NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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giovedì 28 marzo 2019

Lettura commentata del IV capitolo del novissimo libro di Cacciari



Lettura commentata del Capitolo quarto di 
La mente
 inquieta
Saggio sull'Umanesimo di Massimo Cacciari

Umanesimo tragico (pp. 52-73)
Architecti est scientia pluribus disciplinis et variis eruditionibus formata”, così suona solennemente l’inizio del De architectura vetruviano; il Rinascimento vedrà in questo classico ‘risorto’ nel 1414 a Montecassino, la rivendicazione del valore dell’architettura come autentico sapere (…) e dell’architetto come colui che, accanto e oltre la sua abilità ed esperienza tecnica, deve essere anche eruditus in geometria e nelle lettere, in matematica e negli studi storici. Una concezione del fare architettonico che nell’Umanesimo si impone già con Brunelleschi e che troverà nell’Alberti la sua più alta espressione. Se però ci chiedessimo quale disciplina sia la fondamentale per l’architetto umanista, dovremmo indicare proprio la filologia, in quel senso che è emerso dallo studio di Valla (p. 52).

Sentiamo Nietzsche: “Per filologia qui, in un senso assai generale, si deve intendere l’arte di leggere bene-di saper cogliere i fatti, senza falsarli con l’interpretazione, senza perdere, nell’ansia dì capire, la prudenza, la pazienza, la finezza.
Filologia come ephexis [1]nell’interpretazione: che si tratti, poi, di libri, di notizie di giornale, di destini o di avvenimenti meteorologici-per non parlare della “salute dell’anima[2].  

“Senza lo studio del testo classico, senza la conoscenza diretta del monumento antico, mai potrà nascere un’architettura cum auctoritate, capace cioè non solo di funzionare e piacere, ma anche di generare nuove forme e dare così vita a una nuova, classica, tradizione”.
Auctoritas infatti è imparentata etimologicamente con augeo “accresco”.
“Leon Battista affronta il campo specifico dell’architettura come Valla quello della filologia”.  Bisogna considerare con cura le opere antiche “misurarle, comparare le une alle altre (…) poi occorre disegnarle, compierne esatti rilievi. Ciò implica costanza, pazienza, lungo lavoro, avanzare lento pede, esercizio filologico”.
Lo stesso che deve essere fatto con le opere letterarie: leggerle, tradurle, compararne le parti tra loro, insomma chiarire Omero con Omero e con i successivi, poi chiarire i successivi tra loro e con Omero.


Buona norma è commentare i poeti con i poeti: il testo di un autore innanzitutto con altri testi dello stesso autore, secondo il criterio del filologo Aristarco di Samotracia[3]   per il quale bisogna spiegare Omero con Omero :   {Omhron ejx   JJOmhvrou safhnivzein"[4]; poi vanno  considerati i commenti  degli autori ottimi agli autori precedenti. Si possono utilizzare, per fare solo due esempi, Quintiliano[5] e Leopardi[6] come critici.


Più alta, ampia e chiara sarà la visione della letteratura europea, più accresciuta ne sarà la nostra educazione e la nostra mente. 

Paradossalmente conoscere diversi autori e autori diversi può essere funzionale all’originalità..
Quintiliano afferma che Demostene è “longe perfectissimus Graecorum”, di gran lunga il più perfetto dei Greci. Tuttavia, aggiunge, in qualche cosa, in qualche luogo si esprimono meglio altri, pur se in moltissime il più bravo è lui (aliquid tamen aliquo in loco melius alii (plurima ille). Quindi arriviamo al punto: “Sed non qui maxime imitandus, et solus imitandus est”, non deve essere imitato in esclusiva quello che più di tutti deve essere imitato. Così tra il latini non basta Cicerone quale modello: “ Plurium bona ponamus ante oculos, ut aliud ex alio haereat, et quod cuique loco conveniat aptemus[7], mettiamoci davanti agli occhi i gioielli di diversi modelli, perché ci rimanga qualche cosa dall’uno e dall’altro, e noi possiamo applicare ciò che si confà a ciascuna opera.   
  Leopardi  dichiara di "aver contratta, a forza di moltiplicare i modelli, le riflessioni ec. quella specie di maniera o di facoltà, che si chiama originalità. (Originalità  quella che si contrae? e che infatti non si possiede mai se non s'è acquistata? Anche Mad. di Staël dice che bisogna leggere più che si possa per divenire originale. Che cosa è dunque l'originalità? facoltà acquisita, come tutte le altre, benché questo aggiunto di acquisita ripugna dirittamente al significato e valore del suo nome.) "[8].

E’ lo stesso hostinato rigore con cui l’ars deve procedere, che ritroveremo in Leonardo (Motto). E la regola vale universalmente; in ogni campo, nell’arte come per la ‘roba’ della Famiglia o per gli affari dello Stato: il fare senza pazienza, ‘in furia’ è rovinoso; saper indugiare bisogna (“indugio quanto posso”, Alberti, I libri della famiglia; III), mai cedere alla ‘malattia’ di quel personaggio rappresentato da Machiavelli nel primo capitolo dell’Asino , vv. 35-36 , “ch’in ogni luogo per la via correva/e d’ogni tempo sanza alcun rispetto” (p. 53).
O come Lucilio criticato da Orazio nella Satira I, 4
Di qui[9] pende completamente Lucilio, che ha seguito costoro
cambiati soltanto i versi e i ritmi, arguto,
di naso fino, duro nel comporre i versi.
Infatti in questo fu difettoso: spesso in un'ora, come se fosse
una gran cosa, dettava duecento versi (ducentos versus dictabat), stando su un piede solo-(stans pede in uno). 10
Poiché scorreva limaccioso (cum flueret lutulentus), c'era qualcosa che vorresti togliere:
ciarliero e pigro nel sopportare la fatica
dello scrivere bene: infatti, riguardo al molto, non mi importa (vv.6-.13

“Alberti tratta l’architettura classica esattamente come Machiavelli gli exempla antichi. La distinzione è sempre salva; la consapevolezza della grande varietà delle cose, anche nel campo delle arti, profonda, acuta, ma non vi è spazio per uno scetticismo di stampo guicciardiniano (“è fallacissimo el giudicare per gli essempli, perché se non sono simili in tutto e per tutto, non servono…”, Ricordi, 117)  (p. 54)

Cito un altro dei Ricordi (110) non meno rivelatore di tale scetticismo guicciardiniano : “Quanto si ingannano coloro che a ogni parola allegano e Romani! Bisognerebbe avere una città condizionata come era la loro, e poi governarsi secondo quello essemplo: el quale a chi ha le qualità disproporzionate è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino facessi il corso di uno cavallo”.
Cacciari poi  nota che Guicciardini “in fondo, anche si contraddice: “Insegna molto bene Cornelio Tacito a chi vive sotto a’ tiranni el modo di vivere e governarsi prudentemente, così come insegna a’ tiranni e modi di fondare la tirannide”[10].
Il criterio deve essere comunque quello della discrezione: “E’ grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola: perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione per la varietà delle circostanze, le quali non si possono fermare con una medesima misura: e queste distinzione e eccezione non si truovano scritte in su’ libri, ma bisogna le insegni la discrezione[11]

“L’esperienza è maestra (e Guicciardini “è forse il solo storico tra i moderni, che abbia conosciuto molto gli uomini, e filosofato circa gli avvenimenri attendendosi alla cognizione della natura umana”, Leopardi, Pensieri, LI), ma esperienza è anche quella che i Romani ci trasmettono (…) essere all’altezza dei classici, nient’affatto lasciarsi ‘incantare’ da essi, questo è il Sollen degli umanisti. E nell’architettura questo ‘dovere’ è sentito con energia forse ancora maggiore che nelle altre discipline. L’abitare infatti, caratterizza l’uomo quanto il suo linguaggio. Dobbiamo apprendere a bene parlare come a bene abitare” (p.54)

I classici della letteratura e della filosofia per lo più biasimano il lusso delle persone e delle abitazioni.
Faccio un solo esempio: “Qui domum intraverit nos potius miretur quam supellectilem nostrum (Seneca, Ep. 5,  6).


Alberti, “il massimo architetto, il massimo ‘filologo’ dell’architettura per eccellenza, quella romana” capì “la drammatica serietà dell’edificare, quanto improbus labor quest’arte comporti, come estrema sia la difficoltà di far abitare, e imparare ad abitare (sta qui il rapporto tra il De re aedificatoria e le opere politico-civili dell’Alberti), di dare casa e città a quel ‘miracolo’ grande e tremendo che è l’uomo”.

Torna in mente lo squillo iniziale del I stasimo dell’Antigone di Sofocle.

Trovo ora  una affermazione il cui senso ho sempre avuto presente, nel cervello e nel cuore, da quando mi sono applicato, da educatore, allo studio dei classici. Ho cercato, e cerco tuttora, di educare me stesso e i miei allievi di età varia.
La prova più ardua della filologia sta nel “comprendere con la stessa cura con cui ascolta l’autentica voce dei classici quel testo che è l’esserci umano nel suo esprimersi, nei suoi ‘abiti’ effettuali” (…) Se non si ficca l’occhio nell’esserci dell’animale incurabilis, il nostro Umanesimo diverrà consolante, sedentaria erudizione.
L’occhio albertiano si decide in questo senso con tanta consapevolezza, da non potersi trovare l’uguale in tutto l’Umanesimo-tuttavia il dramma che esso vede è largamente condiviso (…) filologia significa volersi esprimere, voler comunicare; comunicare è possibile soltanto conoscendo l’interlocutore, “quis es, tu, homo?  (Plauto, Amphitruo, IV, 1); fedeltà al testo implica realismo antropologico. Le grandi opere che studiamo non debbono portare ad alcuna adulazione dell’uomo, bensì costringerci a comprenderne la drammatica complessità. Riflettendoci sul loro specchio, anzi , è piuttosto la nostra ‘miseria’ ad apparire: nella grande poesia la inopia del nostro eloquio, nella grande architettura quella del nostro edificare. Esse non devono servire a consolarci, bensì piuttosto a sostenerci nel perseverare nella ricerca, per conferire una forma che duri al nostro presente doverci esprimere e abitare” (p. 56)

Cacciari poi ricorda delle parole di Socrate cui Platone nel Fedone (97 d, 4-5) fa dire che l’ejpisthvmh dell’ottimo (to; bevltiston)  è correlata a quella di ciò che è inferiore (to; ceivron).

“Dal pericolo di un simile descensus nascono le architetture albertiane; tanto più esse stanno, quanto più sfidano l’inesorarabile opera del tempo “da cui son vinte anche le pietre (Lucrezio, De rerum natura, V, 306: denique non lapides quoque vinci cernis ab aevo”) quanto più ad infera affondano le loro fondamenta.

Voglio commentare queste parole di Cacciari: “ Le tonalità che assume la ‘stagione dell’inferno’ albertiana toccano corde varissime, spesso risonanti insieme nel medesimo brano, dal riso (tav. 6) più mordace del Momus, che farà ritorno nei ‘calci’ e negli ‘scherzi’ dell’Asino machiavellico, al sarcasmo più amaro, dalla parodia alla malinconia più luttuosa ( p. 57)

Prendo spunto dall’Asino machiavellico per ricordare un’Operetta morale tra le meno conosciute.
L’Asino di Machiavelli è menzionato, con quelli di Apuleio e di Firenzuola, da Leopardi nella Proposta di premi fatta dall’accademia dei sillografi  la quale ha deciso di chiamare il nostro tempo “età delle macchine, non solo perché gli uomini di oggi vivono forse più meccanicamente di tutti i passati, ma eziandio per rispetto al grandissimo numero delle macchine inventate di fresco” al punto “che oramai non gli uomini ma le macchine, si può dire, trattano le cose umane e fanno le opere della vita”.
Tre premi veranno dati a chi avrà trovato le macchine che sottentrino agli uomini in determinate funzioni oramai cadute in disuso.
 “L’intento della prima sarà di fare le parti e la persona di un amico, il quale non biasimi e non motteggi l’amico assente” e non lo umili, prevarichi, danneggi in nessuno dei vari modi possibili.
“L’inventore di questa macchina riporterà in premio una medaglia d’oro di quattrocento zecchini di peso, la quale da una banda rappresenterà le immagini di Pilade e di Oreste, dall’altra il nome del premiato col titolo: PRIMO VERIFICATORE DELLE FAVOLE ANTICHE.
 La seconda macchina vuol essere un uomo artificiale a vapore, atto ordinato a fare opere virtuose e magnanime (…) Il premio sarà una medaglia d’oro di quattro cento zecchini di peso, stampatavi in sul ritto qualche immaginazione significativa dell’età d’oro, e in sul rovescio  il nome dell’inventore della macchina con questo titolo ricavato dalla quarta egloga di Virgilio, QUO FERREA PRIMUM DESINET AC TOTO SURGET GENS AUREA MUNDO.
La terza macchina  debbe essere disposta a fare gli uffici di una donna conforme a quella immaginata, parte dal conte Baldassar Castiglione, il quale descrisse il suo concetto nel libro del Cortegiano, parte da altri”. Leopardi ricorda poi il mito di Pigmalione che “in tempi antichissimi ed alieni dalle scienze si poté fabbricare la sposa colle proprie mani, la quale si tiene che fosse la miglior donna che sia state insino al presente”.
All’autore di questa macchina, la donna perfetta, “Assegnasi una medaglia d’oro in pesso di cinquecento zecchini, in sulla quale sarà figurata da una faccia l’araba fenice del Metastasio posata sopra una pianta di specie europea, dall’altra parte sarà scritto il nome del premio col titolo: INVENTORE DELLE DONNE FEDELI E DELLA FELICITà CONIUGALE”
E veniamo ai fondi dai quali Sillografi trarranno gli zecchini per i premiati- “L’Accademia ha decretato che alle spese che occorreranno per questi premi suppliscasi con quanto fu ritrovato nella sacchetta di Diogene[12], stato segretario di essa Accademia, o con uno dei tre asini d’oro che furono di tre Accademici sillografi, cioè a dire di Apuleio, del Firenzuola e del Machiavelli, tutte le quali robe pervennero ai Sillografi per testamento dei suddetti, come si legge nelle Storie dell’Accademia.”
Mi sono dilungato su questa operetta siccome ha previsto il nostro vivere di oggi  sempre più  “più meccanicamente”. La macchina “inventata di fresco” a me particolarmente odiosa è quello dei telefonini i quali, usati come li usano i più, contribuiscono ad annientare i rapporti umani, l’educazione la cultura e, quindi, lo stesso Umanesimo di cui si tratta in La mente quieta di Cacciari. I cellulari sono tra i latori del nichilismo che prima trasvaluta, poi  annienta tutt i valori, infine annienta la vita.
Con questo cerco per lo meno di ricordare i valori che potenziano, abbelliscono e lietificano la vita: l’amore, l’amicizia, la cultura, la solidarietà, l’aiuto reciproco, l’attenzione per gli uomini e per la natura.
Io, non essendo capace né desideroso di una vita egoista, ci metto anche il comunismo in senso etimologico: vivere con gli altri, per gli altri, fatto che ritorna accresciuto sul proprio benessere e sulla propria felicità.

