. 265 ss.
[58] Compendio di psicoanalisi, in Freud Opere
, volume 11, p. 617, n. 1.
[59] D. Puliga e Silvia Panichi, In Grecia, p. 199.
[60] J. Hillman, Il codice dell'anima , p. 112.
[61] Fra Luca Bartolomeo de Pacioli, o anche
Paciolo (Borgo Sansepolcro, 1445 circa – Roma, 19 giugno 1517), è stato un religioso, matematico
ed economista
italiano,
autore della Summa de Arithmetica, Geometria, Proportioni e Proportionalità
e della Divina Proportione. Egli è riconosciuto come il fondatore della ragioneria.
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