Concludo con un’altra citazione tratta da Leopardi: “così a scuotere la mia povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi dell’affetto e dell’entusiasmo e dell’eloquenza e dell’immaginazione nella lirica; le armi della ragione, della logica, della filosofia, ne’ Trattati filosofici ch’io dispongo; e le armi del ridicolo ne’ dialoghi e novelle Lucianee che sto preparando” (27. luglio 1821) 
Zibaldone, 1394
   
 Leopardi con la lettera a Giordani del 4 settembre 1820 annunciava l’inizio di composizione delle sue Operette morali: «Consoliamoci della indegnità della fortuna. In questi giorni, quasi per vendicarmi del mondo, e quasi anche della virtù, ho immaginato e abbozzato certe prosette satiriche…»

Il riso liberatore. Cacciari, La mente inquieta Saggio sull’umanesimo, tavola 6     

La tavola 6 riproduce un affresco di Bramante del 1487. Ora si trova a Milano,  nella pinacoteca di Brera. Mostra Eraclito e Democrito, il primo triste, chiomato aggrottato, l’altro mezzo calvo e ridente, o irrisorio.
Cacciari lo commenta facendo riferimento al” riso liberatore” del Momus di Alberti. In questa satira “il filosofo- che ride per eccellenza Democrito, è, a sua volta oggetto di riso, pur distinguendosi con nettezza dagli altri personaggi dell’in philosophos! albertiano,  piú o meno tutti caratterizzati dalla massima delle follie: volere che l’universo sia fatto a misura della propria stultitia. Democrito appare interamente dedito a ricerche naturalistiche, all’apparenza insensate (come vivisezionare un granchio[13]), ma che pure testimoniano della sua consapevolezza dei limiti dell’intelletto umano. Insano, tuttavia, anche lui, poiché dimentica o non intende prendersi cura della realtà che lo circonda, e dunque manca di quella virtus che  il filosofo, architetto e pittore, deve, per Alberti, possedere.

Cacciari menziona come “fonte seria, morale del motivo”, il  De tranquillitate animi di Seneca il quale scrive:
In hoc itaque  flectendi sumus, ut omnia vulgi vitia non invisa nobis sed  ridicula videantur et Democritum potius imitemur quam
Heraclitum. Hic enim, quotiens in publicum processerat,
flebat, ille ridebat, huic omnia quae agimus miseriae, illi
ineptiae –sciocchezze- videbantur. Elevanda-alleggerire- ergo omnia et facili animo ferenda: humanius est deridere vitam quam deplorare.
Adice quod de humano quoque genere melius meretur
qui ridet illud quam qui luget: ille et spei bonae aliquid 
relinquit, hic autem stulte deflet quae corrigi posse desperat;
et universa contemplanti maioris animi est qui risum non
tenet-trattiene- quam qui lacrimas, quando lenissimum adfectum
animi movet et nihil magnum, nihil severum, ne miserum
quidem ex tanto paratu putat” (15).

La fonte satirica invece si può trovare “nel bellissimo dialogo di Luciano di Samosata , Vite all’incanto, dove Giove e Mercurio cercano compratori per le anime di illustri filosofi”. Il compratore trova che le vite di Democrito ed Eraclito siano in grande contrasto: “al primo par tutto ridicolo, perfino gli stessi dèi, all’altro ogni cosa triste e deplorabile!”
Cacciari commenta così: “ Ma è vero contrasto? Alberti lascia capire che si tratta di atteggiamenti diversi di fronte alla stessa visione delle cose. La stessa visione amara, disincantata della realtà può far ridere o piangere il filosofo”

Questo vale anche per il drammaturgo. Sentiamo Pirandello nel saggio su L’umorismo (1908)
Parte I,
VI Umoristi italiani
Su Machiavelli: “ Ed io pensavo alla grandezza nuda di questo Sommo nostro che non andò mai a vestirsi nel guardaroba della retorica, che come pochi comprese la forza delle cose, a cui la logica venne sempre dai fatti, che contro ogni sintesi confusa reagì con l’analisi più arguta e sottile, che ogni macchina ideale smontò con gli strumenti dell’esperienza e del discorso, che ogni esagerazione di forma distrusse col riso”


O pure Giordano Bruno che nel frontespizio del Candelajo si firma academico di nulla academia “e che per motto ebbe, come tutti sanno, in tristitia hilaris, in hilaritate tristis, che pare il motto dello stesso umorismo”

Parte seconda-
Essenza, caratteri e materia dell’umorismo 
II
Vediamo il don Chisciotte del Cervantes: “noi vorremmo ridere di tutto quanto c’è di comico nella rappresentazione di questo povero alienato (…) vorremmo ridere, ma il riso non viene alle labbra schietto e facile; sentiamo che c’è qualcosa che ce lo turba e ce l’ostacola;  è un senso di commiserazione turba il riso, di pena e anche di ammirazione, sì, perché se le eroiche avventure di questo povero hidalgo sono ridicolissime, pure non v’ha dubbio che egli nella sua ridicolaggine è veramente eroico”. Il riso diviene amaro. Una rappresentazione veramente umoristica suscita perplessità. Gli scritti umoristici contengono molte digressioni generati dalla riflessione. Ogni vero umorista non è soltanto poeta, è anche critico.
III
“La riflessione scompone l’immagine creata da un primo sentimento per far sorgere da questa scomposizione e presentarne un altro contrario (…) Come ho mostrato nel Sant’Ambrogio di Giusti, la riflessione inserendosi come un vischio nel primo sentimento del poeta, un sentimento di odio verso quei soldatacci, genera a poco a poco il  contrario del sentimento di prima”

  Si pensi alle amare risate  di Aristofane
L’uomo che cerca di ribellarsi invano al suo destino è come la lumaca che gettata nel fuoco sfrigola e pare ridere, invece muore. Così Atene muore nell’amara risata di Aristofane.

Torno a Cacciari che commenta l’affresco: “da qui l’inseparabilità delle due figure, come nell’affresco di Bramante (…) E’ democriteo, il riso albertiano? Gelasto, persona dell’Alberti nel Momus, non sta forse a dimostrarlo? Certo, il suo autore preferisce la maschera di Democrito a quella di Eraclito-come Montaigne (Saggi, I, 50)”. E come Seneca

Non conoscevo questa preferenza di Montaigne e ho consultato i Saggi cercando il passo di cui riferisco alcune parole per chi lo ignora: “Democrito ed Eraclito sono stati due filosofi, dei quali il primo, stimando vana e ridicola la condizione umana, si mostrava in pubblico solo con volto beffardo e ridente; Eraclito, avendo pietà e compassione di questa stessa nostra condizione, ne aveva il volto sempre rattristato e gli occhi pieni di lacrime
Alter
Ridebat quoties a limite moverat unum
Protuleratque pedem. Flebat contrarius alter[14]
Io preferisco l’umore del primo, non perché sia più piacevole ridere che piangere, ma perché è più sprezzante, e ci condanna più dell’altro”.
Montaigne procede ricordando Diogene il quale canzonando “il grande Alessandro, stimando gli uomini mosche o vesciche piene di vento, era giudice ben più aspro e pungente, e quindi più giusto, secondo me, di Timone, che fu soprannominato l’odiatore degli uomini”.

Di nuovo Cacciari: “Ma l’ironia, lo humor e anche il riso di Gelasto non hanno nulla dell’indifferenza sovrana per le vicissitudini dei miseri mortali che caratterizzano l’immagine di Democrito. Gelasto è imbarcato anche lui. Non c’è nessuna ostentazione della superiorità dell’ ‘ironista’ sulla sua materia, come invece sarà palese nell’Elogio erasmiano. In questo Alberti è assai più vicino alla malinconia e al pianto che pervadono le grandi opere dei Bosch e dei Bruegel di fronte allo spettacolo della nostra stultifera navis”.  




Concluso il commento alla tavola 6, torniamo alla p. 57 del testo.
“Camaleonte anche l’Alberti tragico (…) La maschera più cupamente pessimistica trova forse la sua ‘stazione’ nel secondo libro del Theogenius.

E’ un’opera in volgare come i quattro libri Della famiglia (1437-1441). Insegna a disprezzare i beni terreni soggetti alla fortuna  e a trovare in quel disprezzo congiunto all’esercizio della virtù, lo scudo contro tutti i colpi del destino e dell’umana malvagità.

L’uomo dunque fa parte, attivamente, della “cosmica vicissitudo
“Fra tutti gli esseri siamo noi gli infermissimi (…) è l’agitazione invincibile del nostro stesso animo, l’impotenza a stare che abita in noi, a risultarci fatale. E’ la nostra stessa natura a colpirci, poiché essa ci ha fatto “animale irrequieto e impazientissimo di suo stato e condizione”. Sempre mutiamo, senza mai mutare noi stessi. E tale inquietudine si trasforma necessariamente nell’incapacità di lasciare in pace (…) La sua violenza non è errore o vizio emendabile, ma espresssione della sua natura “Vitia erunt donec homines” (Tacito, Historiae, IV, 74)

Sono parole che fanno parte del discorso di Ceriale davanti a Trevĭri e ai Lingŏni. Si rivolge nel 69 ai popoli della Gallia belgica e celtica. C’è la tesi politica e spirituale della dominazione romana.
I Romani vogliono impedire l’avanzata di un nuovo Ariovisto. I Romani ai Galli hanno imposto iure victoriae, per diritto di vittoria, solo ciò che è necessario a mantenere la pace. Nam neque quies gentium sine armis, neque arma sine stipendiis, neque stipendia sine tributis haberi queunt (Hist. IV, 74). Se arriveranno Britanni o Germani, i tributi aumenteranno.
Cacciati i Romani (quod di prohibeant) rimarrebbe solo una guerra universale. Octingentorum annorum fortuna disciplinaque compages haec coaluit: quae con velli sine exitio convellentium non potestOctingentorum annorum fortuna disciplinaque compages haec coaluit: quae con velli sine exitio convellentium non potest”,  questa mole  si è consolidata con la fortuna e la disciplina di ottocento anni e non può essere abbattuta senza rovina di chi la abbatte..
Sono le parole di tutti gli imperialismi commenta Concetto Marchesi nel suo Tacito[15]

Così possiamo diventare lupi agli altri (il filologo sa che viene da Plauto l’homo homini lupus…)[16], volere asservire e soggiogare ogni essente, fare quasi del nostro ventre “pubblica sepoltura di tutte le cose”.
Dirà l’amarissimo porco incontrato dall’Asino machiavellico (Asino d’oro, che attraverso la sofferenza viene iniziato al duro sapere, non afflitto dalla ‘asinità’ bruniana): “Non basta quel che ’n terra si ricoglie, /ché voi entrate a l’Oceano in seno/ per potervi saziar de le sue spoglie” (L’Asino, VIII, vv. 100-102). La nostra natura è la vera matrigna, la sua ontologica stultitia che mai ti rende di alcuna natura contento né sazio”. Questa colpa è iscritta tragicamente nella costituzione del nostro esserci, fino a farci apparire gli infelicissimi tra tutti i viventi” (p. 58)

L’avidità senza fondo degli uomini
Leopardi in Il pensiero dominante  condanna l’ossessione dell’utile da parte della sua età "superba,/ che di vote speranze si nutrica,/vaga di ciance, e di virtù nemica;/stolta, che l'util chiede,/e inutile la vita/quindi più sempre divenir non vede"(vv. 59-64).
Ancora più duramente si esprime nei confronti delll’avidità del lucro  il poeta di Recanati nella Palinodia al Marchese Gino Capponi :" anzi coverte/fien di stragi l'Europa e l'altra riva/dell'atlantico mar...sempre che spinga/contrarie in campo le fraterne schiere/di pepe o di cannella o d'altro aroma/fatale cagione, o di melate canne,/o cagion qual si sia ch'ad auro torni"(vv. 61-67).

Nel III libro del poema di Lucrezio troviamo una prosopopea della natura la quale potrebbe chiedere al querulo ingordo di vita perché si lamenti. Se la vita ti è stata gradita perché non ti allontani come un commensale sazio (cur non ut plenus vitae convīva recedis/aequo animoque capis securam, stulte, quietem?, 938-939)
Se invece tutto ciò che hai goduto è perito e la vita ti è in odio (vitaque in offensa est) , perché vuoi indugiare?
Se un vecchio decrepito (grandior iam seniorque) lamenta più del giusto (amplius aequo) il destino di morte, la natura avrebbe ragione a gridare: “via le lacrime, ingordo (baratre) e frena le lagne- aufer abhinc lacrimas, baratre, et compisce querellas,” (III, 955). Hai compiuto la vita e il tuo corpo marcisce. Sereno arrenditi agli anni: è necessario (iam annis concede: necessest, 962)

Cfr. Marco Aurelio che vuole congedarsi dalla vita con gratitudine come un’oliva che una volta matura ( ejlaiva pevpeiroς genomevnh ) cade al suolo benedicendo la terra che l’ha prodotta e ringraziando l’albero che l’ha generata (IV, 48).



Torno a Cacciari (p. 58)“Il disincanto che svelle dalle radici, come in Machiavelli (“Tanto v’inganna il proprio vostro amore,/ch’altro ben non credete che sia/fuor de l’umana essenza e del valore”, (L’Asino, VIII, vv. 31-33), ogni possibile finalismo antropocentrico, che abbatte ogni boria o pesunzione, ha in se stesso, tuttavia, il contraccolpo.
Un’amicizia stellare lega Alberti a Leopardi anche in questo: quando ti sembra di esser giunto al fondo del pessimismo, proprio a quel punto devi scavare ancora; e allora forse vedrai fiorire la Ginestra”.
Da una stessa linfa possono maturare contrapposte possibilità.
Cfr. i dissoi; lovgoi e la logica aperta al contrasto dei Greci
L’assoluto pessimismo è irrealistico come l’ottimismo ad ogni costo. Rimane per lo meno la Virtus di volgere ai colpi della Fortuna   “il viso di lacrime asciutto” (L’Asino, III, vv. 85-87)”.

 Cfr. invece le Troiane con la consolazione delle lacrime e l’Elena di Euripide con la gioia addirittura delle lacrime.

Il Theogenius dell’Alberti insegna che le dissonanze si superano conoscendole e sopportandole.
“L’agitazione continua che sconvolge l’uomo “efferatissimo” agli altri e a se stesso è, a un tempo, necessaria radice del cogitare (…) Elimina le maschere, l’ipocrisia, il simulare e dissimulare con cui gli uomini reciprocamente si ingannano ed eliminerai  quelle ‘finzioni’ che sono le sue stesse opere più grandi, quasi in lotta con il tempo che tutto divora”.

Il tempo è il cormorano che divora nella prima scena di Love’s Labour’ s lost[17], Ferdinando re di Navarra definisce il tempo “cormorant devouring Time” (I, 1).

“Quella somma virtus , che si esprime nell’investigare sempre, nel ricercare instancabilmente le cose” presuppone l’incontentabilità del presente. Una virtus odissiaca e socratica:  Platone fa dire al suo maestro: oJ de; ajnexevtastoς bivoς ouj biwto;ς ajnqrwvpw/ (Apologia 38a), la vita senza indagine non è vivibile per l’uomo. 
Dioniso conferma: una volta uno rientrava
Incurabilis è l’uomo di questo dissidio  (…) Homo naturalis è questo-ma se è questo, ciò significa che nella vicissitudo che lo costituisce sussiste realmente anche la possibilità del cogitare, dell’operare, del produrre, non solo di denaturare la natura, ma di conoscerla e rappresentarla, non solo di essere peste all’altro, ma anche civis solidale con l’altro, riconoscente lui, nella polifonia della res publica”. (p. 59).
Non vivere da schiavo questa vicissitudo, né rimanere in preda alle tempeste della Fortuna, “invece stare desti, “mai partirsi dal Timone” (Alberti[18]) (…). Questa libertà è l’altra faccia del Necessario. Nessuno nell’umanesimo riconosce più di Alberti e Machiavelli la potenza della Fortuna. Senza Fortuna propizia neppure l’impero romano si sarebbe costituito e avrebbe potuto così a lungo durare. Proprio quello Stato che si tempra nella più dura disciplina innalza meravigliosi templi alla Fortuna”.

Per rispettare la disciplina dei Romani Tito Manlio Torquato giunse a far decapitare il proprio figliolo che l’aveva trasgredita
 Questo console durante la guerra contro i Latini (340-338 a. C.) condannò a morte il figlio che aveva osato combattere contro il suo ordine, di capo e di padre, dopo averlo accusato in questo modo:"tu, T. Manli, neque imperium consulare neque maiestatem patriam veritus, adversus edictum nostrum extra ordinem in hostem pugnasti, et,quantum in te fuit, disciplinam militarem, qua stetit ad hanc diem Romana res  solvisti " (Tito Livio, VIII, 7) tu, Tito Manlio, senza riguardo per il comando dei consoli e per l'autorità paterna, hai combattuto il nemico contro le nostre disposizioni, fuori dallo schieramento, e, per quanto è dipeso da te, hai dissolto la disciplina militare, sulla quale sino ad ora si è fondata la potenza romana.

Il vento che spinge le nostre vele, come nell’emblema di casa Rucellai, non è potenza che appartenga loro. Un drammatico timbro tacitiano domina le pagine sul nesso virtù –fortuna in Alberti e Machiavelli-del Tacito che sarà carissimo a Vico.

 Impiger mens quella dell’uomo, aveva detto Lucrezio (De rerum natura, V, v. 1452).
Sono parole che, in genitivo-impigrae mentis- fanno parte della conclusione de canto: l’uso e  l’esperienza dell’alacre mente ha insegnato l’impiego di  navi, coltivazione dei campi, mura, leggi, armi, strade, poi i vantaggi e tutti i raffinati piaceri della vita praemia, delicias quoque vitae funditus omnis (1450) e pure carmi, pitture, statue rifinite con arte
La ragione spingeva gli uomini in alto, finché con le arti raggiunsero la vetta suprema artibus ad summum donec venere cacumen ( 1457).

Trascrivo qui di seguito delle parole che Cacciari mette nella nota 11 di p. 60: “Da quando nel 1418 Poggio Bracciolni inviò al Niccoli  il manoscritto, ora perduto, del De rerum natura, il confronto con l’epicureismo lucreziano è diventato fattore imprescindibile del pensiero umanistico e rinascimentale. E ciò vale per lo stesso neoplatonismo, che con Ficino ‘tradusse’ la voluptas-libertas di Lucrezio in divina voluptas (già con i giovanili Commentariola in Lucretium e nel De voluptate). Anche nella definizione della ‘concordia’ tra platonismo e teologia cristiana potevano essere fatti rientrare motivi lucreziani, come, ad esempio, quello riguardante la non eternità o divinità del mondo (…) Il ruolo che giocherà Lucrezio, fin nello ‘stile’, nel pensiero del Bruno sarà ancora più determinante”. 

A proposito della insaziabilità umana, Lucrezio dà questa spiegazione: Gli uomini, credendo di sfuggire al terrore della morte, gonfiano gli averi col sangue civile (sanguine civili rem conflant III, 70), e raddoppiano avidi le ricchezze (divitiasque conduplicant avidi), accumulando strage su strage, godono crudeli dei tristi lutti fraterni-crudeles gaudent in tristi funere fratris- "et consanguineum mensas odere timentque " (De rerum natura , III, 73) e odiano e temono le mense dei consanguinei.


Torniamo alla impiger mens di Lucrezio (V, 1452) di p. 60: “Mente che può risolversi in mera incostanza, in una vana instabilità, preda della Fortuna e delle passioni, così come, all’opposto, immaginare e costruire le supreme misure del Sant’Andrea” dell’Alberti”
 A Mantova, costruzione iniziata nel 1472
“Sempre instancabile, sempre incapace di quiete. Plastes et fictor sia quando inscena il carnevale tragico grottesco del Momus, sia quando dà forma e organizza la propria esistenza, i propri nec-otia nel febbrile tumulto, nella competizione che segna la vita cittadina, e che in ogni momento può trasformarsi in guerra, in stasis”. (p. 61)

La stavsi" è la guerra civile che secondo Tucidide trasvaluta ogni valore, perfino quello delle parole. In un libro precedente Cacciari ha commentato il capitolo di Tucidide a proposito di questa che è la più crudele delle guerre. La guerra civile di corcira andò dal 427 al 425.
"Sinistro carnevale, mondo a rovescio, in cui è necessario lottare con ogni mezzo per superarsi e in cui nessuna neutralità è ammessa. Così appare, a Corcira, per la prima volta tra gli Elleni, la più feroce di tutte le guerre (Tucidide, III, 82-84). Il commento di Nietzsche (che riteneva autentico anche il cap. 84) rappresenta un illuminante rovesciamento del testo greco: ciò che in esso suonava come il macabro scatenarsi della più bassa filotimiva (III, 82, 8), diviene per Nietzsche espressione del fatto che l'"uomo superiore" non può essere trattenuto dal portare offesa, né dal logos né dal giuramento (o{rko"), che l'uomo superiore in tanto può dirsi tale, in quanto nulla di superiore a sé riconosce. L' a[risto" cui pensa Tucidide è, all'opposto, colui che rispetta il Nomos divino e rifugge perciò dalla stavsi"[19]. Ma il realismo tucidideo non separa in alcun modo, principialmente, stavsi" da povlemo" . Se consideriamo le due forme di guerra nel grande complesso dell'opera, esse si presentano indissolubilmente intrecciate. Così anche nella pagina appena citata: è povlemo" che eliminando l' eujporiva (la facilità a procacciarsi ciò che occorre) del tempo di pace, si fa violento maestro (bivaio" didavskalo") dell'animo dei molti, del plh'qo" , e getta la città in preda alla guerra civile (III, 82, 2-3). Pòlemos-e non si dà polis senza pòlemos, neppure nell'idea di Platone - è qui maestro di stavsi" . Davvero padre di tutto, allora, potremmo, 'ironicamente', aggiungere.
Ma pòlemos può generare stasis soltanto perché ha già in sé quella u{bri" che giunge alla sua 'perfezione' in quest'ultima. Il più freddo e sobrio discorso di guerra, il più calcolato, il più lontano da ogni "tovlmaajlovgisto" "[20], irragionevole audacia, sta sempre in 'tremendo dialogo' con la violenza devastante "finché la fuvsi" degli uomini resterà quella che è" (III, 82, 2)"[21].

Torniamo a La mente inquieta: “Un camaleonte l’animale uomo, sia quando inventa maschere per travestirsi e ingannare, che quando ‘ri-vela’ in forme sempre nuove, dietro facciate come quella di Palazzo Rucellai, i propri interessi, i propri affari e le proprie cure. Plasmare, fingere, bisogna sempre, se si vuole affrontare il mestiere che Leon Battista, come poi Machiavelli e lo stesso Guicciardini, sanno per personale esperienza essere il più faticoso di tutti: il vivere-e per affrontarlo non basterà industria, consiglio,  arte, saranno necessari mani, piedi e nervi”[22]. (p. 61)

Per quanto riguarda “un camaleonte l’animale uomo”, possiamo pensare ad Alcibiade, a Catilina e allo Sperelli di D’Annunzio che li imita
Plutarco scrive di Alcibiade che per accalappiare le persone era capace di imporsi trasformazioni più rapide del camaleonte ("ojxutevra"...tropa;" tou' camailevonto""), il quale infatti non è creatura altrettanto versatile in quanto non in grado di assumere il colore bianco, mentre per quest'uomo, che passava con uguale disinvoltura attraverso il bene e il male, non c'era niente di inimitabile né di non provato:"  jAlkibiavdh/ de; dia; crhstw'n ijovnti kai; ponhrw'n oJmoivw" oujde;n h\n ajmivmhton oujd j ajnepithvdeuton": a Sparta viveva da sportivo (gumnastikov"), si comportava da persona semplice e sobria (eujtelhv"), perfino austera (skuqrwpov"); in Ionia invece appariva raffinato (clidanov"),  gaudente (ejpiterphv"), indolente (rJav/qumo");  in Tracia si ubriacava (mequstikov") e andava a cavallo ( iJppastikov"); e quando frequentava il satrapo Tissaferne superava nel fasto  e nel lusso la magnificenza persiana ("uJperevballen o[gkw/ kai;  poluteleiva th;n Persikh;n megaloprevpeian"[23]). Insomma assumeva di volta in volta le forme e gli atteggiamenti più consoni a quelli cui voleva piacere, o per dirla con Cornelio Nepote era "temporibus callidissime serviens "[24] abilissimo nell'adattarsi alle circostanze.
Anche Montaigne mette in rilievo questo aspetto di Alcibiade:"Ho spesso notato con grande ammirazione la straordinaria facoltà di Alcibiade di adattarsi tanto facilmente a usanze così diverse, senza danno per la sua salute: oltrepassando ora la sontuosità e la pompa persiana, ora l'austerità e la frugalità spartana; così moderato a Sparta come dedito al piacere nella Ionia"[25].
Cicerone attribuisce a  Catilina nell'orazione Pro Caelio[26] aspetti del carattere simile a questo e ad altri  di Alcibiade.
Questa indole multiforme sapeva adeguarsi alle circostanze :" Illa vero, iudices, in illo homine admirabilia fuerunt, comprehendere multos amicitia, tueri obsequio, cum omnibus communicare quod habebat, servire temporibus suorum omnium pecunia, gratia, labore corporis, scelere etiam, si opus esset, et audacia, versare suam naturam et regere ad tempus atque huc et illuc torquere et flectere, cum tristibus severe, cum remissis iucunde, cum senibus graviter, cum iuventute comiter, cum facinerosis audaciter, cum libidinosis luxuriose, vivere " (Pro Caelio, 6,13), quei famosi aspetti invero, giudici, fecero stupire in quell'uomo: afferrare molti con l'amicizia e conservarli con la compiacenza, mettere in comune con tutti ciò che aveva, venire incontro alle circostanze critiche di tutti i suoi amici con il denaro, la sua influenza, la fatica corporale, e se ce n'era bisogno anche con il delitto e l'ardimento, modificare la sua indole e indirizzarla secondo le circostanze, volgerla e piegarla di qua e di là, vivere con gli austeri severamente, con i gioviali allegramente, con i vecchi seriamente, con i giovani benevolmente, con i criminali temerariamente, con i libidinosi dissolutamente.
Il protagonista del romanzo Il Piacere[27] può trovare un antenato in Alcibiade, soprattutto in quello della decadenza:"Il senso estetico aveva sostituito il senso morale. Ma codesto senso estetico appunto, sottilissimo e potentissimo e sempre attivo, gli manteneva nello spirito un certo equilibrio.... Gli uomini d'intelletto, educati al culto della Bellezza, conservano sempre, anche nelle peggiori depravazioni, una specie di ordine. La concezione della Bellezza è, dirò così, l'asse  del loro essere interiore, intorno al quale tutte le passioni gravitano"[28]. L'esteta dannunziano pensa di sè:"Io sono camaleontico , chimerico, incoerente, inconsistente. Qualunque mio sforzo verso l'unità riuscirà sempre vano. Bisogna omai ch'io mi rassegni. La mia legge è in una parola: NUNC . Sia fatta la volontà della legge"[29]. 

Alcibiade quindi anticipa Catilina, Sperelli, e anche l'esteta-seduttore di Kierkegaard , il seduttore sensuale ed estensivo, don Giovanni, "l'incarnazione della carne ovvero la spiritualizzazione della carne da parte dello spirito proprio della carne"[30] che vive di preda e ama "il casuale, l'accidentale", poiché "il sensuale è il momentaneo. Il sensuale cerca la soddisfazione istantanea, e quanto più è raffinato, tanto più sa trasformare l'istante del godimento in una piccola eternità"[31].

Torno a Cacciari: “Tutte le ‘ragioni del corpo’ dovranno allearsi a quelle della diligenza, della sollecitudine, della cura per navigare il fiume della Vita, sfidarne tempeste e naufragi (Fatum et fortuna)[32]” (…)
La pazienza che occorre nel navigare il fiume Bios è altrettanto impiger dell’impazienza di quelli che si affannano a sopravvivere trascinati dalla corrente. Virtus sarà costruire bonae artes come naviculae,  cui aggrapparsi, per giungere alla sponda ultima, ‘contenti’ soltanto di avere così bene vissuto” p. 62.

Molto frequenti sono le metafore nautiche nei classici greci e latini. Ne ricordo una relativa alla città di Tebe desolata dal mivasma che si rivela essere Edipo, il suo re ::"la città infatti, come anche tu stesso vedi,troppo/già ondeggia (saleuvei) e di sollevare il capo /dai gorghi del fluttuare insanguinato non è più capace" (Edipo re, vv.22-24).

I limiti della nostra libertà “non sono semplicemente quelli dell’universale Fato, bensì quelli che  derivano dal nostro intimo essere contraddizione: creatori e perturbatori, artefici e contraffattori, lupi gli uni agli altri e insieme ‘animali politici’, pronti perfino a “soffrire le fatiche della patria” (Alberti[33])”.

Al  nostro “essere contraddizione” si può aggiungere essere segni di contraddizione come Cristo[34]

Complexio oppositorum, da cui si origina il meglio e il pessimo del thauma che è l’uomo (…) Thauma, insomma, che occorre guardare e dipingere secondo la “dolce prospettiva”[35]. (p. 62)
Marzol 27
“Come messer Filippo ha insegnato. Ma all’interno di tale spazio palpita in tutta la sua concretezza il dramma di quella summa di opposti che è l’uomo  -e tale dramma occorre anche saper rendere secondo i suoi colori, le sue ombre., in tutta la gravità delle sue masse, dei suoi pesi. Questo vedrai, fermissima immagine, alla cappella Brancacci[36], o scolpito per sempre da Donatello sul volto dei suoi profeti” (p. 62).
Cacciari rimanda alle tavole 7-8 poste nell’ultima parte del suo libro
La tavola 7 riproduce un affresco di Masaccio: Distribuzione dei beni ai fedeli e morte di Anania . affresco, 1425-1428 circa, particolare. Firenze, Santa Maria del carmine, cappella Brancacci.
Il commento nota che l’atto di carità vi appare come un grande dovere, scevro da ogni sentimentalismo, compiuto da figure che sono “spazio concentrato” (Argan), grande architettura capace di sopportare immensi carichi, espressione di un’antica virtus, che qui rivive, nella città reale fatta dai suoi cittadini, quelli che Masaccio aveva ritratto volto per volto , “in infinito numero” (Vasari), sopra la porta che andava in convento (anche questo dipinto è andato distrutto) in occasione della loro partecipazione alla festa per la consacrazione del Carmine”.
Vasari: E’ un miracolo che Fiorenza”abbia prodotto in una medesima età Filippo, Donato, Lorenzo, Paolo Uccello e Masaccio eccellentissimo ciascuno nel genere suo”.
Tommaso era detto Masaccio “non perché  e’ fusse vizioso, essendo egli la bontà naturale, ma per la tanta trascurrataggine” Vasari il quale ne nette in risalto la naturalezza: “perché invero le cose fatte innanzi a lui si possono chiamare dipinte, e le sue vivaci e naturali, allato a quelle fatte dagli altri”

La tavola 8 mostra il Profeta Abacuc (detto lo Zuccone) di Donatello,  marmo, 1423-35, particolare. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo
Riferisco parte del commento: “Sono contemporanei alla cappella Brancacci i profeti Geremia e Abacuc di Donatello. Movimento e animazione, la manifestazione, cioè, in sembianze fisiche dell’agitazione interna della figura, travolge ogni tardo-gotica suavitas, si oppone alla misura ghibertiana , “fino alla terribilità” (Chastel) (…) Donatello resterà fedele a questa immagine dell’uomo : ciò che dona vita è la stessa energia che inquieta e non dà pace, che agita sempre corpo e pensiero , come il pathos che sconvolge le menadi ai piedi della croce sul pulpito di San Lorenzo. E’ questa energia a dover essere classicamente espressa; questo significa conoscere, sapere, in tutti i sensi, le opere dei classici (…) resta forse insuperata la violenza espressiva dello ‘Zuccone’, di questa figura cui Donato, mentre la lavorava, si rivolgeva dicendo: “favella, favella, che ti venga il cacasangue!” (Vasari).

Nell’XI canto dell’Odissea Alcinoo dice a Odisseo che ha morfh; ejpevwn, bellezza di parole kai; frevne~ ejsqlaiv e saggi pensieri e che il suo racconto è fatto con arte-ejpistavmeno"-, come quello di un aedo wJ" ajoidov" (vv. 367-368).

A proposito della necessità di “sapere, in tutti i sensi, le opere dei classici” cito l’incipit della Vita di Leon Battista Alberti architetto fiorentino di Giorgio Vasari: “Grandissima comodità arrecano le lettere universalmente a tutti quegli artefici che di quelle si dilettano, ma particolarmente agli scultori, pittori ed architetti, aprendo la via alle invenzioni di tutte le opere che si fanno; senza che non può essere il giudizio perfetto in una persona (abbia pur naturale a suo modo) la quale sia privata dell’accidentale, cioè della compagnia delle buone lettere; perché chi non sa che nel situare gli edifizi bisogna filosoficamente schifare la gravezza dei venti pestiferi, la insalubrità dell’aria, i puzzo e i vapori dell’acque crude e non salutifere? (…) sì perché l’arte col mezzo della scienza diventa molto più perfetta e più ricca, sì perché i consigli e gli scritti de’ dotti artefici hanno in sé maggior efficacia e credito, che le parole e l’opere di coloro che non sanno altro che un semplice esercizio, o bene o male che se lo facciano. E che queste cose siano vere, si vede manifestamente in Leon Battista Alberti, il quale, per avere atteso alla lingua latina e dato opera all’architettura, alla prospettiva, ed alla pittura, lasciò i suoi libri scritti di maniera (…) che egli abbia avanzato tutti coloro che  hanno avanzato lui con l’operare”.

Torniamo alla pagina 62 di La mente inquieta. “Vedrai nell’opera di quei sommi che sono davvero tutt’uno con l’opera che realizzano, pur sapendola peritura, e che mai fuggono da tale dolorosa coscienza. Pittori e filosofi tutti, come lo sarà ancora il protagonista del Candelaio bruniano”        
Cacciari prosegue scrivendo che “questo timbro tragico dell’Umanesimo albertiano” ha nel Petrarca del Secretum e di tante Epistulae la sua fonte prima” (p. 63)
La volontà albertiana è “consapevole quanto quella del Petrarca  della fragilità delle proprie intenzioni  quotiens  volui nec potui”, Secretum, I, 40), però manca della fede religiosa dell’Aretino, siccome non ha un Agostino a sorreggerla. E tuttavia uguale è il loro “desiderium vehemens surgendi” (Secretum, I, 34), e se l’anelito alla renovatio è inteso da Petrarca anzitutto come metanoia-conversio, neppure in Alberti manca la nostalgia per il colloquio dell’anima con sé sola, per la solitudine contemplativa (la sua figura nelle Disputationes camaldulenses[37] non è affatto un’invenzione. L’Agostino del Petrarca è quello del tormentato itinerario delle Confessioni  (…) Come nell’Alberti, l’uomo non può pervenire ad alcuno stato: “ si a stando status dicitur, nullus hic homini status est, sed fluxus et lapsusFamiliari XIX, 16)” (p. 64)
Cacciari associa queste parole ad alcune del Canto del destino di Iperione di Hölderlin “ Ma a noi non è dato in nessun luogo trovar pace”
“L’irreparabile tempus[38](…) che sembra aver travolto la stessa Roma, che pare produrre, più che mutatio, ruina, è nostro segno e carattere. Tempo è l’esserci stesso, che tutto muta e perturba, che non può in nessuna opera trovare quiete, insaziabile, mal-contento sempre, perfino nelle espressioni somme della propria potenza. Anche le nostre opere più ‘virtuose’ avranno, allora, il timbro dell’incompiutezza, del tentativo, dell’inizio” Noi siamo gli interroganti, nos interrogantes. “Chi interroga non dà risposta, non produce risultati, ma soltanto (…) una grande quantità di cominciamenti “tanta coeptorum moles” (Familiari XIX, 16, 5). Ma che di vera mole allora si tratti! Che l’opera appaia davvero un monumento alla nostra capacità di dare inizio, , di procedere sempre oltre, di interrogare ancora. Segno di inopia, certamente, ma anche di indomita volontà di inaccessa tentare (come Petrarca dice in una famosa lettera al Boccaccio, Familiari, XXII, 2, 21), ‘armandoci’ dei classici del passato proprio per essere in grado di affrontare la navigazione a noi destinata” (p. 64)
Eppure “per Petrarca la stessa grandezza del passato che egli venera è sempre anche vissuta come periculosum maxime, come energia capace di ‘sedurci’(…) da quella conversio integrale di tutto il nostro essere, cui il Cristo ci chiama” p.65) .
Del resto è compresa nel pensiero del Petrarca “l’idea che proprio il ‘ritorno’ al classico possa rivitalizzare , ‘ringiovanire’ la cristianità, o almeno frenarne la decadenza”.
“soltanto l’eloquenza dei Padri dispone, per Petrarca, dell’energia necessaria per convincere alla conversio. L’eloquenza dei Padri versus la verbositas degli scolastici, non solo dei detestati averroisti”
La forza di questa eloquenza non sta “nel costruire sillogismi. Ma nell’affermazione che amare vale più di ogni sapere” (p. 65)
Si può pensare a quanto afferma il personaggio Socrate nell’Alcibiade II di Platone.
“Vedi dunque quando dicevo che il possesso delle altre scienze se uno non possiede la scienza di quanto è ottimo (l'idea del Bene), di rado giova, mentre per lo più danneggia chi ce l'ha, non ti sembra che io parlavo dicendo quanto è sostanzialmente corretto?” 
Alcibiade  dà ragione a Socrate il quale aggiunge
“E chi possiede la cosiddetta conoscenza enciclopedica e politecnica , ma sia privo di questa scienza (del Bene), e venga spinto da ciascuna delle altre, non farà uso sostanzialmente di una grande tempesta senza un nocchiero, continuando a correre sul mare, non a lungo del resto? Sicché mi sembra che anche qui capiti a proposito quello che dice il poeta criticando uno che effettivamente sapeva molte cose ma le sapeva tutte male (Alcibiade II 147b)”
Amare soltanto può vincere la miseria della volontà che fa il male pur vedendo il bene”
“Non si supera l’angoscia che da tale miseria ci viene con il ragionamento, ma in forza di caritas, e a una  tale misura di amore non si perviene se non gratia adiuvante” (p. 66)
Un’ idea del genere oltre che in Paolo[39]  si trova  nel discorso finale del film di Chaplin The great dictator (1940): il barbiere, sosia di Hynkel-Hitler, scambiato per il grande dittatore deve parlare alla folla con parole  che legittimino e anzi esaltino la prepotenza del tiranno, presentato  come il futuro imperatore del mondo dal ministro della propaganda Garlitsch-Goebbels. Ebbene il piccolo grande uomo non rispetta la parte che gli hanno assegnato e dice di non volere comandare su nessuno, ma aiutare tutti. Poi continua così: “Our knowledge has made us cynical, our cleverness hard and unkind. We think to much and feel to little. More than machinery we need humanity. More than cleverness we need kindness and gentleness”, la nostra conoscenza ci ha resi cinici, la nostra intelligenza duri e scortesi. Noi pensiamo troppo e sentiamo troppo poco. Più che di macchinari abbiamo bisogno di umanità. Più che di intelligenza abbiamo bisogno di bontà gentilezza.

L’eloquenza dei padri ci ha comunicato tale principio con le parole più appassionate e appropriate, lo ha reso davvero suavis grazie alla copiosità delle invenzioni e immagini con cui lo ha espresso, e cioè grazie, in fondo, alla sua natura poetica.  L’Alberti non condivide questa fede nella predicazione dell’amore (…) e tuttavia affonda in quella del Petrarca la sua visione dell’inesorabile contrasto nell’anima tra posse e velle e dell’instancabile anelito della volontà (…) nel dar forma comunque al proprio esistere, per riuscire ad abitare, nonostante tutto, nella propria stessa inquietudine”.  Alberti  non crede “che l’in-sana natura umana possa giungere a scoprire un balsamo per le proprie ferite, ma a conoscerle sì. La sofferenza produce questo sapere, ed esso è segno del più alto grado di virtù cui sia possibile ambire. Tragicamente, anche il sapere genererà, poi, sofferenza”. Dunque  “i termini dell’assioma tragico classico, pathei mathos, possono essere in ogni istante invertiti” (p. 66). (maqei, paqo")  
I termini  sono associati e costitutivi del nostro essere.

E’ nella parodo dell’Agamennone di Eschilo che si trova questa espressione. Il concetto avrà un lunghissimo seguito nella letteratura europea.
Zeus ha posto la legge del tw`/ pavqei mavqo~ (Agamennone, 177)[40].
Goccia invece del sonno[41] davanti al cuore la pena che ricorda il male  (stavzei  d’ ajnq j u[pnou pro; kardiva~-mnhsiphvmwn povno~ , Agamennone,  179-180)  e anche a chi non vuole giunge l’essere saggio.
Arriva con violenza la grazia degli dèi (182).
Una voce contraria è quella di Cesare Pavese: “Non bastano le disgrazie a fare di un fesso una persona intelligente”[42].

Questo circolo è evitabile solo ignorando la nostra essenza, gettandoci nel fiume della Vita come rottami, serrando il nostro sguardo alla realtà e il nostro orecchio a quella voce che chiama dal fondo della coscienza a essere liberi, tanto da edificare la nostra dimora, entrare in colloquio con il classico che sfida il tempo, marcare attraverso questo colloquio con ‘l’immortale’ la vicissitudo che siamo. L’occhio emblema dell’Alberti rimane in-sanamente insonne di fronte allo ‘spettacolo’ dell’esistenza, nell’infinita varietà delle figure e maschere in cui essa si esprime, della follia che la scuote, senza la quale, tuttavia, neppure sarebbero mai nate le divine manie poetiche, poetico-profetiche e filosofiche” (p. 67).

Esistono forme di manìa più sagge della saggezza del mondo
 Socrate vuole dimostrare, a proposito della pazzia amorosa:"wj" ejp j eujtuciva/ th'/ megivsth/ para; qew'n hJ toiauvth maniva[43] devdotai" (Fedro, 245c) che tale follia è concessa dagli dèi per la nostra più grande fortuna.
Il filosofo nel Fedro sostiene che agli uomini i beni più grandi derivano da una mania data dagli dèi (244a): infatti la profetessa di Delfi, quella di Dodona e la Sibilla procurano benefici agli uomini quando si trovano in stato di mania, mentre in stato di senno non ne procurano alcuno. Gli antichi che hanno coniato i nomi hanno chiamato manikhv la più bella delle arti che prevede il futuro[44]. Sono stati i moderni, ajpeirokavlw~, con ignoranza del bello, che mettendoci dentro una tau
Platone assimila la follia erotica a quella religiosa:   nel Fedro   ricorda che il tema dell'irrazionalità della passione amorosa è stato già trattato da Saffo e Anacreonte, ed elenca quattro modi di essere fuori di sé: quello dei profeti come la Pizia di Delfi, quello dei fondatori di religione, quello dei poeti, e quello degli innamorati.

Il tema degli occhi

L’emblema albertiano dell’occhio alato e saettante (tav. 9) non può perciò essere letto attraverso le lenti di un Umanesimo-Humanismus e così ridotto a immagine dell’acutezza dello sguardo unita alla rapidità dell’ala” (p. 67)
La tavola 9 è divisa in due parti: 9a Matteo de’ Pasti, Medaglia di Leon Battista Alberti, bronzo, 1446-50, verso con occhio alato. Firenze, Museo del Bargello.  
 (9b) Leon Battista Alberti, L’occhio alato, emblema albertiano e il motto “Quid tum” , disegno 1450 circa. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms Magl. II IV 38, c. 119v.
Leggiamo il commento di Cacciari. “E’ Alberti stesso a dirci che gli Egizi usavano il segno dell’occhio per indicare il Dio e il geroglifico dell’avvoltoio per designare la paura. I due elementi vengono combinati nella Hypnerotomachia Poliphili[45] (ricchissima di riferimenti all’Alberti teorico dell’architettura) per significare “Deo naturae sacrifica”. Ma il topos dell’Occhio simbolo del sole, a sua volta manifestazione visibile del sommo Dio, fornisce forse la chiave per risolvere l’enigma albertiano? Certo, quello della vista è il più spirituale dei sensi. Certo, veloce come la luce vola l’occhio e raggiunge gli oggetti più lontani (“come l’occhio e il razzo del sole e la mente sono i più veloci moti che sieno”, dirà Leonardo). Ma se è anche nostro questo occhio, quid tum?  Quale pallida immagine dell’onnipotenza solare dell’Occhio infinito di Dio! Che cosa possiamo vedere realmente? Soltanto l’ombra dell’intelligibile, mai il vero in sé. E lo stesso ‘occhio della mente’ che rende possibili le operazioni dell’intellectus resterà sempre connesso a quello dei sensi: “oculus in carcere tenebrarum”, lo definirà Giordano Bruno, fornendo quasi un’interpretazione, a mio avviso, dell’Alberti, in quanto  occhio dell’intelletto in potenza, illuminato dal sole di quello agente, unico per tutti e unico immortale”.

Mi viene in mente il mito platonico della caverna e il sole che corrisponde nel visibile all’idea del Bene nell’intelligibile
Giuliano Augusto l'imperatore calunniato dai Cristiani con l'infamante epiteto di "Apostata" riassume questi elogi dell'antichità in termini neoplatonici nella orazione A Helios re  dedicata a Salustio. Questo "sermone natalizio" fu redatto alla fine del 362 d. C. per  celebrare il 25 dicembre, dies natalis Solis invicti . Elio  è visto come il signore del mondo intelligente e viene definito dio mediatore e potentissimo assai simile al Bene preesistente a tutte le cose. Giuliano cita  la Repubblica  di Platone dove (508c) si dice che il Sole è figlio del Bene ("tou' ajgaqou' e[kgonon") che il Bene generò simile a sè ("oJ;n tajgaqo;n ejgevnnhsen ajnavlogon eJautw'/") e ciò che è il Bene nel mondo intellegibile rispetto all'intelletto e agli intellegibili è Helios nel mondo visibile rispetto alla vista e alle cose visibili (5, 17-21).   L’Uno (e{n) o il Bene (tajgaqovn), come lo chiama Platone, ha rivelato da sé Elios dio potentissimo del tutto simile a sé. Quindi Elios viene identificato con Zeus e con Apollo (31)
Alla fine (44) Giuliano prega Elio, to;n basileva tw̃n o{lwn, di accordargli una vita virtuosa, una intelligenza più piena e una mente divina. E alla fine della vita di congiungersi a lui.

Virgilio, nella Georgica I (vv. 463-464), afferma la sincerità del sole nel dare segni:"Solem quis dicere falsum/audeat? ", il sole chi oserebbe chiamarlo falso?
Torniamo al testo di Cacciari (p. 67)

“L’emblema non contrasta con la venerabile tradizione che vede nell’occhio un dio tra le membra. Ma la inquieta e interroga. Quid tum? Che vedi dunque? A quale realtà può rivolgersi la tua luce?”.

Sulla maggiore spritualità dell’occhi rispetto agli altri organi corporei insiste T. Mann in La montagna incantata.
L’autore spiega, a ragione, che l'amore è suscitato e mantenuto soprattutto dall'attrazione del volto, e in questo degli occhi, siccome significativi del carattere della persona: "C' era stato uno spazio non più lungo di due palmi fra il suo viso e quello di lei, quel viso dalla forma strana eppure nota da tanto tempo, una forma che gli piaceva come null'altro al mondo, una forma esotica e piena di carattere...ciò che lo aveva colpito ancora maggiormente erano stati gli occhi, quegli occhi sottili, quegli occhi da Kirghiso dal taglio schiettamente affascinante, occhi d'un grigio azzurro o d'un azzurro grigio come i monti lontani, che, a volte, con un curioso sguardo di traverso non destinato certo a vedere, potevano oscurarsi, fondersi in una tinta velata notturna"[46].
Cfr. Properzio: Si  nescis, oculi sunt in amore duces "[47].

Lo sguardo “dipinge vera mente ciò che vede, ne comprende i rapporti. Non è visio Dei , ma pittura sì,  pittura che analizza e commisura, dolorosa e vera, della condizione umana” (p. 68)
L’occhio umano del resto non arriva a vedere tutto. E ci colleghiamo “al disincanto dell’Alberti. Tutto vedi, mio occhio, tutto? “Tutto”?! Soltanto sulla tua stessa realtà ti è stato concesso di volare. Sovra-umanarti non puoi; aspetta un poco e ascolterai ‘l’ultima’ parola di Montaigne (o è Momo che parla?): “e sul più alto trono del mondo non siamo seduti che nel nostro culo” (Saggi, III, 13). E trovi forse pace al colmo della tua potenza? Insonnia soltanto è il dono concessoti” (p. 68).
Si può pensare a quanto dice Riccardo II di Shakespeare: “
Il potere è un bene apparente
 Riccardo II[48] deposto da Bolingbroke che sarà Enrico IV espone “le tristi storie delle morti dei re”
For God’sake let us sit upon the ground per amor di Dio, sediamoci sulla terra
And tell sad (–lat. satur) stories of the death of kings:
How some have been deposed, some slain in war, uccisi in guerra
Some haunted by the ghosts they have deposed, ossessionati dai fantasmi di quelli che avevano deposto
Some poisoned by their wives, some sleeping kill’d,
All murdered (lat. mors). For within the hollow la vuota corona
 crown-corona-korwvnh- cornacchia e coronamento/
That rounds-rotundus- the mortal temples (lat. tempora) of a king
Keeps death his court; and there the antic sits, sedēre, e[zomai- siede  la beffarda, grottesca Scoffing his state and grinning at his pomp-pomphv invio, seguito- pompa seguito, processione, schernendo il suo stato e ghignando alla sua pompa[49]
Allowing-late latin. ad e locare-. him a breath, a little scene-scena-skhnhv-, concedenogli un breve respiro, una particina
To monarchize, be fear’d-lat. periculum, and kill with looks, fare il re, incutere timore fulminare con lo sguardo-
Infusing him with self and vain conceit
riempiendolo di sé e di vuote illusioni,
As if this flesh which walls-vallum palizzata- about our  life
Come se questa carne che cinge di mura lo spirito
Were brass impregnable; and humour’d-lat. umor- umorem umidità- thus,
Fosse bronzo indistruttibile e dopo averlo lusingato così
Comes at the last, and with a little (pin lat- pinna penna, ala, freccia)
Viene alla fine e con un piccolo spillo
bores(-lat. forare)- through his castle wall, and farewell king!
Perfora le mura e addio re!
Cover your heads, and mock not- L. muccare, soffiarsi il naso- flesh and blood
Copritevi le teste e non canzonate un impasto di carne e di sangue
With solemn reverence, throw away gettate via respect lat. ,respicio respectus -riguardo
Tradition, form, and ceremonious-lat cerimonia- duty; tradizione formalità e il dovere dell’etichetta
For you have but mistook me all this while, poiché mi avere frainteso per tutto questo tempo.
I live with bread, like you; feel want, vivo di pane come voi, sento desideri
Taste-( Late latin taxitare forma iterativa di taxare intensive di tangere)- grief-gravis-, need friends. Subjected-subiectus- thus ,assaporo il dolore ho bisogno di amici. Così asservito
How can you say to me I am a king?  (Riccardo II, III, 2, 155-177)

 Nelle Troiane di Euripide, Ecuba constata che il polu;~ o[gko~ ,  il grande vanto degli antenati era oujdevn, niente, era un gonfiore che si è dissolto.
“O grande vanto umiliato
Degli avi, come davvero eri un nulla!” (vv. 108-109)


“Che voluptas ti viene dal tuo essera alato? E, ancora più, ora che vedi ‘tutto’, sei giunto finalmente a vedere te stesso? O hai incontrato quella pupilla di un altro dove specchiarti, che Socrate invita Alcibiade a scoprire (Alcibiade Maggiore, 132 d-133c)?-p. 68

 Guardando nella pupilla di un’altra persona vedremo riflessi noi stessi, e mirando in Dio vedremo lo specchio più bello delle cose umane che tendono all’eccellenza dell’anima e così potremo vedere e conoscere meglio noi stessi
AL. 'AlhqÁ lšgeij.
Al. Dici il vero
     SW. 'OfqalmÕj ¥ra ÑfqalmÕn qeèmenoj, kaˆ ™mblšpwn
e„j toàto Óper bšltiston aÙtoà kaˆ ú Ðr´, oÛtwj ¨n aØtÕn
‡doi. 
So Dunque un occhio guardando un altro occhio, e osservando  la sua parte migliore con la quale lui stesso vede, in questo modo può vedere se stesso

     AL. Fa…netai.
AL. sembra
     SW. E„ dš g' e„j ¥llo tîn toà ¢nqrèpou blšpoi ½ ti
tîn Ôntwn, pl¾n e„j ™ke‹no ú toàto tugc£nei Ómoion, oÙk
Ôyetai ˜autÒn.
SO. Ma se guarda altra parte del corpo umano , o delle cose presenti, tranne ciò cui questo si trova a essere simile, non vedrà se stesso
     AL. 'AlhqÁ lšgeij.
Al. Dici il vero
     SW. 'OfqalmÕj ¥r' e„ mšllei „de‹n aØtÒn, e„j Ñfqal-
mÕn aÙtù bleptšon, kaˆ toà Ômmatoj e„j ™ke‹non tÕn tÒpon
™n ú tugc£nei ¹ Ñfqalmoà ¢ret¾ ™ggignomšnh· œsti d
toàtÒ pou Ôyij;
SO. Allora se un occhio vuole vedere se stesso, deve fissare un occhio, e dell’occhio il luogo dove si trova la virtù dell’occhio, e non è questa la vista?
     AL. OÛtwj.
Al. E’ così.
     SW. ’Ar' oân, ð f…le 'Alkibi£dh, kaˆ yuc¾ e„ mšllei
gnèsesqai aØt»n, e„j yuc¾n aÙtÍ bleptšon, kaˆ m£list'
e„j toàton aÙtÁj tÕn tÒpon ™n ú ™gg…gnetai ¹ yucÁj ¢ret»,
sof…a, kaˆ e„j ¥llo ú toàto tugc£nei Ómoion Ôn;
SO. Allora, Alcibiade, anche l’anima, se vuole conoscere se stessa, dovrà fissare l’anima e soprattutto questo luogo dell’anima nel quale sta la sua virtù, la sapienza, e fissare altro cui questa cosa sia simile?
     AL. ”Emoige doke‹, ð Sèkratej.
AL. Certo Socrate, così mi sembra
     SW. ”Ecomen oân e„pe‹n Óti ™stˆ tÁj yucÁj qeiÒteron
À toàto, perˆ Ö tÕ e„dšnai te kaˆ frone‹n ™stin;
SO. possiamo dunque dire che c’è una parte dell’anima più divina di questa  che riguarda  la conoscenza e il pensiero?
     AL. OÙk œcomen.
Al. Non possiamo
SW. Tù qeù ¥ra toàt' œoiken aÙtÁj, ka… tij e„j toàto
blšpwn kaˆ p©n tÕ qe‹on gnoÚj, qeÒn te kaˆ frÒnhsin,
oÛtw kaˆ ˜autÕn ¨n gno…h m£lista.
So. Dunque questa parte dell’anima è simile al divino , e osservandola e conoscendo il divino, dio e pensiero, così uno può conoscere anche se stesso nel modo migliore.
     AL. Fa…netai.
Al. Sembra
     <SW. ’Ar' oân, Óq' ésper k£toptr£ ™sti safšstera toà
™n tù Ñfqalmù ™nÒptrou kaˆ kaqarètera kaˆ lamprÒtera,
oÛtw kaˆ Ð qeÕj toà ™n tÍ ¹metšrv yucÍ belt…stou kaqa-
rèterÒn te kaˆ lamprÒteron tugc£nei Ôn;
So. Ma come lo specchio è più chiaro dello specchio del nostro occhio e più puro e luminoso, così anche il dio, sarà più chiaro e luminoso della parte migliore della nostra anima?
     AL. ”Eoikš ge, ð Sèkratej.
Al. Mi pare, Socrate
     SW. E„j tÕn qeÕn ¥ra blšpontej ™ke…nJ kall…stJ
™nÒptrJ crómeq' ¨n kaˆ tîn ¢nqrwp…nwn e„j t¾n yucÁj 
¢ret»n, kaˆ oÛtwj ¨n m£lista Ðrùmen kaˆ gignèskoimen
¹m©j aÙtoÚj.
So. Quindi mirando in dio, ci avvaliamo di quello specchio bellissimo, più bello anche delle cose umane relative alla virtù dell’anima, e così potremmo vedere e conoscere anche noi stessi nella maniera più esatta
     AL. Na….
Al. Sì
     SW. TÕ d gignèskein aØtÕn æmologoàmen swfrosÚnhn
ei\nai;
So. Ma non ci siamo trovati d’accordo che conoscere se stesso sia saggezza?
     AL. P£nu ge.
Al. Assolutamente (Alcibiade I, 1332b-133c)

Torniamo a Cacciari:” chi è colui che mi guarda dal dipinto in cui mi sono ritratto? Quis est? Quis es, tu? In quale spaventosa notte si penetra quando si fissa negli occhi un uomo? In quale mondo di fantasmagoriche ed enigmatiche rappresentazioni-si chiederà Hegel? Malinconia del simbolo dello Specchio e della grande ritrattistica del manierismo, che già qui si annuncia. Inquietudine dell’immagine, agitarsi nella inventio dell’emblema albertiano di diverse e dissonanti interrogazioni” (p. 69)

A proposito degli occhi e dei loro misteriosi significati aggiungo qualche altra citazione
Sant' Agostino nel Secretum ricorda a Francesco Petrarca[50]  la pericolosità dello sguardo femminile: se contemplare un bel corpo infiamma la lussuria, un leggero volger d'occhi  risveglia l'amore che si era assopito: "spectata corporis species, luxuriam incendit; levis oculorum flexus, amorem dormitantem excitat " ( III, 50).

Il tovpo" dell'amore ispirato solo o soprattutto dagli occhi si trova anche in Pene d'amore perdute  di Shakespeare[51]:  Biron in preda a un amore "pazzo come Aiace" cerca di resistergli per non finire ammazzato come una pecora, ma nella donna che lo ha stregato, Rosalina, c'è qualche cosa di irresistibile: "Oh, ma il suo occhio... per la luce del giorno, se non fosse per il suo occhio io non l'amerei; sì, per i suoi due occhi!... Dagli occhi delle donne io traggo questa dottrina: essi scintillano senza posa di un vero fuoco prometeico (From women’s eyes this doctrine I derive: they sparkle still the right Promethean fire),, e rappresentano i libri, le arti, le accademie che mostrano, contengono e alimentano il mondo intiero; senza di loro nessuno può eccellere in cosa alcuna" (IV, 3).   

“Espressione degli occhi. Perché si ha cura fino ab antico di chiudere gli occhi ai morti? Perché con gli occhi aperti farebbero un certo orrore. E questo orrore da che verrebbe? Non da altro che da un contrasto tra l’apparenza della vita, e l’apparenza e la sostanza della morte. Dunque la significazione degli occhi è tanta, ch’essi sono i rappresentanti della vita, e basterebbro a dare una sembianza di vita agli estinti” (Leopardi, Zibaldone, 2102).
Sicché l'amore  viene attivato e tenuto vivo soprattutto dagli occhi.

Proseguo con una una lettera di Guy de Maupassant (1850-1893) :" Vorrei, soprattutto, rivedere i vostri occhi, i vostri due occhi. Perché il nostro primo pensiero è sempre per gli occhi della donna che amiamo? Come ci ossessionano, come ci rendono felici, o infelici, questi piccoli enigmi chiari, impenetrabili e profondi, queste piccole macchie blu, nere o verdi, che senza cambiare forma né colore, esprimono, volta a volta, l'amore, l'indifferenza e l'odio, la dolcezza che placa ed il terrore che agghiaccia più di tante parole in eccesso e meglio dei gesti più espressivi"[52].

Gli occhi delle donne che ci attirano non sono solo delle cose belle  secondo Proust (1871-1922) insomma non sono soltanto materia:"Se pensassimo che gli occhi di una ragazza come quella non sono che una brillante rotella di mica, non saremmo così avidi di conoscere e di unire a noi la sua vita. Ma sentiamo che quel che riluce in quel disco pieno di riflessi non è dovuto unicamente alla sua composizione materiale; che sono, ignote a noi, le nere ombre delle idee che quell'essere si fa a proposito delle persone e dei luoghi che conosce…le ombre, anche, della casa in cui rientrerà, i progetti ch'essa fa o altri han fatti per lei; e soprattutto che è lei, con i suoi desideri, le sue simpatie, le sue repulsioni, la sua oscura e incessante volontà"[53].

Anche Svevo (1861-1928)  ha capito che l'attrazione più forte esercitata dalla donna deriva dal fulgore dei suoi occhi: "Quand'egli le parlò, essa levò rapidamente gli occhi e glieli rivolse sulla faccia così luminosi, che il mio povero principale ne fu proprio abbattuto…Non so se a questo mondo vi siano dei dotti che saprebbero dire perché il bellissimo occhio di Ada adunasse meno luce di quello di Carmen e fosse perciò un vero organo per guardare le cose e le persone e non per sbalordirle"[54].

Sentiamo di nuovo Thomas Mann“Rachele era bella e graziosa. Lo era in una maniera nello stesso tempo mansueta e birichina, che veniva dall’anima, ma si vedeva-e anche Giacobbe lo vedeva perché lei lo guardava-che spirito e volontà trasformati in senno e coraggio muliebri, erano le segrete sorgenti che alimentavano quella grazia; tanto espressiva era la sua persona, tanto aperta e pronta alla vita nella fermezza dello sguardo…la cosa più bella e graziosa era il suo modo di guardare, era lo sguardo dei suoi occhi neri, dal taglio lievemente obliquo, uno sguardo che la miopia stranamente trasfigurava e addolciva, in cui, lo diciamo senza esagerazione, la natura aveva raccolto tutte le attrattive che essa può dare a uno sguardo umano: una notte profonda, liquida, mite, dolcissima, una notte eloquente, piena di serietà e di ironia, uno sguardo che Giacobbe non aveva o credeva di non avere ancora mai visto…Era giunto alla meta, e la fanciulla con gli occhi pieni di dolce oscurità che pronunciava il nome di suo padre lontano era la figlia del fratello[55] di sua madre[56][57]

Gli occhi sono comunque legati all'amore e al sesso
Gli occhi che Edipo si colpisce da solo sono, secondo Freud, il simbolo dei genitali:"l'accecamento con cui Edipo si punisce dopo aver scoperto il proprio crimine è, a quel che testimoniano i sogni, un sostituto simbolico dell'evirazione"[58]. "Si deve tenere presente che, nella mitologia classica, gli occhi presentano spesso un legame con l'amore e con la sessualità, e in particolare con i genitali maschili: numerose sono le rappresentazioni vascolari di falli con occhi. Forse il gesto dell'autoaccecamento di Edipo racchiude anche un significato di simbolica castrazione, di autopunizione per i delitti sessuali commessi. Infliggendo una punizione ai suoi occhi, Edipo punisce la parte del suo corpo che si è macchiata di colpa nei confronti della madre"[59].

Torniamo a Cacciari: “Lezione antidogmatica, skepsis autentica, che ancora potrebbe trovare in una rilettura del Petrarca la propria fonte. Troppo spesso se ne è interpretato il pensiero come un semplice ‘rigetto’ di scienza e filosofia rigorose’” (p. 69) . Cacciari ricorda la Senile da Venezia (V, 2)  nella quale Petrarca narra del suo incontro polemici “con uno dei tanti intellettuali padovani averroisti, teologi e religiosi solo per l’abito, ma pronti a ‘latrare’ in privato “contra Christum et coelestem Christi doctrinam”. Costui disprezza la fede del poeta e arriva a infamare Paolo quale “seminator verborum et insanus”. Averroè è di gran lunga superiore “tuis his nugatoribus”! E Petrarca lo caccia con sdegno. Cacciari se chiede si si tratti di un “atteggiamento antiscientifico, funzionale all’esaltazione della poesia” (p. 69)
Una filosofia ridotta a logica arriva a dire poco su ciò che è specificamente umano.
I maestri Stoici Zenone, Cleante e Crisippo consideravano la logica solo il muro del giardino, la fisica erano le piante e l’etica i frutti.
Del resto un’etica meramente intellettuale non può suscitare amore per la virtù né muovere ad essa. “Non vi è felicità nella mera coerenza dell’agire a imperativi razionali (…) La critica all’intellettualismo dell’etica classica nelle sue varie espressioni, fermenterà lungo tutto il pensiero dell’umanesimo, i quella sua direzione critica, antidogmatica, che ne fa un’alba tutt’altro che incompiuta nel pensiero moderno ” (p. 70)
Io penso all’antiintellettualismo che va da Eraclito alle tragedie, in particolare le tragedie di Sofocle e le Baccanti di Euripide,  e per i moderni, in particolare Svevo e Musil.

“Un’etica inellettualistica non può corrispondere al bisogno supremo dell’esserci umano: la felicità. Essa fallisce, cioè, nel suo stesso dichiarato obiettivo: quello dell’eudaimonia” (p. 70)

Eujdaimoniva è un buon rapporto con il proprio demone, con il proprio destino-carattere
"Poiché la felicità alla sua antica fonte era eudaimonia, cioè un daimon contento, soltanto un daimon che riceve ciò che gli spetta può trasmettere un effetto di felicità all'anima"[60].

“E qui di nuovo filologia e filosofia si sposano.  Valla si interroga nel De vero bono su come tradurre l’Agathon , il sommo mathema per Platone?”

Mevgiston mavqhma, il massimo oggetto di scienza è l'idea del Bene. cfr.Platone, Repubblica, 505a:"hJ tou' ajgaqou' ijdeva mevgiston mavqhma".

“Se il bene deve essere sommo, non potrà intendersi che nella forma di un perfetto ’indiarsi’, di una compiuta omoiosis theoí. Felicità allora non potrà trovarsi che in Deo”. (p. 70)

 Platone consiglia  l’assimilazione a Dio  (oJmoivwsiς qew' ,  Teeteto (176b). 

Sulla eudaimonia sentiamo anche dei versi della prima srofe della   parodo delle Baccanti di Euripide-
Str a. O beato colui che  va d’accordo con se stesso w\  mavkar, o{sti" eujdaivmwn-72
conoscendo i misteri degli dèi,
santifica la vita e
entra nel tiaso con l’anima,                                                                              75
baccheggiando nei monti
con sacre purificazioni,
e celebrando secondo il rito
le orge della grande madre Cibele
alto scuotendo il tirso,                                                                                       80
e incoronato di edera
venera Dioniso.

Del resto  “Felicità è impossibile alla finitezza mortale”. (p. 70)

Allora di nuovo Euripide, con questi versi della Medea: “
Tra i mortali infatti non c'è nessun uomo che sia felice (ejdaivmwn ajnhvr),
quando passa un'ondata di prosperità, uno può diventare
 più fortunato di un altro (eujtucevstero~ a[llou), ma felice nessuno (eujdaivmwn d  j a]n ouj) (vv.1228- 1230)
La felicità dunque è un assaggio, è passeggera.

“La voluptas propriamente umana (voluptas,  e non “turpis voluptas” , spiegherà Ficino annotando il commento all’Etica Nicomachea di Donato)
sta nell’inquisitio, nel godimento per l’apprendere. L’indagare, lo scoprire, nel piacere che viene dal saper fare opere che soddisfano intelletto e sensi”.

Seneca difende Epicuro dalla taccia di propugnare una turpis voluptas e vuole togliere al filosofo greco Epicuro tale reputazione, Nel De vita beata (13) dice che virtus e voluptas sono inconvenientia, inconciliabili. L’uomo effusus in voluptates,  ructabundus semper atque ebrius, dà ai suoi vizi il titolo di virtù, e si autorizza con Epicuro. Ma la voluptas di Epicuro era sobria ac sicca e usurpa il nome di epicureo chi vola al richiamo di quel nome cercando un patrocinio e una copertura per le loro libidini quaerentes libidinibus suis patrocinium aliquod ac velamentum.  Dunque la voluptatis laudatio è perniciosa, ma questa non si trova in Epicuro il quale prescrive norme rette e anche severe (recta et tristia).e il suo piacere è riportato a una piccola ed esile misura voluptas enim illa ad parvum et exile revocatur ed egli impone al piacere la medesima legge che noi diamo alla virtù: iubet illam parere naturae , ordina alla voluptas di obbedire alla natura e ciò che basta alla natura è troppo poco per la lussuria.
La setta di Epicuro male audit, infamis est, et immerito, è malfamata a torto.

  Del resto “si tratterà sempre anche di un piacere sensibile. La voluptas non è disincarnabile”
“Non l’auctoritas ci soccorre, ma l’insaziata curiositas (da cura!), l’osservazione instancabile della realtà, senza ‘idealizzarrne’ alcun aspetto.
Fondamentale già in Odisseo è della curiosità , notata da Apuleio che fa di Ulisse una prefigurazione del suo Lucio, il protagonista delle Metamorfosi :" Nec ullum uspiam cruciabilis vitae solacium aderat, nisi quod ingenita mihi curiositate recreabar (...)  Nec immerito priscae poeticae divinus auctor apud Graios summae prudentiae virum monstrare cupiens multarum civitatium obitu et variorum populorum cognitu summas adeptum virtutes cecinit " (IX, 13), né vi era da qualche parte alcun conforto di quella vita tribolata se non il fatto che mi sollevavo con la mia innata curiosità (...) e non a torto quel divino creatore dell'antica poesia dei Greci volendo raffigurare un uomo di somma saggezza, narrò che egli raggiunse i sommi valori visitando molte città e conoscendo popoli diversi.

‘L’ occhio’ dell’Alberti introduce a quello leonardesco, alla sua “bramosa voglia” di ficcarsi nell’ignoto, di penetrare nella “mirabil necessità” che tutto anima e tutto collega, nella ‘caverna’ del mondo, della “artifiziosa natura”. Potrebbe essere, io credo, l’occhio del più giovane dei ‘tre filosofi’ del Giorgione, fiducioso della propria forza, fisso di fronte alla caverna-ingens sylva, pronto a esplorarla e rappresentarla: abissi di ignoto, sì, gli si presentano dinanzi-ma nulla di inconoscibile (tav. 10)” p. 72
Vediamo allora la tavola 10 che riproduce Giorgione, I tre filosofi, olio su tela, 1506-1508, Vienna Kunsthistoriches Museum.
“Dall’humus fertilissimo veneziano, in cui le correnti neoplatoniche dal più deciso timbro ermetico ed esoterico si intrecciano con radicali presenze averroistiche, in particolare come noto a Padova, sorge e si afferma la presenza non solo artistica, ma intellettuale del Giorgione. Epoche della civiltà, cioè del sapere e della scienza, i Tre, disposti su gradi diversi, fino alla più giovane, fiore dell’intero sviluppo (altro che ‘apprendista’, come vaneggia qualcuno!) Molto rimane di enigmatico nella grande opera, ma è del tutto certo che debba essere interpretata nel senso indicato da Bruno Nardi nel 1955 (I tre filosofi del Giorgione e Postilla giorgionesca, ora in ID, Saggi sulla cultura veneta, Padova 1971).
Il gran vecchio a destra (Tolomeo (o Pitagora?); al centro un esponente della grande astronomia-astrologia araba (mediatrice tra quella classico-antica e la nostra-e, terzo, chi se non Copernico, o uno che con lui ‘sale’, mentre gli altri tramontano, intento a considerare con nuovi strumenti e nuova, ben fondata, fiducia, il cielo che la luce dell’alba va dischiudendo (tuttavia gli resta oscura e minacciosa di fronte anche l’ingens sylva della natura –materia-mater- dunque non solo matematico, come Bruno rimprovererà a Copernico di essere stato?)    Quale messaggio? Che l’astronomia matematica soltanto può esprimere la verità del cosmo?  (…) L’astrologia andrebbe dunque bandita? Difficile affermarlo. Il contrasto luce-tenebra domina il grande capolavoro, impedendoci di ignorare la sua stretta affinità con quel ‘mito solare’ di chiara ascendenza neoplatonica, che costituisce la imprescindibile filosofia alla base della rivoluzione della scienza astronomica (e. Garin, La rivoluzione copernicana e il mito solare)”.
  
Torniamo a p. 72
“Inquieta la natura, energia in ogni suo atomo, e tuttavia sempre in moto, in perenne trasformazione-dove prima era roccia, ora è mare, dove montagna pianura, dove acqua terra-, inquieto l’occhio che vuole penetrarla. Se non lo fosse, nulla avrebbe in comune con il suo oggetto e nessuna relazione potrebbe prodursi. Le forme con cui l’occhio di Leonardo comprende la natura sono quelle con cui Dio stesso crea “numero, pondere et mensura” (Sap. 11, 20); la Sua scienza non può essere letta da chi non sia ‘matematico’; e tuttavia quella “divina proporzione” che egli apprende dal grande Luca Pacioli[61], del quale illustrerà mirabilmente l’opera, affonda le sue radici nel De pictura (Alberti, 1435) , è parente strettissima del De re aedificatoria (Alberti, 1450), riprende quel pro veritate laborare, che  è il motto della Dialectica del Valla, contemporanea delle prime, e forse più drammatiche opere albertiane. Verità effettuale, non rivelata. Verità semper indaganda da philo-sophia e philo-logia  indissolubilmente unite (…) E da un tale thaumazein, da una tale tremenda meraviglia, si rianima anche sempre il senso religioso dell’esistere, fino ad assumere timbri apocalittici: “nulla rimarrà sulla terra che non sia tormentato o distrutto”, “o terra che cosa aspetti a spalancarti e precipitare gli uomini nella profonda apertura dei tuoi abissi?” (tav. 11)
La tavola 11 contiene due riproduzioni: 11a Leonardo da Vinci, Studi astronomici, penna e inchiostro su carta, 1504-1508, particolare. Collezione privata, codice Leicester 8già codice Hammer), c. 23.
  11b Leonardo da Vinci, Studio per la battaglia di Anghiari con scontro di fanti e cavalieri, penna e inchiostro su carta, 1504-506, Venezia, Gallerie dell’Accademia, Gabinetto dei disegni e delle stampe.
Leggiamo il commento: “Hobstinato rigore il pittore nel suo operare vuole riunite in sé  geometria e dinamica, geologia e psicologia, trova il suo massimo scoglio nella rappresentazione non tanto del movimento, quanto dell’intersecarsi , del compenetrarsi e confondersi delle figure. Come esprimere prospetticamente-geometricamente la qualità della natura e dei suoi fenomeni, che raggiunge il suo apice nelle grandi catastrofi, nelle inondazioni, nei turbini, nello scroscio delle acque, così come nelle battaglie, nella furiosissima pazzia della guerra: questo il problema, questa la sfida”.

Ecco come Lucrezio evidenzia questa furiosissima pazzia
La storia delle arti belliche  mette in rilievo il carattere perverso della guerra la quale uccide non solo i nemici ma anche gli amici.
Prima combatterono a cavallo, poi sulle bighe, poi i carri falcati falciferi currus (De rerum natura, V, 1301)
la funesta discordia produsse una cosa dall’altra
Sic aliud ex alio peperit discordia tristis (1305) e inventò ordigni sempre nuovi per accrescere gli orrori della guerra.
Scagliarono anche tori, leoni e cinghiali.
I leoni sconvolgevano tutte le schiere senza distinzione.
Et validos partim prae se misere leones
Cum doctoribus armatis saevisque magistris
Qui moderarier his possent vinclisque tenere
Nequiquam, quoniam permixta caede calentes
Turbabant saevi nullo discrimine turmas
terrificas capitum quatientes undique cristas (1310-1315)
Le leonesse avventavano i corpi infuriati a salti da ogni parte
irritata leae iaciebant corpora saltu
Undique et adversum venientibus ora petebant (1318-9) assalivano al volto
Mentre altri li dilaniavano da tergo
morsibus adfixae validis atque unguibus uncis (1322)
avvinghiandosi con morsi forti e artigli adunchi
I tori sbalzavano via i conduttori poi  incornavano dal basso i cavalli,
i cinghiali con forti zanne straziavano anche gli alleati
et validis socios caedebant dentibus apri (1326)
e facevano strage di fanti e di cavalieri.
Anche la guerra dunque fa parte dell’irrazionalità umana
Non si fanno queste battaglie tanto con la speranza di vincere
Sed facere id non tam vincendi spe voluerunt-
quam dare quod gemerent hostes, ipsique perire
qui numero diffidebant armisque vacabant” (1347-8) mancavano di armi

Fromm assimila il genocidio di Cartagine perpetrato dai Romani ad altri scempi commessi dai vincitori nei confronti dell’umanità: “The history of civilization, from the destruction of Carthage and Jerusalem to the destruction of Dresden, Hiroshima, and the people, soil, and trees of Vietnam, is a tragic record of sadism and destructiveness” (The anatomy of human destructiveness, p. 192), la storia della “civiltà”  dalla distruzione di Cartagine e Gerusalemme, alla distruzione di Dresda, Hiroshima, e del popolo, del suolo, degli alberi del Vietnam, è un documento tragico di sadismo e distruttività.

Lo studio per la Battaglia di Anghiari di Leonardo può rendere con le figure disegnate le parole di Lucrezio
E torniamo al commento di Cacciari: “Come dominare, cioè, col numero la complessità dei fenomeni, come ritmarne la vita, anima e corpo indissolubilmente uniti. Visione ancora ‘qualitativa’ della natura? Ma niente affatto estranea a mostrarne il ‘linguaggio matematico’ (…) con Leonardo il neoplatonismo fiorentino perde i suoi tratti più marcatamente ermetici e astrologici (evoluzione del tutto analoga a quella di Pico), non per essere dimenticato, ma, anzi, per assumere nuovo valore all’interno della visione di una Vita sempre in-forma, anche là dove gli elementi appaiono massimamente dis-cordi. Armonia che ha nel concerto del cielo stellato e del sole al suo centro-armonia che solo l’astronomo può legittimamente affermare di conoscere e che lui solo può disegnare-la propria rivelazione”.
Visto il commento alla tavola 11, sentiamo la conclusione del Capitolo quarto: “Scienza, misura e senso tragico dell’esistenza, si fondono in questi autori, nella ‘catena’ che essi formano; non una vaga Stimmung, ma una filosofia li accomuna, che cerca di costruire un logos capace di guardare al “carattere enigmatico, temibile, distruttivo, che si cala nel fondo dell’essere” con il rigore e la potenza della costruzione prospettica” (p. 73)  


 




[1] e[fexi"-pretesto, scusa- o sospensione di giudizio- forse pensava a e{xi", abilità
[2] L’anticristo, 52
[3] 217 ca-145 a. C.
[4]  Schol. B a Z 201.
[5] 35 ca-95 ca d. C.
[6] 1798-1837.
[7] Institutio oratoria, X, 2, 24-26.
[8]Zibaldone , 2185-2186.
[9] Dalla commedia antica ateniese
[10] Ricordi, 18. La redazione definitiva dei Ricordi è del 1530.
[11] Ricordi, 6.
[12] Cioè nulla data la povertà di diogene ndr.
[13] L’aggressività umana. Anche questo motivo è ben presente nel Momus albertiano e ha anzi un suo rilievo molto particolare verso la fine del terzo libro, là dove vediamo il filosofo Democrito intento a sezionare un granchio per scoprirvi il luogo dove abbia sede, come s’esprime l’Alberti stesso, «il male originario degli esseri viventi», vale a dire quell’«iracundia» produttrice di «tanti sommovimenti e tanti ardori che, bruciando l’intelletto umano, sconvolgono e distruggono ogni forma di razionalità.

[14] L’ultima parola di un verso  e i due successivi (27-29) della Satira X di Giovenale, citati a memoria non precisissimamente
[15] Milano Messina, 1944, p. 136

[16] Lupus est homo homini, non homo, quom qualis sit non novit” (Asinaria, 495), quando non si sa di che tipo sia, dice un mercante. Contro questa sentenza abbiamo la menandrea a[nqrwpo" ajnqrwvpw/ qeov" e Cecilio Stazio (230-167 a. C):  homo homini deus si suum officium sciat” (Plocium, fr. 265 Ribbeck
[17] Del 1594-1595.
[18] I libri della famiglia, in Opere volgari, a cura di C. Grayson, Bari 1960-73vol I, p.
[19] Anche Tucidide, dunque, come già Erodoto, riconosce ancora il novmo" basileuv". Cfr. V. Ehrenberg, Sofocle e Pericle, Brescia, 1959, che affronta la questione dal  punto di vista della 'legge non scritta' dominante l'Antigone.
[20] :"Kai; th;n eijwqui'an ajxivwsin   tw`n ojnomavtwn ej" ta; e[rga ajnthvllaxan th'/ dikaiwvsei. Tovlma me;n ga;r ajlovgisto" ajndreiva filevtairo" ejnomivsqh" (III, 82, 4), e cambiarono arbitrariamente l'usuale valore delle parole in rapporto ai fatti. Infatti l'audacia irrazionale fu considerata coraggio devoto ai compagni di partito (ndr) 

[21] M. Cacciari, Geofilosofia dell'Europa, pp. 42-43.
[22] Refrain, quasi, dei Libri della famiglia. “Siendo ogni vita (…) grieve e laboriosa”, anzi, non trovandosi “niuna cosa (…) più faticosa del vivere”, occorrerà affrontarla “colle mani e co’ piedi, con tutti e’ nervi, con ogni industria e consiglio”
[23]Plutarco, Vita di Alcibiade,  23, 4- 5.
[24]Liber de excellentibus ducibus exterarum gentium, Alcibiades ,   1, 4.
[25] Montaigne, Saggi, p. 221.
[26] Del 56 a. C.
[27] Del 1889.
[28]D'Annunzio, Il Piacere , pp. 42-43.
[29]D'Annunzio, Il Piacere , p. 278.
[30] S. Kierkegaard, Enten-Eller (del 1843), Tomo Primo, p. 158.
[31]S. Kierkegaard, Enten-Eller , Tomo Quarto trad. it. Adelphi, Milano, 1981, p. 40..
[32] Per le Intercenales disponiamo ora dell’eccellente edizione di F. Bacchelli e L. D’Ascia (a cura di), “Delusione” e “Invenzione” nelle intercenali di Leon Battista Alberti, Bologna 2003, che ne hanno steso anche un’ampia e importante introduzione,
[33] Cfr. L A, Alberti I libri della famiglia, in  Opere volgari cit. p. 183
[34] "Ecce positus est hic in ruinam multorum in Israel et in signum cui contradicetur (...) ut revelentur ex multis cordibus cogitationes".  Nuovo Testamento (Luca, 2, 34)


[35] “Paulo stava nello scrittoio per trovar i termini della prospettiva, e che quando ella (moglie) lo chiamava a dormire, egli le diceva: “Oh che dolce cosa è questa prospettiva!”.
Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri (1568)
Paolo Uccello, Battaglia di San Romano, 1440

[36] Di santa Maria del carmine a Firenze ndr.
[37] Le Disputationes sono un trattato in forma di dialogo di contenuto filosofico, in cui il Landino tende a superare la dimensione grammaticale dell'analisi dei testi letterari, e in particolare dell'Eneide, per affrontare, anche attraverso l'analisi allegorica del testo virgiliano, la questione del rapporto tra vita attiva e vita contemplativa e della possibilità della felicità per l'uomo. Protagonisti del dialogo, ambientato nell'estate del 1468 presso il monastero di Camaldoli, sono lo stesso Landino, suo fratello Piero, Giuliano e Lorenzo de' Medici, Alamanno Rinuccini, Pietro e Donato Acciaiuoli, Leon Battista Alberti, Marsilio Ficino e altri che, durante quattro giorni di conversazioni, corrispondenti ai quattro libri in cui è divisa l'opera, trattano del rapporto tra vita attiva e vita contemplativa, della questione della felicità (de summo bono) e dell'illustrazione di allegorie virgiliane utili a meglio definire la questione del rapporto tra vita attiva e vita contemplativa. Al termine della composizione, le Disputationes Camaldulenses furono presentate nell'esemplare di dedica (Biblioteca apost. Vaticana, Urb. lat., 508) a Federico da Montefeltro, che inviò al Landino una lettera di ringraziamento, mentre l'editio princeps fu pubblicata probabilmente nel 1480 a Firenze per Niccolò della Magna; precedente al 1481 è la traduzione di Andrea Cambini, che non ci è pervenuta. L'opera fu accolta piuttosto freddamente dagli ambienti vicini al Landino e di ciò è testimonianza una lettera del Ficino a Bartolomeo Scala (Lettere, I, n. 119).   
Cristoforo Landino, Umanista (n. Firenze 1424 - m. nel Casentino 1498). Lettore di poesia e oratoria nello Studio dal 1458, dal 1467 fu cancelliere di parte guelfa, poi scrittore di lettere pubbliche presso la Signoria. Imbevuto di neoplatonismo, la sua opera maggiore sono le Disputationes camaldulenses.

[38] Cfr. Virgilio, Georgica III, 284
[39] (:" jEa;n tai'" glwvssai" tw'n ajnqrwvpwn lalw' kai; tw'n ajggevlwn, ajgavphn de; mh; e[cw, gevgona calko;" hjcw'n h] kuvmbalon ajlalavzon". Paolo  I Lettera ai Corinzi:  13, 1)

(Paolo I Lettera  Ai  Corinzi, 3, 18): “si quis videtur sapiens esse inter vos in hoc saeculo, stultus fiat, ut sit sapiens, Sapientia enim huius mundi stultitia est apud Deum   jH ga;r sofiva tou kovsmou touvtou mwriva para; tw/`` qew/`/ ejstin


[40] Il concetto diventerà topico.. Cfr., per esempio, Cfr. il Creso di Erodotro pavqhmata maqhvmata (I, 207)

[41] Il tiranno non dorme. Cfr., p. e. Edipo e Macbeth.
[42] Il mestiere di vivere, 2 novembre 1938.
[43] C'è da notare che maivnomai, "sono pazzo", maniva, "follia" e mavnti" , profeta, hanno la radice comune man(t) -/mhn-.
[44] La mantica.
[45] Hypnerotomachia Poliphili (ipnerotomàkia polìfili), letteralmente "Combattimento amoroso di Polifilo in sogno", è un romanzo allegorico, stampato a Venezia da Aldo Manuzio il Vecchio nel dicembre 1499, con 169 illustrazioni xilografiche. Il testo è stato attribuito a diversi autori (tra cui, oltre allo stesso tipografo Aldo Manuzio, a Leon Battista Alberti, a Giovanni Pico della Mirandola, e a Lorenzo de Medici). Un acrostico contenuto nel testo però, formato dalle iniziali dei 38 capitoli, indicherebbe l'autore dell'opera in un Francesco Colonna, secondo alcuni il frate domenicano dei Santi Giovanni e Paolo, secondo altri il principe romano, dal 1484 signore di Palestrina, forse "frater" dell'Accademia di Pomponio Leto.
Il racconto descrive un sogno erotico del suo protagonista, Polifilo. Si tratta di un viaggio iniziatico che ha per tema centrale la ricerca della donna amata, metafora di una trasformazione interiore alla ricerca dell'amore platonico. Il viaggio iniziatico richiama alla mente quello di un altro grande romanzo dell'antichità, le Metamorfosi di Apuleio. I continui richiami alle divinità dell'antica Roma fanno del romanzo un'opera dichiaratamente pagana (si veda, ad esempio, in Polifilo 15 la preghiera a Diespiter, che è l'appellativo con il quale veniva chiamato Giove nelle preghiere pronunciate dai sacerdoti di Stato nell'antica Roma), il che spiega come mai fu stampata anonima e perché recentemente si sia cercato di attribuirla ad altri, ben più noti, umanisti rinascimentali in odore di paganesimo.
Il libro è arricchito da 169 splendide xilografie, in gran parte ispirate all'idea di giardino rinascimentale.
 



[46]La montagna incantata , trad. it. Dall'Oglio, Milano, 1930, vol., I, p. 163.
[47] Properzio, II 15, 12. Se non lo sai, gli occhi nell’ amore sono gli occhi a dirigere

[48] Riccardo II Plantageneto (Bordeaux, 6 gennaio 1367Pontefract, 14 febbraio 1400) è stato re d'Inghilterra dal 1377 al 1399. La tragedia di Shakespeare è del 1595.
[49] Cfr. il gatto del Cheshire, lo stregatto che Alice vede appollaiato in cima a un albero scomparire a poco a poco cominciando dalla punta della coda, finché rimane solo un grin, una sorta di ghigno in forma di riso (Alice nel paese delle meraviglie, di Lewis Carrol, 1865).
all right”, said the Cat, and this time it vanished quite slowly, beginning with the end of the tail, and ending with the grin, which remained some time after the rest of it had gone.
Well I’ve often seen a cat without a grin” thought Alice; “but a grin without a cat! It’s the most curious thing I evere saw in all my life!”  (capitolo VI Pig and pepper, porco e pepe). Il nonsense e la morte

[50] Arezzo 1304-Arquà 1374.
[51] Stratford on Avon 1564-Warwickshire 1616. Love's labour's lost è del 1594-1505.
[52] Le plus belles lettres d'amour , tratto da Lunario dei giorni d'amore, p. 502.
[53] All'ombra delle fanciulle in fiore, p. 397.
[54]La coscienza di Zeno , Dall'Oglio, Milano, 1938, p. 317 e p. 319.
[55] Labano ndr
[56] Rebecca ndr
[57] T. Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, La storia di Giacobbe, pp. 265 ss.
[58] Compendio di psicoanalisi, in Freud Opere , volume 11, p. 617, n. 1.
[59] D. Puliga e Silvia Panichi, In Grecia, p. 199.
[60] J. Hillman, Il codice dell'anima , p. 112.
[61] Fra Luca Bartolomeo de Pacioli, o anche Paciolo (Borgo Sansepolcro, 1445 circa – Roma, 19 giugno 1517), è stato un religioso, matematico ed economista italiano, autore della Summa de Arithmetica, Geometria, Proportioni e Proportionalità e della Divina Proportione. Egli è riconosciuto come il fondatore della ragioneria.

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